RIGA 8 ITALIA. La scrittura apocrifa

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a cura di M. Belpoliti e E. Grazioli, Marcos y Marcos, 1995, pp. 231-232.

Marco Belpoliti a Marco Ercolani

20/1/1995

Caro Marco,

come sai seguo da anni il tuo lavoro, lo seguo da lettore curioso, ma anche come chi, nell’ambito della scrittura, ha scelto una strada molto differente, a volte persino antitetica. Della tua produzione, ampia e sempre intensa, mi incuriosisce il registro, il tono che mantiene, sia che ti avventuri nella scrittura di racconti gotici, sia che si tratti di aforismi o brevi pensieri sull’arte e la vita, sia che ti dedichi al romanzo o alla stesura di vite immaginarie di artisti, poeti, scultori, filosofi e scrittori. In quei testi, all’intensità emotiva si accompagna sempre una facilità di scrittura che supera di slancio le barriere che incontra, oppure s’insinua come un liquido nei pertugi lasciati aperti dalla vita, dall’arte, e persino dai misteri che circondano le biografie dei personaggi di cui ti occupi. Tu sai che all’interno del tuo lavoro prediligo quelle parti dedicate al sogno, alla pittura, non dunque alle persone ma agli oggetti (quadri, soprattutto), i luoghi materici, e insieme immaginari, in cui ritroveremo per sempre la traccia dell’artista Forse sarà la mia ritrosia a spiegare l’opera con la vita (sebbene le due cose siano indissolubilmente legate), forse sarà quel tanto di romantico che ancora sento nella tua scrittura inventiva – il mito del “pensiero estremo” – ma la mia predilezione va dunque a un paio di opere che hai scritto fianco a fianco con Lucetta, L’Atelier e altri racconti, che mi appassiona a ogni rilettura e di cui mi piacerebbe raccogliere in questo numero di “Riga” qualcosa, e Détour, il libretto che hai pubblicato dieci anni fa in edizione limitata, da cui, se tu e Lucetta mi autorizzate, vorrei trarre alcune pagine sulla pittura.

Quello che mi affascina in questi due lavori è il continuo rimando tra parola e immagine, tra scrittura e pittura, tra arte e vita (ma sempre passando per l’oggetto, per l’opera); questo tipo di lavoro è certamente unico in Italia, qualcosa di prezioso per chi, come me, continua a coltivare un interesse parallelo per arte e letteratura, sebbene in forma diversa da te. Tu sai quanto m’interessi la contaminazione tra i linguaggi, l’incrocio, il chiasmo, lo scambio, la permutazione, tutte cose assai difficili da realizzare ma che, nella tua scrittura, sempre in bilico fra poesia e saggismo, mi pare di ritrovare (così, in modo assai diverso, ma sempre in chiave “visionaria”, trovo in un pittore-scrittore, Enzo Fabbrucci, la medesima tensione, risolta però in modo tanto differente: anche questo è Grazia!)

Ho appena letto le tue Vite dettate, il libro che hai pubblicato da Liber, che raccoglie una parte considerevole del tuo lavoro intorno alle vite di artista, e sono stato colpito, ancora una volta, dalla tua scrittura intensa e icastica, ma anche dal tono sacrale che echeggia in questi racconti apocrifi, tanto che vorrei che tu mi parlassi anche di questa parte del tuo lavoro che mi pare concentri al meglio gli aspetti che finora avevi disseminato in differenti generi e che, sul piano letterario, costituisce senza dubbio una prova molto originale nel panorama italiano. Ripensando a una cosa che credo mi abbia scritto tu stesso, qualche tempo fa, quando eravamo assidui nella corrispondenza epistolare, mi pare sempre più vera la definizione del tuo lavoro come “sogno della scrittura”; questa formula mette bene l’accento sull’aspetto onirico, pulsionale, ma anche poetico, che soggiace nel tuo scrivere e a cui, penso io, l’attività di psicoterapeuta che conduci nella vita non è per nulla estranea (anche di questo mi piacerebbe tu parlassi).

All’inizio, quando ho cominciato a leggerti, credevo che il tuo campo di intervento fosse la letteratura e scavavo per citazioni o rifacimenti quelli che invece erano aspetti onirici attinenti proprio all’attività dello scrivere letterario (naturalmente l’attività dello scrivere letterario non in assoluto, ma così come l’abbiamo conosciuta in questi ultimi venti o trent’anni, così come ci è stata trasmessa dalla cultura in cui siamo cresciuti attraverso i libri che abbiamo letto, gli autori che abbiamo frequentato). In ogni frammento delle tue vite d’artista sento echeggiare un’unica, grande voce che apparenta ogni personaggio all’altro, così che ogni personaggio diventa solo un’incarnazione provvisoria e momentanea (sebbene assoluta) di un unico processo generativo che non ha né inizio né fine; così la stessa attività dello scrittore – tu, in quanto scrittore di queste vite che ti vengono “dettate” – non è che una testimonianza frammentaria, ma anche la necessità di disobbedire al destino di narrare qualcosa che fugge per andare a incarnarsi subito in un’altra forma. Forse è per questo che, nonostante il carattere di assolutezza che hanno le tue vite, nessuna è mai “la” vita, ma ce n’è sempre un’altra e un’altra ancora.

Scrivimi presto, parlami del tuo lavoro e mandami testi nuovi.

Marco

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Marco Ercolani a Marco Belpoliti

Genova, 11/2/1995

Caro Marco,

parlarti della mia scrittura è imbarazzante. Potrei dirti che, scrivendo, ho viaggiato molto e a ogni libro ho sempre allontanato un po’ di più la meta del viaggio, fino a pensare di non essere io il solo a a parlare. In fondo molti miei temi potrebbero essere riassunti in un appunto di Baudelaire: «Della vaporizzazione e della centralizzazione dell’io. Tutto sta qui». Giuseppe Zuccarino, commentando i miei Taccuini di Blok, ha scritto, in una lettera molto bella: “La scrittura può richiedere la parola “io” o una mano (guidata, certo, da una mente) che nuova la penna o batta sui tasti, ma non ha bisogno della stampella costituita da un parlante identificabile con anagrafica certezza, perché sa come procedere e dove dirigersi. Lo scrittore, se vogliamo esprimerci per assurdo, è una mano pensante, una mano che non obbedisce agli ordini, ma anzi corre via, come La main enchantée di Nerval».

La mia scrittura apocrifa è questa mano che scrive sognando corpi e pensieri a cui legarsi ancora, nel passato e nel presente. Hai mai immaginato, Marco, leggendo e amando certi libri, come sarebbe stato bello conoscere il diario intimo, la lettera mancante, la confessione segreta dell’autore che stai leggendo? Sognare altre sue pagine che si confondano a quelle vere, pagine che non esistono ma che potrebbero esistere perché tu le stai pensando, le stai trovando. Perché tu fantastichi l’altro libro, l’altra parte. Il libro della notte, direbbe Canetti.

La scrittura è metamorfosi: è qualcosa che fugge per andare subito a incarnarsi in un’altra forma. Ma come fa ad appagarsi di quella forma, ad essere solo poesia o saggio o romanzo? Come fa, la febbre di una pulsione, a pensarsi nei confini rassicuranti di un testo?

Scrivendo vite apocrife, mi sono messo al centro del paradosso. Ho deciso che scrivere è una febbre che inventa e rinnova le sue forme proprio perché vuole restare febbre, perché non vuole mai tornare alla temperatura normale. Il viaggio nella visione che avevo iniziato è diventato un viaggio più radicale, dove l’autore sparisce e al suo posto parlano mille autori possibili. Al povero, vecchio io, risponde la felice tragedia di una personalità multipla. Come suggerisce un amico “ogni scrittore ne sogna un altro”.

La scrittura apocrifa “perturba” il passato, non lascia tranquille le tradizioni, rimescola le carte. Forse io non accetto la morte definitiva dell’artista: lo voglio sempre vivo perché continui a parlarci e a nutrirci col suo messaggio. Che è anche il mio. Il gioco dà un po’ la vertigine, ma merita di essere giocato. Trovare il segreto di sé nell’anima di un altro significa scoprire, con Michaux, che «l’io è solo una posizione di equilibrio tra mille altre continuamente possibili e disponibili».

La scrittura apocrifa è la terra di nessuno dove si compie una strana esperienza: l’io dell’autore si distacca dal testo che va creando, non riconoscendolo come suo, e il “doppio” prescelto si trova attribuito a un testo che non è suo e che è falso. Questo simultaneo mascheramento rende la scrittura eco di un’eco, unica voce di un processo creativo ininterrotto e fluttuante, mise en abyme del riflettere e del narrare la parola dell’artista reinventando le parole degli artisti. Ma questo mascheramento è, in qualche modo, uno svelamento che non spiega mai l’enigma che svela, e ha delle singolari analogie con la natura della metafora; perché come la metafora è sempre in bilico tra perdita del senso e ritorno al senso perduto.

L’opera non è mai una biblioteca di testi con i volumi allineati nel loro ordine immobile e funereo, ma una fucina di parole che cancellano e ricreano parole un sistema complesso, instabile, brulicante, dove la scrittura è ancora sogno in attesa delle parole adeguate. Pseudolongino, nel suo Del sublime, spiegava come ogni artista debba essere particolarmente attento all’adeguatezza espressiva, al modo in cui esprimere, con giusta efficacia, la sua differenza, il suo “stile”.

Qualcosa di analogo accade allo psicoterapeuta quando, cercando di sciogliere certi nodi psichici, cercando di inventare metafore nuove per chi è bloccato nella propria solitaria e disperante metafora, si scontra con il dolore del mutamento e della metamorfosi, e deve insegnare al “matto”, che vive sempre in uno stato di sogno, come utilizzare il suo sogno. Come strapparlo alla notte del taciuto per farne materia viva, parola, diario di sé.

La scrittura apocrifa è stata ed è per me un diario intimo. Non a caso molti iei racconti sono taccuini o lettere o frammenti di taccuini e di lettere, e gli artisti che indago sono dei “disperati”, dei dimenticati o dei folli. Vite estreme o comunque vissute da una prospettiva estrema: quella del segreto, della parte oscura di noi. Ci sono delle ossessioni che il passato non ha consumato fino in fondo. Ci sono delle opere ancora da scrivere, delle visioni di cui fare e rifare esperienza, mantenendo la memoria del segreto, continuando il viaggio.

Come acutamente ricordi, è con Lucetta che ho cominciato questo viaggio. Lei scriveva poesie, io racconti fantastici. Poi ci siamo incontrati e abbiamo vagabondato intorno a opere, quadri, pensieri. Abbiamo sognato insieme. Ed è stato un vero sogno, di quelli che possono realizzarsi. Il nostro lavoro, nei racconti de L’Atelier, su quello che tu chiami “il sogno della pittura”, si è trasformato in un progetto più vasto e complesso. Lucetta mi è stata compagna nel pensare un libro di racconti apocrifi à deux, Nodi del cuore, che stiamo finendo di scrivere. In questi racconti, che riguardano sempre destini di artisti, immaginiamo dei carteggi fra coppie celebri, dove il monologo visionario è anche dialogo problematico sul rapporto uomo-donna, arte-vita.

Letteratura, ancora una volta, la nostra, che vuole mettersi all’incrocio di molte strade, de-ludendole tutte, reinventandone una diversa – mitica , atipica, inattuale: la scrittura ipotetica. Che, nell’universo sconfinato delle ipotesi, ha una sua costanza etica: restituire voce agli scomparsi, non rassegnarsi al silenzio di chi doveva o avrebbe dovuto palare, e quindi ritrovare quelle parole perdute, fraintese, dimenticate. In questo modo, mi sembra, può continuare il sogno della scrittura, che non è e non potrà mai essere soltanto l’opera letteraria ma sempre qualcosa oltre.

Ora concludo. E dopo tanto tempo mi accorgo, grazie a te, di non avere scritto una lettera apocrifa. La cosa mi sorprende e mi rallegra allo stesso tempo.

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