
Chiacchiero con voi, oggi, per capire come (o perché) quarant’anni di scrittura, diciamo grosso modo 10.000-20.000 pagine, siano rimaste solo un mio progetto privato, un edificio innalzato per pochi e attenti amici, laterale a ogni forma di scrittura contemporanea anche considerata marginale. Ho voluto seguire il consiglio di Beckett: «Fallire ancora. Fallire meglio». Era questo il mio progetto? Potrei dire di sì, ma non sarebbe vero, vista la celebrità di Beckett e di molti autori altrettanto celebri, come Giacometti, nel descrivere la loro sconfitta.
C’era qualcosa, fin dall’inizio, di troppo “intimo” nella mia scrittura; qualcosa che riguarda meno la letteratura che la mia ossessione di un io-maschera, di un io-non-io che sondi le zone d’ombra della psiche. Le inevitabili conseguenze: l’enfasi sul non detto, la finzione che diventa vera, il potere del sogno, l’amore per generi “segreti” come lettere e taccuini, l’indagine “nella” follia.
Ho ostinatamente continuato a identificarmi con vite e pensieri altrui, con “anime perse” da far tornare alla luce per un attimo – artisti, folli, poeti di oggi e di ieri, me stesso – e salvarmi con loro, riperdermi con loro. Un sogno donchisciottesco, consumato prevalentemente nella cripta virtuale dell’apocrifo, un sogno composto di scritture visibili che vogliono fantasticamente riparare soprusi e, con inchiostro simpatico, si mettono sulla scia di altre parole già dette o non dette, e spariscono, tornano invisibili. Un atto illuminista e onirico: correggere ferite, ingiustizie, orrori, silenzi,con lo strumento del sogno. È il mio caparbio “discorso contro la morte”.
Torcere il reale con un atto consapevole di immaginazione fantastica, simile a quello che compie Don Quijote nelle rovinose finzioni evocate dalla sua follia cavalleresca. Un atto che, di per sé, è sogno incompiuto, lacunoso, assoluto, interminabile; un attimo di equilibrio sull’orlo del precipizio, «un prodigioso equilibrio in uno stato di disastro ininterrotto, in un continuo franare», come scrive Michaux della follia. Un sogno del genere non può avere una vasta platea. Scrive Ruggero Jacobbi, saggista poligrafo: «Tieni sempre a distanza misurabile colui che scrive il saggio interminabile». L’industria editoriale deve tenere distanza autori come me, e finora lo ha fatto con successo. Magari si può sperare che «l’accumulazione quantitativa produca un sospetto di qualità incompresa» come scrive Umberto Eco del poeta torinese, poligrafo eccentrico, Augusto Blotto, ma questa è spesso una falsa speranza. Louis René-des-Forêts ci ricorda che l’opera fallisce quando perde il senso della sua impossibilità: in questo senso, e solo in questo, la mia scrittura borderline non è fallita perché resta ben salda nel regno del suo impossibile ed è classificabile solo come anomalia, come caso clinico. Quale sarebbe, allora, il mio “caso”? Potrei racchiuderlo in una sentenza di Novalis: «l’uomo è metafora». Vuole essere qualcosa di diverso da quello che è e non appagarsi, non soddisfarsi mai, ma essere all’interno di questo desiderio. Questo desiderio è il processo creativo, incompiuto, teso a raggiungere qualcosa di sempre ulteriore. Un processo che non ho mai smesso di sondare nelle mie prose e che salva l’artista e contemporaneamente lo rende folle: «una linea chiara nel caos», come suggeriva Roberto Bazlen.
