
“Devi stare al tuo posto,/ seduto, senza sforzi,/ come il destinatario/ di un colpo di pistola”. Questi versi, che traggo dal nuovo volume di versi di Alfonso Guida, Diario di un autodidatta (Guanda, 2025), si adattano al ruolo del lettore di questo libro: l’attesa del colpo fatale. Chi si aspetta, leggendo, la formula inquietante o rassicurante del diario, resterà deluso: qui viene scoperchiato il multiverso del poeta in tutta la sua furente molteplicità. Qui viene convocato un mondo intero, fatto di nomi, visioni, stili, immagini, invettive. Il termine “convocazione” è adeguato. Il libro è un raduno di fantasmi, è i nodi del dolore di un uomo, appartato per vocazione interiore e collocazione geografica; un uomo del sud ancestrale che vive, da volontario recluso, nel paese di S. Mauro Forte, in terra lucana, immerso in uno stato di sfigurazione/trasfigurazione del reale, e che racconta di sé in modo tragico e stupefatto.
Guida ha avuto, dal destino, il dono di una follia aspra e illuminante che rende questa autobiografia in versi una cantata sacra e profana, un occhio sempre aperto verso l’abisso. Chi è ustionato da una storia di catastrofe mentale ne esce marchiato, gli occhi arrossati, la mente lucidissima, l’orecchio attento alle minime vibrazioni. “La lucidità è ingegno matematico./ La mente riposa dopo una lunga/ guerra di scacchi, un alterarsi acido/ di meningi. Sei stanco. Ti rallegri/ Crolli. La stanza corre via dagli angoli./ Sudi. Rifletti. Ascolti ciò impari” (Horror vacui). Niente sembra fermare l’inafferrabile, sfrenata parola del poeta. Il silenzio è la sua sentinella segreta. Il poeta crea tutto ciò che vede. C’è una notte invisibile in queste parole che non smettono di venire alla luce: notturne, sibilline, esatte. “Soffrirai le mie passioni, i miei demoni/ smarriti, le mie scritture sfibrate,/ le mie apparenze mascherate, le ombre/ libertarie, le indecenze svendute.// Soffrirai le mie speranze taciute,/ le mie disperazioni, le mie mute,/ le mie spoglie. Mia madre e mio padre. Orse/ di un buio indefinito, tu mozzato.// Soffrirai i miei spazi bianchi, i miei tempi/ sfuggiti alla parola…” Ma chi può fuggire questa parola che incalza, che assedia l’autore, che non gli consente pause? Se “nessun precipizio è terra d’approdo”, significa che il viaggio continua, oltre ogni caduta.
Questa poesia sfonda i limiti e va oltre: non chiede di essere classificata o giudicata. Il compito del critico non è più quello di comprendere un viaggio: è quello di immergersi in una incessante “parola in atto”, in un monologo suddiviso in stazioni-poesie, tappe di un calvario per il quale l’autore non sa trovare una fine. Chi legge si trova a vagare tra narrazioni prosastiche, incursioni biografiche, impennate sapienziali, e non sa dove inciamperà alla prossima pagina. “La strada non c’era, ma ho cominciato/ presto a camminare. Non c’era niente./ Solo un vuoto orrido da cui pendevo./ Questo sentirmi attinto da un coltello”. A volte, leggendo Guida, ci si sente incollati al flusso rovinoso che non ci mollerà. La domanda è: ma vogliamo proprio seguire questa avventura umana estrema, sapendo che ci porterà soltanto nel suo “cuore di tenebra”, e anche oltre questo cuore? Le sabbie mobili, che il lettore incontrerà non volendo separarsi da queste pagine, sono la soglia del discorso. Siamo, in modo evidente, davanti a una poesia drammatica e barocca che rifugge dal barocchismo del lessico e ci sprofonda, attraverso la lingua dei nomi e delle cose, nell’abisso meduseo che sempre temiamo. “La terra è un crollo, un abisso descritto/ dantescamente da Caproni. Inizia/ l’estasi, l’entusiasmo. T’incammini”.
Scrivo, oggi, di Alfonso Guida e mi torna alla memoria il verso, denso di solitudini, di Ugo Foscolo: “Tu sol mi ascolti, o solitario rivo”, oppure la sconsolata A me stesso di Giacomo Leopardi: “Non val cosa nessuna/ I moti tuoi, né di sospiri è degna/ La terra. Amaro e noia/ La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo”. Guida ci mette nel guado di un dolore che rifiuta conforti. Questi i versi conclusivi del suo libro: “Ti scrivo dal profondo dormiveglia/ di una tregua spaventata, sprovvista/ d’inclinazione alla pace o alla quiete, / stretta tra due rose di poche spine./ Mi sto allontanando. Vado lontano./ Mi allontano. Cerco. Divago. Indugio./ Sono una figura di troppi lati./ Sono io lo scavo muto di una pioggia/ riflessiva. Ti scrivo da una riva”. Ma questi versi non concludono, non scelgono nessuna direzione per “una figura di troppi lati”: ci mettono nel guado di una vita ancora da patire o da gioire: “Mi sovrasta una gioia di terra emersa”. Il poeta è sempre nudo, con il suo dono e il suo mistero, inattuale sentinella curva sul precipizio. “La verità ti accompagna nei secoli/ di una domanda, la stessa, impossibile/ da porre, muta, viva, come il fuoco/ di un tedoforo spartano o la lotta/ di un santo, chiuso in cella, col suo diavolo”. Il tema che Guida svolge è sempre legato alla sua vulnerabilità ontologica, alla sua inadeguatezza esistenziale. “Fuori traccia, il tema svolto. All’inizio/ mi sono confuso, sbagliando il compito./ Certo, ho dovuto fare un salto indietro/ fino al canto del mondo delle origini/ per staccarmi dal peccato di amarvi, / di amarvi a uno a uno, nel buio, come ognuno/ mi ha chiesto e ha voluto che fosse amato./ Mi sto accorgendo ora di aver sbagliato/ nel darvi sempre un senso e un imprevisto”.
Guida ha la capacità di sviare il lettore, di togliergli la terra da sotto i piedi. Ora usa un tono basso e volgare, ora un tono alto e sapiente, poi racconta il destino di un dannato della terra, infine convoca nomi e storie, reali e immaginate. Mischia le carte, ma non per ingannare. Al contrario: vuole essere fedele a una sincerità scomoda, ustoria, che brucia i confini fra i generi, inventando giravolte e precipizi. Guida fa sua la definizione di Char quando afferma che “la poesia è pericolo”: scrivendo, si rischia di morire ma non si accetta mai nessuna morte. L’interminabile monologo di tutti i suoi libri è lì a dimostrarlo. Il poeta si sente “avvenire”, è lira suonata, è l’’infinita passività dei morti”, direbbe Blanchot. Guida sa che non giungerà alla radice dell’albero delle sue voci: quella radice è inattingibile. Ma intanto quelle voci le esplora e le urla: “L’energia nera, dicono,/ delle case in cui hai urlato,/ delle case in cui solo/ per te sei morto e hai evaso/ la regola comune/ di cercare ben oltre/ le tue mura d’amore./ Qui sono posseduto,/ combattuto, disgiunto./ Qui sento che l’immagine/ del corpo mi traspare”; “Mi tormentava l’insonnia, la pena di non distinguere bene la strada. Procedevo alla rinfusa. Aspettavo la terra. Avevo perso, non la casa, ma la terra, parte di questa terra”.
L’eccesso espressivo è la colonna portante di questa poesia, incapace di placarsi neppure se attinge alla verità della propria esperienza. Una verità ne chiama subito altre: la figura disperata e proteiforme, cosmica e immanente, di Guida, se trovasse pace morrebbe. Ha, fra i poeti, alcuni compagni, non più vivi e mai morti: Beppe Salvia, Dario Bellezza, Amelia Rosselli, Mario Benedetti, Lorenzo Calogero. Anime strane che vanno e vengono dalla sua mente e dalla sua pagina. La brulicante molteplicità è il sisma vulcanico che deflagra nel libro di Alfonso, una molteplicità carica di parole furiose che, come ordigni, esploderanno, in endecasillabi e settenari, dal bianco sempre intatto della pagina. “Mi era astratto assillo la realtà./ Sfidavo l’acropoli – da funambolo”. Se dovessi trovare, per Alfonso Guida, un qualche sintesi espressiva, direi che è un uomo allibito dal suo vedere senza palpebre, un vedere che ignora la tregua. (M.E.)
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Da Oniromanzie
Paradossi, parabole, il pensiero
tellurico di sapermi in attesa
di una riposta. Nessuna pretesa.
Nessuna tesa o illesa verità
di bandiera, di patria. Ma pietraia.
Lì abitavo. Lì morivo e crescevo.
Nella brughiera cupa, soleggiata
di un’antica terra fatta pietra,
durezza crivellata. Nessun lutto.
Nessuna felicità. Nessun dubbio.
Mi ritrattavo da ogni tesi, diatesi,
paradigmi di versi impersonali,
di verbi deponenti, verbi anomali.
Parlavo lingue di alieno – ufo – mostro.
Parlavo strambi linguaggi di vento,
vinti al vostro scherno, al mio astro in declino.
La scoperta del trauma del Doppio.
La scoperta di non essere solo,
mai del tutto uno e solo, mai isolato,
come da un 41 bis interno,
territorializzato al mio corpo intimo.
Mai uno e solo ognuno è dentro, scrivendo.
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Ponte Galeria
La tuta Agip del ragazzo albanese.
Pozzanghere di pioggia. Asfalto rotto.
Le medicine sbagliate. Il latino
di Santa Lucia. Maria Grazia. Gloria.
Finivo, all’alba, come uno spavento,
tra i corridoi e le serrande sbilenche
di un treno e Gabriella, che leggeva
Pasternak, parla dell’erba fitta
delle borgate e il sole alto alle sette.
Di amare circostanze. Mi parlava.
Rischiai l’espulsione dall’istituto.
La folla vedeva. Vedeva tutto.
Dal nero di un foglio millimetrato,
Vedeva nero straniero, buio caos.
