Sorprende, in Ritratto di donna al mare con bambino, di Francesco Macciò (puntoacapo, 2025) come l’autore, pur profondamente legato alla tradizione letteraria italiana, sperimenti combinazioni musicali nuove, che frastagliano la compattezza metrica del testo. «Un lungo processo di elaborazione, destinato a stratificazioni successive, ha portato alla luce questo volume in una partitura che pensavo finalmente definita e pertanto definitiva”, scrive l’autore nella premessa, confermando che il libro, come ogni vero libro, non risponde solo al desiderio e al progetto di chi lo costruisce ma anche all’imponderabile, alla necessità di togliere, cancellare, sostituire, trasfigurare. «D’altra parte, in queste vicende e per quelle cose, mi è parso sempre disappropriato e pretenzioso, persino a distanza ravvicinata, il possessivo “mio”».
Nove le sezioni del libro: Ritratto di donna al mare con bambino, Riquadri in chiaroscuro, Dialoghi con il padre, Rapsodie in principio di voce, Nel cristallo di questa stanza, Velocità, Autunnale, Il mondo tra parentesi, Numerologia. Titoli evocativi, che generano rapsodiche incursioni. Inizio questa nota (ogni “nota” ha il dovere di risuonare) con una poesia che mi ha spinto a diverse riletture: «Si comincia sempre dal mezzo./ Nel mezzo non sono mai bianche/ le pagine. Sono tutte già scritte.// Parole dette da altri,/ congegni da smontare/ e ricomporre come una voce/ dentro le voci. Come le cose/ a picco in un punto, in un’idea.// Le stesse cose a sbreghi/ e suture. Le cose stesse/ nel bianco di ogni colore». Come separarsi dall’immagine rocciosa delle “cose a picco in un punto”? Dalle cose immerse “nel bianco di ogni colore”? Il poeta non si nasconde: antepone, alla musicalità dei versi, la forma, scabra, di un pensiero dolente sull’esistenza. E, più oltre: «Mette il mondo tra parentesi/ in minutissima grafia,/ traccia quel segno che rimane / per potersene andar via». Non so quanto voluto, ma il riferimento immediato va alla micrografia di Robert Walser, capace di addensare in un foglio fitto di parole indecifrate un racconto o un romanzo. Un “mondo fra parentesi” è sempre il regno del poeta, il suo segno è l’occasione per fuggire il prevedibile regno delle cose. Le cadenze di Macciò ci propongono, a inizio libro, una visione dove la pienezza dello sguardo è la consapevolezza di una irrimediabile malinconia: «È già tutto dentro di me/ il tuo viso che sfiorisce,/ il mistero di insetti come nuvole/ che offuscano il sole,/ quest’albero di foglie dure/ che non ci appartiene/ e i suoi grandi fiori bianchi/ dove risorge il mondo in un niente/ e diventano mie/ le tue scarne parole». Il dettato del poeta ha una sua sobria, classica solennità, dove domina la dolorosa litania del ricordo: «Neppure una virgola resterà di noi/ come di nessun altro/ nel dissesto di questa terra»; «Se soltanto potessimo scoprire/ nel profilo scavato dei monti/ quell’orizzonte che non conosciamo…»; «Nel suono di una sola nota/ un alfabeto immaginario/ disegna nell’aria la forma/ di un corpo che muore».
Ogni lettore ritaglia, in un volume di versi, il libro personale che si adatta alle sue più intime emozioni. La voce del poeta, se è sincero colloquio con se stesso, ci parla di una verità sacra e vera per tutti, dove madre, padre, giochi, infinito, nostalgie, nomi, misteri, formano la materia comune di un viaggio “al termine della notte”. «Tutto è segretamente qui/ come un fascio di cartilagine,/ un osso ostile, come i boschi,/ le sorgenti, i volti che vegliavano/ sicuri su noi bambini e sembrava/ non dovessero mai avere fine». Permane innegabile, in Macciò, una virgiliana nostalgia, un suo intimo lacrimae rerum, la sensazione di un implacabile svanire. L’autore è consapevole che la tessitura delle parole è il mosaico di un dolente e ripetuto andare: «Non è che un ricordo, un calco/ di vertebre in frantumi/ quel posto sotto la pensilina/ tra i bidoni dei rifiuti/, un posto di scambio dove qualcuno/ qualcuno ha lasciato/ un bastone da passeggio,/ un ricettario,/ una giacca come una vela/ Forse la vita – quia teritur -/ anche la vita come la terra/ è di chi la ama, di chi la consuma»». Il “posto di scambio” ci avverte di un destino comune, ma “una giacca come una vela” è il segno preciso della speranza. Leggere il libro di Macciò è osservare/udire una partitura i cui tempi non sono prevedibili: ora vibra l’andante con moto della nostalgia, ora il presto agitato dell’indignazione: «Nasce sempre intorno al fuoco/ la poesia: è compassione, ribellione,/ è nel vento e nel silenzio…». Non mancano fenomeni di identificazione con i “dannati” della terra, con le vittime dei lager: «Nella luce ambrata/ scorgo il simulacro di un corpo/ magro che sembra il mio/ o quello di un mio antenato/ drenato nelle cartilagini,/ nel talco delle ossa, anch’io/ come lui uomo chiodo/ disceso dalle balze d’Appennino/ in queste basse zone di città/ e di pianura». Ma prevale, nella poesia di Macciò, la fermezza della disperata speranza, che proprio attraverso le parole, spesso viste come schegge o macerie, prende voce e forma nel tono dolce e sapienziale del discorso: «”Non devi avere paura:/ non finisce qui la terra,/ c’è ancòra altra terra/ sotto il mare, e ci sono/ radici, scogli, erba,/ paesi nuovi da esplorare.// Si dice che sulla terra/ si appoggi, non si sa come,/ tutta l’acqua e sul fuoco/ l’aria e il fondo del mare…”».
Il libro si chiude con i guizzi delle Numerologie finali, brevi, ironiche, serissime litanie-enumerazioni, che riportano la poesia al suo essere parola che evoca parole, senza obblighi di discorso, messaggio, suono. Citiamo almeno Sette, che conclude il libro: «I colori dell’arcobaleno/ Le meraviglie del mondo/ Le note musicali/ Le grandi isole di plastica/ I vizi capitali I metalli/ I veli della danza/ Le sfere celesti/ Le arti liberali/ I giorni della creazione/ I Sacramenti Le virtù/ Le stelle dell’Orsa/ Le Pleiadi Le vocali/ I mesi del pianto di Orfeo/ Le vertebre cervicali/ I colli di Roma I chakra/ I bracci della Menorah / Le porte di Tebe/ I nani di Biancaneve/ Gli attributi di Allah/ Gli dèi della felicità/ I sigilli dell’Apocalisse/ Gli uomini d’oro/ I dolori di Maria/ Le vite dei gatti/ Quelle di mia madre/ Le foci del mare/ I magnifici…/ miei lettori…»
Ma l’ironia di Macciò, che avvicina il pianto di Orfeo alle vertebre cervicali, le vite dei gatti ai magnifici lettori, non deve indurci in inganno. La tessitura del libro, che procede per sequenze diverse come un poema musicale, è un lungo compianto che non ci avvicina a qualche improbabile futuro ma ci rende viva linfa del passato, recente e remoto, nei suoi nodi di dignità e di dolore. I Lirici greci, tradotti da Salvatore Quasimodo, sono lo sfondo non troppo segreto a questa poesia essenziale, asciutta, commossa, che mette i suoi timbri al servizio di una ferrea grazia espressiva: «Ritornerà anche ciò che amiamo/ nel prodigio di un’altra forma./ Soltanto la polvere/ preserva ogni traccia, / ogni cosa che ricade in se stessa/ e disseccandosi scompare».(M.E.)
*Francesco Macciò, Ritratto di donna al mare con bambino, note di Giuseppe Conte, Fabio Pusterla, Davide Conrieri, puntoacapo editrice, Pasturana, Alessandria 2025.

