DISUBBIDIENZA. Marco Ercolani

La tua domanda mi tormenta fin dall’inizio. Essere schiavi è l’inizio di tutto il dolore umano. Quando si è asserviti a teorie o a persone, si comincia a impazzire, proprio per combattere quelle prigioni. Da qui l’istinto di fuggire, l’ossessione del nomadismo. Ascoltare sì, ma non assentire al mondo come se ne fossimo solo gli specchi. Vivere da monaci in esilio, fuori dal mondo non per troppo tempo, solo per il tempo che decidiamo noi: il tempo della misura adeguata a costruirci un temenos interiore, una riserva sacra dove nessuno potrà entrare: una stanza munita del giusto vento dove saremo al riparo dall’oltraggio che il mondo attua sempre, società contro individuo, uomo contro uomo. Saremo noi ad aprire la porta della stanza, non gli altri a forzarla: un bambino può fantasticare solo all’interno di sé, cominciando ad erigere la sua fortezza interiore con la giusta dose di empatia e di equilibrio, e quell’intenso desiderio di bellezza che purifica dai più oscuri legami. La malattia mentale non è solo sintomo da cui guarire, non è mai difetto o lacuna, ma lotta spasmodica contro l’ordine rigido del discorso (potresti impararlo anche tu, senza scomodare Freud o Foucault). La psichiatria non è una scienza esatta ma un viaggio fluttuante nelle tenebre.

Nel gennaio del 1889 Nietzsche è giudicato clinicamente pazzo e le sue invettive filosofiche appaiono, allo sguardo dei lettori futuri, non come tappe di un nuovo ordine filosofico ma come anamnesi. In un aforisma di Aurora scrive: «Facciamo ancora un passo avanti: a tutti quegli uomini superiori che erano irresistibilmente attratti ad infrangere il giogo di una qualche eticità e a dare nuove leggi non restò nient’altro, se essi non erano realmente folli, che diventare pazzi o farsi passare per tali; e ciò vale in verità per i novatori in tutti i campi». Con Nietzsche il desiderio di essere folli entra nella storia della filosofia e la necessità di un pensare oltre, fuori dai bordi della ragione, diventa sostanza fondante del pensiero, come le categorie del discorso. Ma chi sprofonda definitivamente nella malattia mentale rischia di perdere quella che è la vera fiamma della follia, di trovarne le braci carbonizzate negli archivi di una letteratura psichiatrica destinata a ripetere formule logore, riti asfittici. L’idea del folle, se non viene offuscata dall’uso prolungato degli psicofarmaci, è e resta quella di una chiesa incomparabile, dalle guglie altissime, che rende immune dai pensieri meschini degli altri: una cattedrale personale inscritta nei segreti di un sapere che niente ha in comune con gli altri saperi perché è un lampo che sconfina fuori dalle terre ragionevoli.

Antonin Artaud, nei suoi Cahiers de Rodez, scrive “C’est la recherche d’un monde perdu / et que nulle langue humaine n’intègre”. Lo scrittore francese parla di un mondo perduto, di una lingua che non può integrarlo. Le teorie antropologiche dello psichiatra Binswanger sono davvero diverse dalle parole del folle Artaud? Ogni uomo è alla ricerca di un mondo perduto e irriconciliabile, come io stesso rivelo in molti racconti autobiografici e fantastici, parlando di sospensioni e di vertigini. Come scrive, nei versi della Nona Elegia, Rainer Maria Rilke: «Quest’essere / stati una volta, anche una volta sola, / quest’essere stati terreni pare irrevocabile». Rilke parla da una prospettiva angelica, ma essere terreni è una responsabilità precisa. La stirpe umana ha meritato un giudizio, quello sì, irrevocabile, sulle proprie non perdonabili colpe. Lo scrittore deve lottare, libro dopo libro, perché tutte le guerre che ha visto esplodere in tutti gli angoli del mondo, da Serajevo a Bagdad, da Sétif a Bassora, non vengano cancellate dalla memoria collettiva come dall’indifferente commento di un cronista corrivo al potere.

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“Di fronte a molti uomini parlai ad alta voce con un istante di una delle loro altre vite”: questa frase di Une saison en enfer trafigge da sempre ogni poeta. Hai fatto bene a chiedermi se il ragazzo di Charleville è uno dei miei scrittori prediletti. Non potrebbe non esserlo. Rimbaud, il vero nomade, gioca con la necessità di essere le proprie vertigini, con il pericolo di viversi oltre lo spazio e il pensiero. I calessi, i mostri, i misteri, le moschee, le officine, le pitture idiote, i titoli da vaudeville, sono “la patria d’ombra e di gorghi” che il poeta raggiunge, e da cui non si allontana. Con Une saison en enfer la lingua poetica è eternità che si ritrova e mare dissolto nel sole. Il sarcastico Rimbaud sposta le frontiere del noto in avanti, verso ciò che di inaccessibile e di sovversivo predispone per noi. Prepara scritture future, che prima di lui erano impensabili. Le rende possibili. L’uomo che scrive “credevo a tutti gli incantamenti” è lo stesso che scrive “Adesso posso dire che l’arte è una sciocchezza”. Come pochi altri classici della poesia, Rimbaud non è leggibile in modo conclusivo. La sua incursione nel mondo della letteratura è una meteora disgregante, un’intrusione che disarticola domande e risposte, un furore freddo e grottesco che imbarazza la magia stessa della scrittura. Come accade con Céline: la sua feroce disubbidienza ai canoni del pensiero comune è attuale sempre. Se è vero che lo scrittore vendeva benissimo i suoi libri antiproustiani, sghembi e geniali, bombe verbali annidate nell’armonica bellezza della lingua francese, è altrettanto vero che, con la sua aria da iroso e debosciato clochard curava gratis pazienti poverissimi. E lo faceva a bassa voce, senza i proclami antisemiti che torcevano la sua lingua massacrata dalle pause iperboliche, dai puntini di sospensione.

Essere non come Rimbaud e Céline ma essere accanto a loro ci rassicura: perdersi è inevitabile, ma nella strada giusta. Come accade a chi scrive quando sceglie certe scie, nella storia, dove non abitano solo i suoi libri ma intere generazioni di esseri perduti.

Antonin Artaud

Arthur Rimbaud

Louis-Ferdinand Celine

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