L’esperienza del deserto è stata, per me, dominante. Tra cielo e sabbia, tra il Tutto e il Nulla, la domanda è bruciante. Brucia e non si consuma. Brucia per se stessa, nel vuoto. L’esperienza del deserto è anche l’ascolto, l’estremo ascolto. Non solo si sente ciò che non si potrebbe sentire altrove, il vero silenzio crudele e doloroso perché sembra rimproverare persino al cuore di battere; ma capita anche, per esempio quando si è sdraiati sulla sabbia, che di colpo un rumore insolito ci incuriosisca; un rumore come quello di un passo umano o animale, ad ogni istante più vicino, oppure che si allontana, o pare allontanarsi, mentre in realtà segue la sua strada. Dopo un lungo momento, se davvero ci si trovava nella sua direzione, sorge dall’orizzonte l’uomo o l’animale che il nostro udito ci aveva preannunciato. Il nomade avrebbe saputo identificare quella «cosa viva» prima di vederla, subito dopo che il suo orecchio l’aveva percepita. Questo perché il deserto è il suo luogo naturale.
Così come il nomade ha fatto col suo deserto, anch’io ho cercato di circoscrivere il territorio bianco della pagina, di farne il mio autentico luogo; al modo dell’ebreo, che da millenni si è appropriato il deserto del suo libro, un deserto in cui la parola, profana o sacra, umana o divina, ha incontrato il silenzio per farsi vocabolo, ossia parola silenziosa di Dio e ultima parola dell’uomo.
Ma il deserto è assai più di una pratica del silenzio e dell’ascolto. È un’eterna apertura. L’apertura di ogni scrittura, quella che lo scrittore ha il compito di preservare.
Apertura di ogni apertura.
* * *
Il deserto
«La parola d’origine è parola del deserto; oh deserto della nostra parola», scriveva reb Aslan.
«Non c’è luogo per chi è condotto dai propri passi verso il luogo natale;
come se nascere non fosse altro che andare verso la propria nascita.
Il mio avvenire è la mia origine», diceva.
«Non vi è più possibilità di ritorno per chi si è inoltrato nel deserto. Venuto da altrove, l’altrove è il suo orizzonte geminato.
Sabbia è la domanda. Sabbia è la risposta. Il nostro deserto è illimitato», scriveva reb Semana.
In ciascuna mano teneva un po’ di sabbia: «Da una parte, le domande; dall’altra, le risposte. Le une e le altre hanno lo stesso peso di polvere», diceva anche.
Creare è trasformare il futuro nel passato di ogni atto.
Con regolarità esemplare, l’ebreo riprende il proprio cammino volontario verso il deserto; va incontro a una parola rinnovata che è divenuta la sua origine.
«Creando, tu crei l’origine in cui ti inabissi», scriveva reb Samua.
«L’origine è abisso».
reb Behit
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– Se Dio ha parlato nel deserto, è per privare di ogni radice la Propria parola, affinché il Suo legame privilegiato sia costituito dalla creatura. Noi faremo della nostra anima un’oasi nascosta, diceva reb Abravanel.
– E cosa faremo della Sua parola scritta? – chiese il discepolo.
– Trasformeremo i suoi vocaboli di fuoco in un libro di fuoco inconsumabile, rispose reb Abravanel.
Ma reb Hassoud, i cui discorsi e commenti, per via della loro arditezza, erano di solito accolti male dagli esegeti, intervenne e disse:
– Errante è la parola di Dio. Ha come eco la parola del popolo errante. Per essa non c’è oasi, né ombra, né pace, ma solo l’immensità del deserto assetato, ma solo il libro di questa sete, il fuoco devastatore del fuoco che riduce in cenere tutti i libri, sulla soglia dell’ossessiva illeggibilità del Libro tramandato.
«Cos’altro abbiamo fatto, se non metterci indefinitamente in questione, interrogando persino il ronzio della mosca? In questo consiste il nostro umile merito, ma anche la sorgente della nostra disperazione», scriveva reb Feroush.
«In quale momento straziante della nostra impotenza ci occorrerà imporre al libro l’arresto della nostra lettura?
Io chiudo gli occhi. Mi rifiuto di andare oltre.
Che il libro possa infine liberarsi dalle nostre catene», aveva annotato.
* * *
Il dopo-deserto
Il fuoco partecipa della ricchezza come della miseria, della foglia come del seme, della stella come del ciottolo.
Il deserto fa paura al fuoco.
«La Parola di Dio, che è di fuoco, un tempo fu parola effimera e localizzata, perché il deserto le impedì di propagarsi; ma da dove deriva il fatto che essa risuoni ancora nell’universo, come il grido stesso della vita? È che il deserto l’ha respinta», scriveva reb Basri.
«E l’universo, colpito dalla folgore di El, polvere d’oro su sabbia d’oro, si stenderà da ultimo nel deserto per un sonno eterno.
Così, per istinto, abbiamo appreso che Dio era la morte», aveva scritto reb Assayas.
E altrove: «Ah! diffida di quella divina Parola di vita, poiché sorge dalla nera gola della morte. Ed è alla tua morte che s’indirizza.
Da vivo, non avrai mai altro che il presentimento della Parola di Dio».
«Sento la voce lontana di Dio, diceva reb Toueta. Entro, passivo, nella morte».
Tutte queste teste senza colli.
Tutti questi colli senza spalle.
Tutte queste spalle senza torsi.
Tutti questi torsi senza polmoni.
Tutti questi polmoni senza ventri.
Tutti questi ventri senza anche.
Tutte queste anche senza gambe.
Tutte queste gambe senza piedi.
Tutti questi piedi senza terra.
Tutti questi libri senza titoli.
Tutti questi titoli senza fogli.
Tutte queste pagine senza frasi.
Tutte queste frasi senza parole.
Tutte queste parole senza lettere.
Tutte queste lettere senza inchiostro.
Tutto questo inchiostro senza notte.
Tutte queste notti senza sonno.
… questo sonno senza risveglio.
… questo risveglio senza sole.
E reb Ayad disse: «Che cos’è il deserto se non la prova della completezza, la morte nella morte quotidiana?».
E Yukel disse: «Solitudine delle nostre teste cadute, delle nostre spalle disfatte. Solitudine dei nostri torsi, dei nostri polmoni schiacciati. Solitudine delle nostre anche spezzate, delle nostre gambe immobili. Solitudine dei nostri mattini e delle nostre notti; dei nostri occhi fuori dalle orbite e delle nostre mani senza braccia; della nostra lingua e dei nostri libri.
Oh, Sarah, come potrebbe un corpo fatto a pezzi sapere di essere stato, una volta, un corpo e come potrebbe aspirare a riunire le proprie parti disperse? Quale mezzo dovrebbe inventare per riuscirci? Quale parte di sé avrebbe una forza sufficiente per prendere l’iniziativa?
L’unità non è che ardente desiderio di unione e la totalità non è che frammenti elettivi esposti alla frantumazione.
Solo il deserto – forse perché questo dopo-mondo, come un cancro non ancora scoperto nel corpo rigoglioso dell’universo, quest’ineluttabile fine di tutte le fini di un mondo che rinasce, ma condannato – è stato e non potrebbe che essere per sempre, accanto al cielo, accanto al vuoto celeste – come si è a ridosso della luce che ci restituisce all’ombra e della notte che ci restituisce all’aurora –, da un orizzonte all’altro, che il legame supremo con la morte».
– Cosa c’è di più insolente della morte? chiedeva reb Eliaram al suo maestro reb Saada.
– Forse il dopo-morte, l’avvenire sfrontato della nostra tanto temuta assenza, gli rispose il maestro.
«Il deserto è sempre la distesa recuperata dei nostri deserti.
Oh, morte dopo la morte.
Oh, fuoco prima della fiamma.
Il deserto non sarebbe altro che l’estrema somiglianza col libro bruciato che, nella sua eternità, ogni granello di sabbia, per l’istante che s’immobilizza, eleva al trono», diceva.
(Traduzione di Giuseppe Zuccarino)
* I tre brani, tratti da E. Jabès, Le Soupçon Le Désert (Le Livre des Ressemblances, II), Paris, Gallimard, 1978, pp. 56, 123-125 e 133-135, sono stati pubblicati in “Scriptions” seconda serie, 5, 2020, a cura di Luisella Carretta.

