LA PENNA MAI FUORI DAL SOLCO. Ercolani, Palomba

Tre poesie per Ilaria P.

Per chi resiste oltre il dolore possibile

restano i segni dell’esserci dopo

resta ciò che sembrava

impossibile:

vivere il miracolo di un’aria che ancora

vuole essere respirata

proprio da te che la condannasti a sparire

tacendo di colpo,

il corpo rotto dal volo,

infranta ma viva:

come il vetro che dopo l’urto finale

riflette ancora se stesso.

**

Non sarà possibile

sparire come sognavi. Oggi

la terra fitta

e infinita ti chiama

illuminata dallo stesso sole

non dimentica la tua ombra.

Non piangeremo nessuna scomparsa:

sei ovunque, in magico volo,

senza la nebbia del corpo,

un giorno non respiri il giorno

successivo voli per mille nuvole.

Sparire,

certo: non essere

vista, dentro il fumo di ombre

appena apparse, felici di avvolgerti,

tue. Sparire

resta il dono ma non ora,

nella terra cieca.

**

Di quando eri più giovane

e non esistevano muri

o tu non li vedevi, segreti.

Di quando i fogli

non conservavano la forma delle parole…

Ah, le mura strette e basse,

il bisogno d’aria,

la penna mai

fuori dal solco!

E ora?

Come tornare?

Impossibile forare

il vento.

Improbabile restare, ma

chi resta sa:

è testimone,

di quello che accadde e non ricorda,

per sempre.

***

*Da: Ilaria Palomba, Purgatorio, Alter Ego Edizioni, Viterbo 2025.

Mi sono innamorata di Thierry Metz, è stato Zadkiel a farmelo leggere, Zadkiel sa vedere la bellezza oltre questo male, lui non mi sente affatto malata, lui mi vede nell’estrema purezza, e nelle sue lettere ritrovo la vita che mi sfugge ogni giorno, quella che volevo eludere, e non si può, si può solo cadere in un piano inferiore; ma lui è la profondità e l’altezza, a ogni mio demone contrappone il celeste. Per lo più si perde sulla strada chi non desidera altro che un compenso; restano coloro che non chiedono, restano perché non hanno nulla da scambiare, o muoiono per questo? Quando le ombre bussano a tutte le pareti, so che ho bruciato uno stralcio di vita, che non potrò più stagnare in desideri appartenenti al prima, e so che questo viaggio è lungo, faticoso, infingardo. Bisogna bendarsi gli occhi e farsi legare come Ulisse per resistere al canto delle sirene. Non so in cosa credere, non so a cosa aderire, se non a un intimo sentire; all’amore, alla gratuità del dono. Ingiusto è ogni angolo di strada, è gratuita anche la condanna, ma il dono di essere vista, ascoltata – fosse pure da una sola persona – non posso dimenticarlo, non posso fingere non esista. Altro non è quasi umanamente accettabile, eppure, ho imparato a tralasciare. Il fango si sgretola al sole, l’acqua scorre, lì dove credi sia buio, è la sorgente.

*

Sto attraversando il deserto, da decenni, decenni, ora è la notte del corpo, l’anima rinasce dal fondo, sa sempre dove volgersi, vive altrimenti. Quando esco dall’ospedale non posso camminare a lungo, devo usare il girello, mi sembra di avere cento anni. Piango moltissimo, prego, litigo con la madre, la insulto dicendole di andarsene, sembra una statua di cera, ha una forza che mi atterrisce. Cerco conforto nella musica, chiusa in stanza, a letto, le impedisco di entrare. Il padre risponde insultandomi, appellandomi: Cretina, stronza, imbecille; la madre, imperturbabile, seguita a cucinare e a bussare alla mia porta serrata. Sfianca questo combattere, infine ti fai da parte come un animale morente, vai a metterti nel cantuccio, dici a tutti lasciatemi in pace, e i guardiani che stanno lì a scrutarti dentro, ad ascoltare le lacrime attraverso la porta, le telefonate notturne, a chiederti dettagli. Al mattino cerchi di andare in bagno ma è occupato. Dici ho i brividi, forse ho la febbre. Pure la febbre adesso, dice il padre. Se voi poteste lasciarmi in pace, dici, ma smuovi l’orgoglio cosmico, scateni l’offesa, il padre indossa il cappotto, dice me ne vado, lo vedi piangere, esci dal tuo murarti viva solo per buttarti sulle ginocchia, chiedere perdono, ricominciare a farti accudire come una neonata, soccombere in questa cura che non è cura, nelle parole che non vuoi ascoltare, hai bisogno di silenzio, di trascorrere un anno in silenzio, di capire cos’hai fatto, di perdonarti, o non farlo, ma capirlo da sola nel la tua stanza, nel tuo silenzio. Chi potrebbe vivere al tuo posto senza voler morire? L’altra sa cosa è giusto. Tu vai incatenata nelle strade. Resti agganciata alla stanza. Sei la stanza. Lei conosce il punto limite, è lì che vive, fuori dalle pareti. Tu sei in ospedale, non hai più trovato la via fuori, hai accettato la perdita, ti sei legata alla promessa di libertà offerta dall’altro, la prigionia. Hai paura del dolore, non vuoi più uscire. Lei attraversa la notte senza curarsi del corpo. Zadkiel ti telefona ogni notte, guardate insieme L’invitation au voyage di Germaine Dulac, senti il terrore di perderlo. L’amore più grande si serve dei corpi e li tra scende. È una beffa della materia, non conosce limiti. Tu cerchi di arginare il male e ti smargina, deborda. Provare a fare tutto come prima. Avvertire la trazione della materia. Ripiombare. Coprirsi. Dormire.

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