
Presentazione di «Arca»
All’inizio del 1808, Clemens Brentano e Achim von Arnim fondano una rivista, destinata a durare solo pochi mesi, alla quale danno un titolo piuttosto singolare: «Zeitung für Einsiedler» («Giornale per eremiti»). La formula è spiritosa proprio in quanto appare intrinsecamente contraddittoria. Come dovrebbe essere – viene da chiedersi – un giornale, per poter sperare di suscitare l’interesse degli eremiti, ossia di persone che non si identificano con i valori correnti della società in cui vivono, e che hanno scelto la solitudine come forma di fedeltà alle proprie idee? Certo dovrebbe trattarsi di qualcosa di assai diverso, sia per la forma che per il tipo di notizie trasmesse, rispetto ai giornali consueti.
A un tale, improbabile, «giornale per eremiti» si è portati a pensare in relazione ad «Arca», i cui lettori sono appunto necessariamente rarissimi (vista l’esigua tiratura della rivista) e dispersi in vari luoghi, perlopiù periferici, della Tebaide letteraria italiana. I redattori, così come sono costretti ad essere selettivi nell’identificare, uno per uno, i propri lettori, sperano di esserlo anche nella scelta dei testi da proporre. Ecco perché, sui fogli racchiusi in buste che costituiscono i numeri, tutti monografici, di «Arca», si incontrano prose e poesie di autori di indubbio rilievo, che vanno da Shakespeare a Rilke, da Nerval a Blok, da Beckett a Michaux, per fare solo qualche esempio. Ad essi – visto l’interesse dei redattori per il nesso che unisce letteratura e arti visive – si affiancano a volte scritti di o su pittori (come Braque, Giacometti e Masson). Si tratta quasi sempre di testi mai tradotti nella nostra lingua, e scelti dunque nell’ambito di quella vasta serie di opere essenziali che troppo spesso l’editoria «ufficiale» sembra farsi un vanto di ignorare o trascurare.
Accanto ai nomi che è d’obbligo definire grandi ve ne sono però altri quasi sconosciuti, e questo non perché vi sia l’intento di equipararli ai primi o la speranza di farli brillare di luce riflessa, ma piuttosto perché – sarà bene precisarlo – una rivista come «Arca» ha un carattere essenzialmente privato, fondandosi su quella pratica ardua e gratificante che chiamiamo amicizia (e l’amicizia, come ricorda Pascal Quignard, «è l’unica vera società segreta»). Tra autori e lettori – ma i due ruoli sono tendenzialmente reversibili – si stabilisce dunque un dialogo, che serve a rendere conto delle rispettive esperienze di scrittura. È vero infatti che chi lavora ad «Arca» (al pari di chi la riceve) si pone consapevolmente nel ruolo dell’eremita, e dunque accetta di rendersi invisibile per i più, ma ciò non toglie che egli avverta la necessità dello sguardo, al tempo stesso complice e impietoso, degli amici. Come diceva una volta André Malraux, «è difficile, per chi vive fuori dal mondo, non andare in cerca dei suoi».
(1995)
«Arca», prima serie
Il mio incontro con Marco Ercolani è avvenuto nel 1990. Quasi subito, è sorta in noi la vaga idea di realizzare una rivista, idea destinata a concretizzarsi due anni dopo. All’epoca, in mancanza di un editore, avevamo deciso di organizzarci artigianalmente, scrivendo i testi al computer e facendone un certo numero di fotocopie, ciascuna delle quali veniva poi racchiusa in una busta da spedire agli amici. Dapprima, perfino gli involucri erano realizzati a mano, e i fascicoli prodotti in soli trenta esemplari. A partire dal n. 5, per abbreviare i tempi, abbiamo deciso di usare buste acquistate in cartoleria, su cui però abbiamo fatto stampare un logo con la scritta «Arca» (logo ideato da Francesco Pirella ricorrendo a lettere disegnate da Ugo Nespolo). Da quel momento la tiratura è aumentata, ma solo di dieci unità. Della prima serie di «Arca» sono usciti in totale, tra il 1992 e il 1996, quaranta fascicoli. La redazione comprendeva Marco Ercolani, Lucetta Frisa, Elio Grasso e Giuseppe Zuccarino, ai quali poi si è aggiunto Luigi Sasso.
Il titolo della rivista, «Arca», implicava due concetti, che si potrebbero illustrare con altrettante citazioni. Nel 1936, Walter Benjamin aveva pubblicato in Svizzera, con lo pseudonimo di Detlef Holz, un’antologia di lettere, Uomini tedeschi, il cui significato era riassunto nel motto iniziale: «Dell’onore senza gloria / Della grandezza senza splendore / Della dignità senza mercede». Sia il titolo che il motto risultavano provocatori, in un periodo in cui il nazismo era ormai saldamente al potere in Germania. Il libro comprendeva una scelta di missive scritte da autori illustri (come Lichtenberg, Goethe, Hölderlin, Keller, Büchner), ma anche da personaggi assai meno noti. Sulla copia del volume inviata all’amico Gerschom Scholem, Benjamin aveva scritto la seguente dedica: «Possa tu, Gerhard, trovare per i ricordi della tua gioventù una celletta in quest’arca che ho costruito allorché il diluvio fascista cominciò a salire». Nel nostro caso, non esisteva un simile intento politico, ma soltanto l’idea di salvare il salvabile, sia pure in maniera provvisoria. Il secondo concetto evocato dal titolo della rivista è quello dell’arca intesa invece come spazio, al tempo stesso, protettivo e creativo. L’idea si trova condensata in una frase di Roland Barthes: «L’Arca è un mito felice: l’umanità può prendervi le sue distanze nei confronti degli elementi, vi si concentra e vi elabora la coscienza necessaria dei propri poteri».
Nel 1995, avevo cercato di chiarire lo spirito della rivista in un brevissimo testo, scritto per la presentazione di «Arca» in una libreria genovese. Oltre ai nomi citati in quella vecchia pagina, tra gli autori tradotti si possono ricordare Stéphane Mallarmé, Osip Mandel’štam, Antonin Artaud, René Char, Maurice Blanchot e Michel Foucault. Occorre accennare anche a un esperimento effettuato nel corso dell’anno successivo, quello terminale della prima serie. È consistito nel produrre un esile opuscoletto dalla copertina blu, che avrebbe dovuto inaugurare dei «Quaderni dell’Arca», limitatisi in realtà a quell’unico numero. I romantici tedeschi, nel secondo dei sei fascicoli della celebre rivista «Athenaeum» (pubblicata tra il 1798 e il 1800), avevano inserito una raccolta di 451 frammenti, dovuti ai fratelli Friedrich e August Wilhelm Schlegel, ma anche a Novalis e Schleiermacher. La paternità di ogni singolo frammento non veniva indicata, così che molti di quei brevi testi rimangono ancor oggi di attribuzione incerta o sconosciuta. Noi avevamo deciso di riproporre, in una forma decisamente ridotta al minimo, la stessa operazione: i redattori di «Arca» (Ercolani, Frisa, Grasso, Sasso, Zuccarino) e alcuni loro amici (Donatella Buongirolami, Annamaria Carrega, Renato Urciuoli) avevano scritto, ognuno, sette frammenti. I nomi degli autori figuravano sul frontespizio, ma i frammenti venivano proposti in ordine sparso e senza firma individuale, nell’intento di sottolineare l’idea di un progetto comune, progetto che avrebbe poi trovato un’espressione più chiara e significativa nella seconda serie di «Arca».
(2025)
