LA PROVINCIA DEI DESTINI INCROCIATI. Renato Venturelli

L’opera di Jacques Demy nel corso degli anni Sessanta, da Lola fino all’appendice americana di Model Shop, si configura come un sistema chiuso, in cui ricorrono non soltanto gli stessi temi e motivi, ma espliciti rimandi, citazioni interne, riprese integrali di piccoli frammenti narrativi, che rinviano da un film all’altro come se si trattasse di “seguiti” sotterranei, in cui a svilupparsi non è una storia, ma le possibili relazioni tra una serie di elementi di tale sistema.

E’ qualcosa che va molto al di là di una normale continuità tematica, stilistica o linguistica “d’autore”: è la sensazione di essere sempre nello stesso luogo, di ripercorrere tutte le infinite strade che incrociano determinati punti (come per magico riconoscimento), di assistere alle continue variazioni di una storia che potenzialmente è sempre identica.

Si è spesso accennato a Demy come a un narratore finissimo ma non robusto: esile e accurato nella sua ricerca dell'”atmosfera”, nell’attenzione alla scenografia, ai costumi, ai colori, nella sua particolare attenzione al dettaglio non in funzione del filo narrativo principale, ma quasi come depistamento verso altri possibili intrecci marginali. Ed è questa infatti la narrazione che interessa Demy: che non ci racconta solo una storia, quanto l’articolazione, le variazioni e gli spostamenti di un sistema. E i nessi fondamentali di questa macrostoria sono proprio quelle ricorrenze di cui si parlava: il continuo ritorno, la ripresa, i parallelismi, i raddoppiamenti.

Di questi elementi ricorrenti ve ne sono a più livelli, e con diversa importanza in relazione all’intreccio. Tra i più risaputi, i marinai. A volte sono protagonisti, come Frankie in Lola o Maxence in Les demoiselles de Rochefort, ma soprattutto sono presenze, bianche macchie che percorrono le strade e le storie, a gruppi o solitari, chiassosi, malinconici. La loro presenza è anche in relazione a un tema fondamentale di Demy: la precarietà di una situazione, la necessità di partire all’improvviso, la lontananza (anche Castelnuovo nei Parapluies e Lockwood in Model Shop devono partire per il servizio militare). Sono forse i suoi temi più intimi: la precarietà, l’assenza, l’attesa, tutta la gamma di sfumature legate alla “provincia” di Demy, dove ogni partenza è una perdita definitiva, ogni ritorno un dolce miracolo. Ma questa presenza tematica dei marinai si manifesta innanzitutto in termini figurativi, macchie di bianco in movimento, balletto di effimere giovinezze, continuo tentativo di stabilire rapporti sempre precari con le persone.

I marinai sono tra le figure più vistose di questo universo di Demy, in questo continuo ritorno sui luoghi della sua opera. Prendiamo un’altra scena, quella di Marc Michel che pranza con la piccola Cecilia e sua madre in Lola: un pranzo distratto, con le due donne che ha incontrato casualmente in libreria. La scena verrà ripresa nei Parapluies: Marc Michel è a cena con Geneviève e la madre, che ha incontrato dal gioielliere. Là si era offerto di regalare un dizionario, qui di acquistare un collier: in entrambi i casi ha destato l’interesse della madre. Ma la conclusione è opposta. Se in Lola (che viene qui esplicitamente citata) lui se ne andava frettolosamente, nei Parapluies il pranzo è suggello al fidanzamento con Geneviève. Demy ha condotto il suo personaggio là dove era già stato, ma ha mutato il segno dell’azione: si ripassa per lo stesso luogo, imboccando però una strada diversa. Il regista sembra non voler accettare la condanna del narratore, per il quale raccontare una storia significa rinunciare a tutte le altre storie possibili. E costruisce i suoi film come un sistema di variazioni su continue ricorrenze.

Non a caso un suo tema centrale è quello della precarietà dei rapporti, una trama fittissima di partenze e di attese. Nelle città di Demy c’è ovviamente l’insofferenza della provincia, l’ansia di uscirne; ma c’è soprattutto un fortissimo senso dell’altrove, di un esterno che è anche assenza di un rapporto, fine assoluta di un legame. Partire significa spezzare un rapporto, totalmente: da qui l’ossessione della partenza, dell’assenza, e quindi l’attesa, la magia del ritorno. Quanto ritorni “impossibili” in Demy: Michel in Lola, Andy Miller (Gene Kelly) in Les demoiselles, il ricongiungimento tra Danièle Darrieux e Michel Piccoli sempre a Rochefort, tutti ritorni dall’oltre Oceano, quell’Oceano che sta di fronte a Nantes, Cherbourg, Rochefort, da cui giungono marinai che poi ripartono, amori perduti, quell’Oceano che però Demy cerca di non guardare dritto nella sua sterminata estensione. Demy dà le spalle all’Oceano, volge il suo sguardo all’interno, per ricucire le mille storie di precari e tenaci rapporti, si muove soprattutto nei bar, nei locali, nei negozi, dove si incontrano le traiettorie dei personaggi. Allora, lo spazio delimitato del Café Garnier di Rochefort può anche donarsi interamente alla luce, all’aria di giugno, al sole abbagliante, perché è il luogo degli incontri (o della loro scherzosa negazione, per Solange e Maxence), dove si intrecciano e si sciolgono i legami tra i personaggi, proprio sul limite dell’Oceano, dell’abisso, dell’assenza. Quel mare che può dimenticare tutto, ma che tutto può all’improvviso riportare, perché continuamente si rinnova, riconquistando sempre la propria verginità. E nei film più primaverili di Demy può riconsegnare magicamente ciò che aveva portato con sé.

Quanti ritorni, e quanti ricongiungimenti impossibili in Demy, tutti sottolineati nella loro fiabesca convenzionalità. L’unico ritorno “normale” (quello di Guy nei Parapluies) non sarà però atteso, perché il mondo di Demy sembra non conoscere ritorni normali, e la sparizione è sempre assoluta. La partenza e il ritorno sono del resto i due momenti narrativi di cui Demy sembra sottolineare in particolar modo la convenzionalità. Separazioni, ricongiungimenti: i nessi fondamentali dell’infinita variazione all’interno di un sistema (nella definizione, nell’invenzione continua di un sistema che non è un gioco narratologico ma ha innanzitutto un respiro interiore). Il finale di Lola, con Roland che si allontana solitario mentre passa l’automobile con Lola finalmente felice, ritorna in Les demoiselles de Rochefort: ma il segno è anche qui rovesciato, e Maxence viene chiamato a bordo della colonna di autocarri del luna-park viaggiante.

Demy accentua la convenzionalità di questi nessi, e lo fa soprattutto attraverso il rappoddiamento, che è una delle sue figure fondamentali. Le due Cécile di Lola, con i loro amori paralleli, dove però la piccola Cécile si trova ad essere non solo il “doppio” di Lola, ma anche di Roland (la delusione di un amore germinato da un incontro csuale, la fuga conclusiva ecc.). E poi le due sorelle gemelle di Rochefort, l’intrecciarsi di storie d’amore parallele nello stesso film; ma anche il più complesso rapporto tra la passione d’amore e quella per il gioco della Baie des anges, dove si sviluppa quel tema profondo del gioco d’azzardo che era stato accennato dalla madre di Cécile in Lola.

Parallelismi e raddoppiamenti interni ad un film che vanno ovviamente a intrecciarsi con quelli che rinviano da film a film. Sarebbe impossibile riprendere tutti i fili interni dell’opera di Demy, ricostruire minuziosamente la sensibilità morbida e sottilissima di questo mondo inquieto: un universo femminile in cui è assente la figura paterna, un mondo pervaso dall’inquietudine per una continuità e una sicurezza minacciate. Demy ricorda molto i poeti intimisti, in questo suo sistema costruito su infinite varianti attorno a piccoli nuclei, in questa sua dolce e appassionata esaltazione della convenzionalità, che si premura di avvolgere di tenero affetto.

Une chambre en ville ritornerà, dopo tanti anni, a visitare quei luoghi chiusi nella memoria: anche se altri film hanno proseguito la sua continuità “d’autore” (Peau d’âne è, a suo modo, un film perfetto, come testimonianza di una poetica), è con Une chambre en ville che torna a percorrere i luoghi di quel chiuso sistema interiore. Ritorna la galleria di Nantes, intreccio di traiettorie, di avvenimenti, di incontri ed agnizioni, di ricordi; e la “chambre” eredita la funzione teatrale di altri luoghi di Demy, del Caffé Garnier o del Casino, allo stesso modo in cui Danielle Darrieux si ricollega al personaggio di custode e spettatrice che era stato della barista di Lola, della portiera dell’hotel in La baie des anges, della madre di Geneviève nei Parapluies o di lei stessa, Yvonne, nelle Demoiselles (e come queste ultime è anche madre).

Demy ritorna, e rovescia ancora il segno dei tragitti dei personaggi, introduce il melodramma a violentare i luoghi della commedia con altre convenzioni, non meno amate. Ogni elemento che si aggiunge al sistema lo trasforma interamente, e Une chambre en ville getta cupi fasci di luce anche nelle zone più solari della sua opera. Michel Piccoli, marito impotente che getta le chiavi nel gabinetto e poi si sgozza, dà improvviso rilievo a certe ombre dimenticate: la lunga e gentile solitudine di Monsieur Dame, oppure l’anziano maniaco del Caffé Garnier. Les demoiselles de Rochefort, il film più luminoso e solare di Demy, è forse quello che più viene smosso da Une chambre en ville, dove l’intreccio si determina per la volontà di Dominique Sanda di percorrere il tragico ma assoluto Destino prefiguratole dalla cartomante: l’altro volto di quel Destino che avvolge luminosamente le esistenze primaverili di Rochefort, di quel desiderio di unità (di assoluto, di felicità, di ideale) che caratterizza tanti personaggi di Demy.

Nell’opera del regista francese ogni simbolo sembra possedere la sua parte di luce e la sua parte di tenebre, come in un ciclo rituale secondo Durand. La primavera ancor fredda di Lola, quella pienamente matura di Rochefort, l’autunno piovoso di Les parapluies de Cherbourg, il tragico inverno di Une chambre en ville: sono i simboli naturali di una continua oscillazione tra la serenità di un mondo idilliaco e un mondo notturno di solitudine e separazione. Un’oscillazione che passa sempre attraverso gli stessi luoghi, ogni volta inseguendo un diverso filo narrativo che inverte il senso delle traiettorie e ne rivela la qualità mitica. L’unica forma di possesso e di conoscenza risiede così in questo spazio immaginario, compreso tra l’assenza dell’amato e l’attesa di un suo ritorno: lo spazio della nostalgia dove si ricompongono le rette divergenti dei destini un tempo incrociatisi. (1983)

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