
All’inizio è la pagina bianca. Poi, quasi a precipizio, un’urgenza impone il suo ritmo, che è scandito in frammenti, schegge spesso fulminanti, lampi lapidari. Corteggia l’aforisma, ma non cede alla sua facilità; più ancora che l’aforisma l’obiettivo diventa il sigillo sapienziale. Una segreta conoscenza del nulla. Una “via segreta” del pensiero che, mentre cerca gli incontri col vocabolo, ne è aspirato. Occorre calcinare ogni scoria, non danzare sulla musica delle parole; qui è una corrente che trascina, come è detto nella poesia “Il folle volo”, e qui, ancora, non deve ingannare il senso, apparentemente paradossale, di quel verso decisivo “Il folle volo lo compiamo / nell’incantesimo dell’acqua ferma (…)”.
Gran parte, se non tutta, la scrittura di Marco Ercolani, anche quella che precede e affianca questi testi poetici, si può leggere nel senso di una brusca scossa all’apparenza delle cose del mondo, all’evidenza ordinaria. Cerco di sintetizzare così: come usare la finzione per dire la verità? I termini stessi di verità e finzione sono presi in un laccio inestricabile; interrogare questo koan, portarlo al limite è una passione del pensiero. E il centro di gravità di queste poesie si trova già nel titolo, in quell’opachi. Parola chiave, “opaco”, che voglio leggere come confine della luce, nostalgia della luce, quasi invocazione a un’idea di trasparenza. Nostalgia della luce. Già Gabriela Fantato, nella sua prefazione, parla (con più cautela) di “uno spiraglio di luce, una sorta di lievità (…)”. La parola poetica di Ercolani recita, sapendo di recitare, il dramma della propria doppia natura, della trasparenza e della intrasparenza… Una parola che rompe la traccia facile, nasconde quel che vuol rivelare come una domanda che nasconde l’enigma. Il senso scivola, si perde, rinasce altro. Il diritto di essere opachi trascrive gli esiti di una discesa nella notte, ma di una notte che ha segreti e dunque pietà. Una discesa che ricorda il sogno lucido di una coscienza qui e là sonnambolica, testimone e spettatrice insieme di sortilegi, specchi inquietanti, turbamenti, cose notturne…Ma “il sogno/ è già una sentenza”, come ci ricorda Ercolani, così suggerendo un’altra chiave interpretativa della sua poetica. Il topos cruciale, il nodo di questa raccolta si può pensare nella figura di una clessidra, o meglio, nel suo punto di scorrimento, nella strozzatura (altra “via segreta”). Ai due lati, l’ombra e la luce, la forma e l’informe, lo scendere che è già salire. Da qui passa il singolare melos di questa poesia, dall’”armonia della vertigine”. Questo punto di capovolgimento è l’immagine ideale di una ricerca: non conta l’alto o il basso, quanto la profondità… Da un lato, il visibile, “questa luce verticale/ dove tutti credono di muoversi”, dall’altro, la cecità, il buio, la “finzione nella notte” che è finzione della notte. In fondo, per Ercolani, né l’uno né l’altro. L’ultimo imperativo che chiude la raccolta è potente: “Guarda”. È uno sguardo che oltrepassa la dimensione retinica, ha poco a che fare con l’ottica, piuttosto reclama una postura, una condizione, uno stato dell’essere.
(2010)
