
Muri, strade
La scrittura può non apparire soltanto dentro i libri, protetta dalle pagine che ospitano il senso del discorso, ma può anche essere fuori, scrittura/pittura gettata all’aperto, nei muri delle case, delle stazioni, dei vicoli. Sottratta al mondo compatto del libro, è traccia errante, vìola e provoca i confini, è violata, sporcata. L’autore potrebbe anche non esistere, ma la scrittura resterebbe, sgorbiata in luoghi leciti e illeciti, intrusa che imbratta, rivoltosa che grida, che esige dal mondo di essere vista. Lo scrittore si fa wanderer, vagabondo, nomade di sé, anche ma non solo folle. Lascia segni, tracce, “parole in cammino”. La sua scrittura appare all’angolo di un muro, sul pilastro di un ponte, nella connessura del marciapiede, sul tronco di un albero, pronta a difendere il suo libero messaggio contro ogni censura esterna. Dispersa e disseminata, vuole essere dispersa e disseminata. Non si pensa come opera chiusa ma, al contrario, come opera spalancata sulla superficie-mondo in un groviglio di segni e di parole, da infittire con nomi, cerchi, macchie, cifre, paesaggi, a rinnovare la segreta speranza in una vita viva che corregga la vita morta grazie al codice di una scrittura personale e paradossale, eretica e originale, che reinventi lo spazio del mondo in un’altra luce, in un’altra illusione. Nel suo ultimo libro di interviste, A ruota libera, Jean Dubuffet scrive: «Anche la realtà (…) è un’illusione. Essa è per ognuno solo la sua visione, la sua invenzione. Si potrebbe concludere che l’arte è un sistema di invenzione di realtà di ricambio, diverse dalla realtà convenzionale».
Lettere
La necessità della confessione anima ogni creatura che scriva. Quale strumento è più appropriato della lettera per confessarsi? Nel 1835 Pierre Rivière si sente responsabile della strage della sua famiglia solo quando lo scrive in una lettera-confessione: «Io, Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello, e volendo far conoscere quali sono i motivi che mi hanno condotto a quest’azione, (…) dirò quel che mi passò nella mente dopo aver fatto questa azione, la vita che ho condotto e i posti dove sono stato dopo questo crimine fino al mio arresto e quali furono le risoluzioni che presi». Ogni confessione nasce dalla necessità di mostrare la propria storia in una lettera rivolta all’altro, nel ri-creare la propria biografia personale al confine di ogni immagine e significato, scritte in codice o scarabocchiate, illeggibili, rivolte a un re, un presidente, un primario, un padre, in una necessaria dualità. Michel Foucault sottolinea il carattere sovversivo e liberatorio, nell’essere più emarginato, di confessare le proprie azioni segrete. Un oppresso esige che la propria voce non sia sepolta nel caos delle altre voci ma la “protegge”, facendola esistere in qualsiasi modo, lecito e illecito, senza e con gli strumenti dell’arte, riscattando così la propria “vulnerabilità ontologica” (così Ronald Laing definisce quella fragilità dell’essere umano che lo rende più sensibile alla violenza del trauma).
Codici alfabetici
Ogni artista inventa e ripete un suo codice alfabetico personale – enigma verbale, scrittura asemica, calligramma, diagramma di parole in qualche cartiglio, costellazione magica. La serialità di questi codici conduce al suggestivo multiverso di una poesia visiva antica e sacrale, contemporanea e consapevole. Le stesse lettere dell’alfabeto hanno qualcosa del rituale incantatorio del frammento, dell’esorcismo propiziatorio verso/contro qualche demone minaccioso e invisibile; in questo permanente stato di ipnosi l’artista realizza il suo duplice progetto: ripetere all’infinito la propria ossessione – prima fonte di angoscia – e tradurla nel conforto di forme finite, di arabeschi fondanti, dove il codice della scrittura comunque evoca il silenzio. Come scrive Giovanni Pozzi in La parola dipinta: «La scrittura si depone nel silenzio quanto la lettura, ma con un moto inverso: l’una attinge dall’alfabeto il senso e lo affonda nello spirito; l’altra ve lo estrae e lo effonde sulla pagina tracciandone il sentiero. È un cammino silenzioso». Ma un codice è sempre un messaggio, e ogni messaggio nasconde segrete utopie.
Preghiere
Il gesto di scrivere/disegnare è anche una forma di preghiera, di meditazione, di trance, a cui l’artista si abbandona. Formalmente si ricalcano gli stilemi delle orazioni in versi a noi note, o talvolta si inventano nuovi mantra, nuove litanie, che l’autore ripete con infinite varianti e declinazioni. Nel suo libro di 15145 pagine, Nei regni dell’Irreale, Henri Darger, ingaggiando una impossibile lotta contro la violenza, scrive preghiere e riformula cantici sui modelli delle canzoni da chiesa perché le ragazze angeliniane si salvino dalle atrocità della nazione di Glandelia, atrocità che lui stesso immagina, scrive e dipinge. Certe pagine, scritte nella clandestina interiorità del proprio io ma inviate a qualche destinatario, reale o fantasmatico, sono lettere-preghiere, stravaganti non per volontà di oscurità ma per felice spontaneità dell’emozione. La preghiera più criptica la felicità luminosa di un dire che esige la salute per esserci, per credere in un mondo nuovo. Così Erik Darkenne appare come un monaco copista, chino per ore sui fogli, che trascrive nei suoi volti-caverne il proprio orrore interno come una preghiera rituale, con un gesto che esorcizza e rende visibile quell’orrore. Non si può sconfiggere un nemico se non lo si rappresenta e non si leva la voce, anche muti, contro di lui, se non si invoca, con il proprio mantra personale, la sua scomparsa. E quale mezzo è migliore dell’arte, che essa sia consapevole o no?
Racconti dell’intimo
In Mabuse di Fritz Lang, la cella di manicomio in cui è rinchiuso il dottore è fitta di fogli scritti in una gigantesca calligrafia che evoca i disegni di Adolf Wölfli. In Spider di David Cronemberg, il folle Spider scrive dei taccuini in una lingua indecifrabile e li nasconde sotto il pavimento della stanza: non vuole che la sua scrittura, che lui solo potrebbe interpretare, sia vista, e quindi la rimuove con cura, come se in quei fogli si nascondesse la vera storia della sua vita e non volesse mostrarla. Ma, se questa è l’angoscia di partenza, l’arrivo è un progetto vitale, assillato dalla felicità di dire. L’io firma e racconta, crea personaggi che sono suoi alter ego e il suo nome e cognome vero si racconta attraverso un testo/immagine (molti autori di art brut, oltre a scrivere su di sé, si disegnano come sono o come vorrebbero essere). Si tratta di un processo di individuazione che porta le parti segrete di sé a venire comunque alla luce, attraverso autobiografie frammentarie o interminabili che, nel segno-sogno della scrittura/pittura, cercano voce contro gli autismi del silenzio, trovano un orecchio che ascolta, fantastico o reale che sia.
Liste
La lista, nell’arte contemporanea, è una nuova mappatura del mondo, che ci immerge nel laboratorio del non-finito, del frammento. Schemi, frecce, numeri, cerchi, liste della spesa, liste di luoghi visitati, o, come per per Pontormo, liste di cibi mangiati, diventano strutture portanti di questo “mondo nuovo”, anomale colonne di altri edifici possibili. Ognuno ha bisogno di sorreggere il proprio mondo con delle palafitte che lo proteggano e gli restituiscano un senso, tenendolo ben fermo sulla terra. La lista è anche ricerca di uno schema ossessivo, argine all’emorragia delle emozioni. Il senso impulsivo e irrimediabile dell’opera è costruire un diario di bordo, fitto di schizzi, appunti, liste, che navighi il tempo di un pensiero eccentrico e privato dentro formule, codici, orari. Oreste Fernando Nannetti usava il cortile del manicomio di Volterra come supporto alle scritture/figure che tracciava sui muri con la fibbia del gilet, inventando il diario dei suoi deliri con numeri, nomi, segni, visioni. Non importa se la materia della scrittura sia foglio o muro, scheggia o carta: è pagina non da “riempire”, nell’angoscia dell’horror vacui, ma da “segnare”, nella volontà dell’amor pleni. La scrittura è l’impulso a essere liberi. Chi scrive parla contro chi vorrebbe metterlo a tacere, e questa è salute della mente. Per dire di sé, l’artista scava il suo speciale codice qualsiasi materiale trovi (legno, cera, terracotta, papiro), “tracciando” di sé stesso un autoritratto reale e immaginario insieme.
*Il testo è tratto dal catalogo bilingue della mostra écrituresen errance – scritture erranti, a cura di Gustavo Giacosa,presentata alla Galerie de la Manifacture di Aix en Provence dal 19 gennaio al 16 marzo 2024.





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