
I miei taccuini – in Sentinella (L’arcolaio 2022), Nottario (I Quaderni del Bardo, 2023), L’età della ferita (Medusa, 2022) – sono le tracce concrete dell’opera segreta che perseguo da decenni. Sono libri estranei ai canoni letterari. Sono unaprosaintima. Un monologo-dialogo-confessione, che si iscrive nel mio essere terapeuta, nel mio essere attento ai soprassalti dell’anima, alla vertigine del non adeguamento, alla ricerca di un nuovo equilibrio. Potrei citare Baudelaire, Il mio cuore messo a nudo, il libro che, quando lo lessi a sedici anni, mi convinse, una volta per tutte, che avrei affidato la mia vita alla scrittura (potrei dire anche, ma in modo laico, “consacrato”). Queste pagine non vanno confuse con un diario dei propri eventi personali: sono appunti, incursioni, frammenti, pensieri. Sono un taccuino senza biografia, se non quella del mio io catturato dal demone della scrittura, sospesa tra filosofia, estetica e sogno. Mi sento, in qualche modo, la Sentinella del mio Nottario. Opere simili ne sono sempre esistite, in ogni letteratura. Gli esempi più inarrivabili? Lo Zibaldone di Leopardi, gli Appunti di Canetti, i Diari di Kafka. Opere che obbligano il lettore ad essere presente dentro ogni riga delle loro pagine, senza distinguere opera da opera, libro da libro, come se dall’accumulo di pietre dopo pietre, notte dopo notte, in decenni di semilucidità, scaturisse alla fine la struttura architettonica di un palazzo.
Per una scrittura come la mia – un “gigantesco frammento” come direbbe Thomas Bernhard – sarebbe appropriato il termine di ossessione. Di dettatura inconscia, se volete. Il “frammento” non è in sé incompiuto: vuole esserlo.
Il trauma che ha determinato la mia scrittura è irrisolvibile dall’inizio, forse insignificante. In sintesi: una vita che non si sviluppa all’esterno in modo arioso deflagra all’interno, diventa forza trivellante, costante affondo nel proprio inconscio, bufera segreta, ombra intima, chiamatela come volete. L’io si abbandona a un’esperienza di soglia che nasce dal sonno della ragione e dal desiderio consapevole di essere fuori di sé, dentro una qualche estasi/smarrimento di cui parlare, sì, ma solo per frammenti, senza sapere se corrispondano a qualche verità. Rimane viva la fedeltà a una scrittura del non detto e del non dicibile. La vita dello scrittore sfrutta la veglia e il sonno perché emerga l’isola sommersa che ancora non esiste e che le parole edificheranno, instabile e necessaria, “solido nulla” opposto al silenzio, follia viva contro regole morte. Come sa bene Giacomo Leopardi: «Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi». Potrei dire che non mi sento né libero né prigioniero. “Blocco calmo qui caduto da un disastro oscuro”, scrive Camus di René Char con icastica precisione. Condivido quella definizione come un destino, non solo mio ma di ogni io scrivente. Inorridito dalla prigionia, mi smarrisco nella libertà e continuo ossessivamente a rappresentare l’atto della mia liberazione, indugiando nei dettagli, rallentando il tempo, non permettendomi di tornare all’orrore precedente ma neppure affrontando lo smarrimento futuro. So molte cose, ma sapere tante cose o averne lette tante non significa avere qualcosa da dire. L’abisso non ha forma e non c’è occhio che possa afferrare ciò che rappresenta. Il fatto che io scriva molti libri accentua il mio amore del silenzio: ogni libro è come se cancellasse l’altro, e il risultato è identico al tacere. L’arte del silenzio è sempre l’arte migliore, quando non ci viene imposta da nemici o oppressori.
Mentre Sentinella e Nottario accadono dentro di me, L’età della ferita mi porta a un passo ulteriore: si avvicina ai Diari di Kafka attraverso un personaggio intermedio, il filosofo Felix Weltsch, amico di Kafka e di Brod. Così viene fuori un libro dove i miei taccuini vivono all’ombra dei taccuini di K., quasi li commentano attraverso la voce di un interprete, che è e non è la mia voce. Ma perché un autore autentico ama nascondersi fra citazioni e parole altrui? Vi rispondo subito: quegli autori e quelle citazioni mi consentono di parlare più chiaramente di un me che è un noi. È mia convinzione che esista un solo io, e che nel corso dei secoli, formando molti arcipelaghi, quell’io abbia inventato le forme della letteratura. Nessun artista può essere così ottuso da risolvere la sua esistenza dentro la nicchia del proprio stile personale. Mille letture, lui volente o nolente, lo hanno modellato. L’opera, insomma, è quaderno di appunti, referto complesso del “demone della scrittura”, notebook. Vi consiglio di leggere il Diario di Jules Renard, le annotazioni di Nicolas Gomez Avila, i Taccuini di Julian Green. Ma dimentico molti autori di frammenti e di aforismi, per restare in Italia Carlo Dossi e le sue Note azzurre. In breve, desidero un taccuino interminabile che eviti la biografia dell’autore se non trattandola come soggetto scrivente catturato dalla composizione delle sue note, sospese in un assillo senza fine e senza nome.
Non originale nel linguaggio della scrittura, inseguo da sempre l’idea di opera. Mentre i singoli pezzi sembrano tasselli immobili di un puzzle, l’idea che li anima è fluida perché io, l’autore, uso le forme in modo variabile – dal racconto breve al racconto lungo, dal frammento alla poesia, dalla micronarrazione all’aforisma –, come una struttura in divenire che non si ferma al singolo libro ma viene dai libri precedenti e si allunga in quelli successivi, spiazzando i giudizi critici che vorrebbero definire i singoli testi. La mia scrittura è un sismografo non segreto delle emozioni dentro i pensieri. Questa idea di oscillazione, di plasticità, di irrequietudine, mi sorregge sempre. In un laboratorio ardono fuochi, non risplendono statue.
Mi azzardo a dire che la mia scrittura è confessione. Con questa definizione potrei radunare molte parti di me: lettera intima, apocrifo, saggio, aforisma, poesia. Io mi confesso, come i miei pazienti fecero per decenni con me. In tutti i miei libri, nelle diverse maschere della scrittura, io mi rivelo a me stesso. Come se non esistesse letteratura. Come se non ci fossero generi letterari (Bachmann diceva che non esistono né generi né nuore letterarie) ma solo il bisogno di mettermi a nudo. “Il cuore messo a nudo”. Un Raskòlnikov che, in “Delitto e castigo”, si confessa senza bisogno di nessun Porfirji Porfiryc.
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«Chi non sa che la letteratura è arte di evocare i dèmoni?». Se per qualcuno il concetto restasse ancora poco chiaro, Manganelli stesso ha provveduto a chiosarlo: «Facciamo il caso degli scrittori. Alcuni si difendono dal demone, altri si lasciano sopraffare dalla grazia e dalla dannazione della fantasia, perché non è data l’una senza l’altra. Anzi direi meglio: si lasciano sopraffare dalla grazia della dannazione. Ma no, macché difendersi o lasciarsi sopraffare! A un certo punto il demone s’impone, si prende lui tutto lo spazio, che tu lo voglia o no».
Giunti a questo punto, risulta agevole il passaggio al libro di cui intendiamo parlare, ossia Il demone accanto di Marco Ercolani. Nella quarta di copertina, l’autore lo definisce «una sorta di journal intime», e in effetti la matrice segreta di questa come di altre opere ercolaniane è data da un’immensa mole di appunti scritti giorno per giorno (o piuttosto notte per notte), entro cui si incontrano, liberamente alternati, frammenti narrativi, aforismi, riflessioni sull’accaduto personale e collettivo, note su libri letti, su quadri e film visti o musiche ascoltate. Qualcosa di questa originaria varietà è rilevabile in Il demone accanto, al pari della presenza di elementi autobiografici, ma il volume si sottrae alla forma del diario, senza per questo confluire nell’ambito del romanzo.
Come viene suggerito dal titolo, il tema demonico svolge nel libro un ruolo essenziale: ad essere in causa è un tipico demone interiorizzato, che parla solo nella mente del narratore, e tuttavia la sua voce condiziona le stesse modalità enunciative dell’opera, scritta quasi per intero in seconda persona. Si tratta di un procedimento utilizzato assai di rado in letteratura (ad esempio in testi sperimentali come La modification di Butor, Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino, La maladie de la mort di Marguerite Duras), ma che acquista qui una forte motivazione interna. Nella finzione ercolaniana, infatti, l’«autore» cessa di essere l’emittente per divenire il destinatario di una comunicazione che proviene da altrove, ossia appunto dal demone.
Giuseppe Zuccarino
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Le folle
Solitudine, moltitudine, termini uguali e convertibili per il poeta fecondo e attivo. Chi non sa popolare la sua solitudine non saprà essere solo in una folla indaffarata. Il poeta gode di questo incomparabile privilegio di poter piacere a se stesso e agli altri. Come quelle anime vagabonde che bramano un corpo, lui penetra a suo talento nella maschera di chiunque. E’ solo per lui che tutto è aperto; e se certi luoghi paiono essergli sbarrati, è che ai suoi occhi non valgono la pena di essere visitati.
Charles Baudelaire
