

Ettore Frani
Lettera di Louise du Tronchay, detta Louise de Néant, a Jean Briard, scritta nell’asilo della Salpetrière (1679).
Niente di originale, nei miei pensieri, eccellentissimo padre, se non questa singolare ostinazione della mente a pensare l’opposto della cosa vivente e così privare di moto, letteralmente, tutto il pianeta brulicante di fiumi in piena, di uccelli in volo, di esseri che respirano e ridono e cantano, di foglie che frusciano: pensarli, con assoluta chiarezza, non come fossero dotati di movimento ma perfettamente fermi, ancorati in una silenziosa cosmologia, gelati in una immobilità senza peso, tutti spettri inconsistenti e lievissimi; e al contrario pensare le cose inanimate – muri, tavoli, piatti, finestre, bottiglie –come agitati da un perpetuo e incessante movimento, da un ritmo vorticoso di danza che lascia immota la materia e che qui, in quest’angolo della Salpetrière, sento con irresistibile forza perché me lo confermano anche le voci dei pazzi che mi circondano e che hanno voglia di veder volare via le cose che soffocano.
E’ solo per questa singolare eresia sulla sorte del vivente che io, Louise du Néant, sono qui, in questo asilo di ossessi che chiamano Salpetrière, e niente mi può soddisfare perché tutto è il contrario di tutto, e solo nella progressiva umiliazione del mio corpo, solo nei violenti castighi che imprimo quotidianamente alla carne, posso trasformare il mio corpo vivo in qualcosa di malato e di infetto che concluderà anzitempo il suo ciclo vitale e tornerà così a quelle leggere particelle di nulla di cui, all’origine delle origini, era composta la materia e che dopo, solo per caso – un effetto di luce, un suono acuto, un inutile orgoglio – hanno generato la specie umana.
Che cosa, eccellentissimo monsignore, potrebbe in effetti essere preteso da corpi che hanno come loro unico destino quello di sparire? Quasi non sarebbe necessario dire più niente: il tempo, che tutti ci conduce a rovina, parla per noi. La nientità è una foglia tremante, un labile nodo di rami, e noi un ponte che sparisce nel bosco: al massimo, potremmo ambire a essere il corallo dell’oceano, se per corallo intendiamo quelle povere gemme lambite da tutte le correnti.
Tuttavia, se mi ordinate di scrivere tutte le mie follie, devo ancora aggiungere qualcosa e lo farò accuratamente. Avessi mille vite, padre, e non solo questa, povera e negletta, tutte le sacrificherei a Dio padre – intere e assolute – io che sono indegna di possederne una sola. Quando andavo a trovare delle persone malate nelle loro case, io leccavo le loro piaghe e così punivo la mia lingua, rea di dire io, colpevole di mangiare cibo che sostenesse il mio misero corpo. Baciare le piaghe purulente era il giusto sacrificio, come per la santissima Caterina baciare le teste dei decapitati. Assumere su me stessa il fondo morto e annientato dell’essere umano – quello di cui nessuno parla, che nei trattati mistici e nelle visioni delle sante è amnesia del corpo e bagliore dei bagliori – è il mio destino.
Io sono una povera voce rintanata in una povera grotta. Io sono Louise du Néant. Luisa del nulla, del più infimo nulla. Dio non può visitarmi sotto forma di luce, perché sono indegna anche di pregare. Io credo solo nel dio che mi arriva sotto la veste del folle e del lebbroso e per amore del quale, quando ero ancora libera, urlavo in modi atroci da tutti i punti della casa, sapendo di non avere peccato. Urlavo, respinta e condannata da Colui che avrei voluto amare sopra ogni cosa vivente. Non c’è penitenza abbastanza dolorosa perché io possa scontare le mie colpe. Dovrei vivere solo di ceneri bagnate nelle lacrime.
Tuttavia vivo. E mi arrischio a pensare che non ci possa essere altra vita possibile per i viventi se non quella di essere qui in questa piccola cella, con un tavolo di legno in cui coricarmi, del pane e dell’acqua, sequestrata, rintanata da Dio stesso nella mia vita nascosta.
Come vorrei essere stata lassù, sul Calvario, pronta, per prima, a bere il sangue scaturito dal suo costato. Non avrei udito le ultime parole. Non sarei stata né una donna in lacrime né un apostolo né un centurione:indegna delle forme a cui ambisce la specie umana, sarei stata quel terreno sassoso, quell’erba strappata, sul monte arido e brullo, appena in grado di sopportare il peso del dio, ansiosa di ricevere il sollievo del terremoto.
(Questo racconto apocrifo è apparso in Lezioni di eresia, Graphos, Genova 1996).
