(Con toponomastica)
TERZA PARTE
“Sono uscito per necessità, per levarmi dal tiro incrociato dei ventilatori e per prendere un caffè. Anche per muovere le gambe. Ho incrociato un furgoncino delle onoranze funebri: era in sosta in Via San Luca. Una bella carrozzeria argentata e una sigla rossa con svolazzo. Circa 40 turisti hanno intasato Via Luccoli e piazzetta Luccoli. La voce della guida è monotona in qualsiasi lingua. Svolto in Via della Maddalena per cercare un po’ d’aria; c’è una debole corrente che sparisce davanti alla chiesa a portone spalancato. Entro. Odore d’incenso e un caldo particolare, insopportabile. Ho sperato che dai marmi si alzasse aria fresca. Esco e costeggio Via dei Macelli di Soziglia che è in ombra. Un cane enorme è accovacciato in mezzo alla strada e si prepara a produrre. Scantono verso via Garibaldi ma Piazza del Ferro è tutta al sole e sotto un ponteggio sento uno strano rumore, un gorgoglio, forse una radio sintonizzata male. Riprendo Via Luccoli che si è svuotata di turisti e scendo in Via di Soziglia, più larga di altre vie del centro storico. Nel punto in cui diventa Via Orefici, un venditore di Lotta Comunista, un lungo guinzaglio, un cane di notevoli dimensioni, una sosta di gruppo per il gelato, intralciano. Dovrei infilarmi fra corpo e corpo, tra fiato e fiato. Allora devio verso Campetto. Mentre cammino cerco di ricordare i sogni di stanotte ma tranne una slavata figura di bambina che pretendeva da un mio parente un regalo ogni giorno, il che diventava motivo di discussione, non ricordo altro. Forse scaraventavo quei regali contro le pareti. Una mezz’ora prima avevo imbucato Vico degli Indoratori, sconnesso nei mattoncini, calcinato dal caldo. Guardo le sedie di ferro di un bar colpite dal sole. Più avanti il Vico si restringe e diventa oscuro, sporco o insaponato.
Di nuovo m’imbatto nel corteo funebre che si dirige verso la Chiesa della Vigne: tre autisti imboccheranno una strada stretta alla quale sono abituati, e usciranno in piazza delle Vigne. Vedo male con l’occhio destro, è arrossato. Metto gli occhiali da sole e provo un certo sollievo. La pittrice oggi ha prodotto molto ed espone sul selciato vedute del centro storico dai colori accesi. Mi colpisce un porticato, la sua prospettiva apparentemente corretta e una cupola grigio-verde. Siccome il giro mi ha dato un’impressione di sonnambulismo e in fondo sento il sapore del niente, smetto di scrivere.
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Nel primo pomeriggio, i ricordi di poche ore fa sbiadiscono; forse passano al setaccio per lasciare poche tracce, ma è un setaccio a maglie irregolari, e perciò non si sa che cosa passa. Passa un grande tombino quasi levigato, una rarità da queste parti. Tutti gli altri hanno motivi e scritte ben rilevati. Questo sembra abraso come scudi e insegne storici. È quasi liscio, si può scivolare facilmente. Ha un bel marrone rugginoso. Chi cammina guardando a terra, lo noterà.
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Si danno il cambio ma non lo sanno e del resto sembrano tutti uguali, chi se ne accorgerebbe quando spuntano a una svolta, o fanno gruppo dentro un negozio, o si agitano, spettri irrequieti, tra una friggitoria e l’altra? Agli archi di Via di Sottoripa si aggrappano le ragnatele, domina l’odore di curry. Uno conciona e intanto guarda i gamberoni fritti, i calamari fritti. Un vivavoce, abbandonato fra le ginocchia, gracchia. Di schiena, vestita di nero fino ai piedi, mette ordine e accende incensi sgradevoli che hanno l’odore di un solvente.
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Il barbone dorme all’ombra di Vico dell’Orto, seminudo, quando i gradini di San Siro scottano. Più tardi fa delle incursioni davanti a una grata protetta da filo spinato. È un’apertura a livello del selciato, uno scantinato buio in un angolo. La scruta accovacciato, saltella come una scimmia.
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Un viso che speravo di non rivedere più si scompone e ricompone secondo il flusso dei passanti. Ha la faccia piatta. Lo sfondo in movimento gli dà ombre diverse. Lo sbocco di Via Banchi è affollato. Scantono lungo le vetrine, a sinistra della Loggia dei Banchi. Mi sembra di essere seguito, non da persone ma dagli sguardi dei mascheroni di marmo rivolti verso il basso. Alla fine di Via al Ponte Reale prenderò un caffè, guarderò che pesci espone la Pescheria Granara, cercherò di ricordare i distributori di pop corn lungo Sottoripa, il negozietto di dischi gestito da un gobbetto appassionato di baseball, le colonnine che a sei anni mi affascinavano promettendo una delizia che ora mi disgusta.
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Tornando a casa si comincia a cancellare, si fanno sparire le tracce. Non è facile. Certi volti si fanno largo, scavano una nicchia – lo facevano da tempo – s’insediano, accampano diritti mai concessi. Nella loro ottusità sembrano irremovibili. Non gli avremo aperto un varco noi? Anche minimo? Ci siamo distratti? Si guardava una vetrina? Eravamo troppo occupati a evitare le zone al sole cercando l’ombra? Quando sarà successo? Anche certe cose, nostro malgrado, hanno trovato un posto. Il caldo indebolisce. Le strade hanno un modo perfido di sottrarre energie, anche le parole svenano. Con paletta e piccozza cominciamo a togliere il terreno ai parassiti. Bisogna lavorare al buio e di colpo puntare una potente torcia elettrica dentro il buco che abbiamo scavato. Temono la luce. Vivono nel buio. Ecco perché hanno buon gioco nei sogni. Appena ci addormentiamo, s’infiltrano. Ecco perché bisogna lavorare di paletta e piccozza e svuotare prima di andare a letto. C’è ancora un gioco da tentare per cestinare queste ingombranti presenze: sfruttare il crinale scivoloso fra sonno e veglia. Non è facile. Un abbandono da un lato ci sfavorisce, dall’altro anche. Se restiamo in bilico il più a lungo possibile scrollandoci da un versante e dall’altro ci liberiamo di molti detriti. Come scuotere forte la testa restando col corpo immobile. Bisogna dire di no tante volte. Si può vegliare a occhi chiusi, ingannando. Ma non per molto. Quando arriva il crepuscolo, chi è forte controlla il potenziometro e prolunga una luce bassa. In questa luce soffusa si rinvia la fine del tramonto e si opera di paletta e di piccozza.
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La vigilanza cede. Le scatole che si credevano molto ben sigillate si aprono, magari con un calcio, si rovesciano, e alle conserve salta il coperchio. E chi ha fatto questo? Un cocktail di sonnifero e un vino rosato, tutto con misura, senza distruggere la colonna neoclassica dove ruota una tempesta, guardando il gran nocchiere guidare sicuro il telaio di un vascello e sfidare la tempesta. Siamo sicuri che l’individuo sognato stanotte, così premuroso, così pieno di buoni consigli, non avesse secondi fini entrando nel mio nuovo, modesto alloggio ancora da sistemare, di cui mi scusavo, mentre scendeva una scala di metallo simile a una scala antincendio? Il mio nuovo alloggio era un seminterrato. C’era troppa gente che dava giudizi. Non sempre negativi. Lo spazio era più grande del previsto, anche per me. Gli armadi, per esempio, erano davvero grandi e alti: per una persona sola, un vero lusso, un eccesso. Il seminterrato era in Via delle Grazie, ingresso indipendente, ingresso a uno scantinato, un vero affare. Una grande umidità. In fondo, al centro, un pozzo. L’agente immobiliare è alto, biondo, svagato, finge di essere svagato. Mi declama le virtù della pietra antica, le bizzarrie di finestre medievali, le sbarre, la tranquillità. Piano strada, sotto il piano strada, due scalini, ingresso indipendente. Quando suona un campanello dal suono lacerante la faccia dell’agente va in frantumi come uno specchio. Nessuno vuole ricomporlo. I passanti procedono per andare a guardare il porto. Scatteranno migliaia di foto alle gru, ai cantieri, alla Lanterna avvolta dalla foschia, a qualsiasi cosa.
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Mi costringeva a stringere la mano di persone che non mi piacevano. Voleva che parlassi con gente che detestavo. Aveva un’andatura strana, oscillante, come camminasse sui trampoli, un acrobata senza esserlo. A tratti veniva voglia di usare dei puntelli, come soccorso, perché s’inclinava troppo, o da un lato o dall’altro e si temeva il crollo. Ma non cadeva mai. Di contro faceva cadere gli altri, calpestava le cose degli altri – e non se ne accorgeva. Mi ero accorto che sapeva copiare con grande perizia, una dote che un giorno rivelò in pieno, quando disegnò un insetto alato sui muri di un palazzo. Era stupefacente e mi terrorizzava quel perfetto mimetismo, quelle ali che avvolgevano tre lati, quelle antenne che scendevano dalle pareti, proseguivano sul selciato, risalivano su altre pareti. Era perfetto. Però mancava il movimento, il battito. L’insetto era come infilzato da uno spillo. Era da collezione. Nessuno avrebbe esclamato: sembra che possa volare da un momento all’altro!
“Soyez artiste!”
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In fondo a una cinquantina di metri di scaffali da cui pendono stoffe, spalancato il cancello a due ante in ferro battuto, siede una donna: da lontano un punto rosso con strisce dorate. Sugli scaffali, lunghi e grandi rotoli, sui banchi e nelle ceste scampoli per tutti i gusti. Il soffitto sfarina calce. Il pavimento s’intravvede appena. C’è silenzio. Sembra un santuario. La voce è assorbita dalle stoffe.
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Non riesco a organizzare il mio frastuono interiore. La frase si ripete e a che cosa si riferisce lo capisco qualche minuto dopo. È come ferraglia percossa per verificarne la frequenza; c’è anche un vecchio colapasta con il suono di un vibrafono arrugginito o una pianola col vetro infilato fra le corde. Quella sedia che hai strisciato oggi era in minore. Gli stonati sono dappertutto, fanno solo rumore e non lo sanno usare. Uno che scrive batte il tempo col dito. Uno ha lasciato il resto del suo pasto sui gradini di San Siro disponendolo come una scala cromatica. Passa una donna che ha un passo musicale, ed è raro. Una voce stridula, di testa, domina un passaggio a volta, un tunnel, alla fine di Via San Luca. Uno dei tanti vicoli chiusi secondo un orario. Bel cancello. Pareti imbrattate. Un vero pisciatoio a cielo aperto, commenta uno. Demoliscono le latrine di fronte ai portici di Via Turati. Il tetto di ferro era arricciato, a fogli di metallo rugginosi. La pittrice espone tre girasoli sul punto di sfiorire, o già concavi. Non hanno i gambi intrecciati, forse non hanno i gambi. O talmente corti.
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Dopo anni di conoscenza d’un tratto gli ho visto una faccia da lince; eppure per circa un decennio mi era sembrato quasi ingenuo, sprovveduto. Com’è affiorata quell’espressione? Come si è affilato il mento? Suo malgrado, immagino, ha dovuto constatare che non poteva più sostenere quella parte, non poteva più lodare quelle strade, quelle facce, quegli angoli. Da salvare non aveva quasi più niente. Neppure il suo modo di camminare o di appoggiarsi su certe sillabe con un tono perentorio dove trionfavano gli occorre, bisogna, si deve, è necessario… Era diventato grigio senza scala di grigi. In una via che amava, Via Davide Chiossone, le incongruenze, la sporcizia accumulata negli angoli, i teloni a vela immacolati di un noto bar, senza una sola cacca di piccione, bianchissimi, perfettamente tesi, il sovrapporta, lo sbocco in Piazza San Matteo, ora una specie di piattaforma per ristoranti, e dal capo opposto la mole di un palazzo estraneo alla città vecchia, i portici di cattivo gusto, lo scarico dei rifiuti, i bidoni e il tanfo, un vicolo chiuso, la selezione delle attività in base al reddito, gli tappavano la bocca. “Sì, però… diceva… e un vivavoce gli esplodeva in un orecchio, un mezzo della spazzatura intralciava, rasentava le pareti, lasciava una scia appestante… “Sì, ma… e il suo cellulare esplodeva con una suoneria assordante.
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“Non possiamo fare niente, ci dispiace. Però, visto che siamo qui, ne approfittiamo.” E si servono di coca infilando le mani in uno sportello dentro un muro, poi ridono con le facce imbiancate, le pinne del naso che palpitano. Sono vestiti di blu, alti, sottili, eleganti, le dentature bianchissime. Due uomini e una donna. Da lontano si sente il rumore del traffico stradale. Un basso continuo con sussulti più acuti. Una vecchia conoscenza diventa un cero da chiesa. Non ha braccia né gambe, sembra intagliato e sagomato in un blocco di cera. La linea delle labbra, dall’espressione cattiva, scompare dentro la cera, come una bocca sdentata dentro la carne floscia. Avrei voluto picchiarlo. Mi fissa con occhi piccoli simili a bottoni, mi odia. “Sei un birillo di cera, gli dicevo, di umano hai poco.” Accanto c’è una donna bassa: avrei voluto picchiare anche lei e alzo un braccio per colpirla ma il braccio è debole e il colpo non parte. “Qui non puoi toccarci, non hai nessuna forza. Siamo all’incrocio con Vico Lavagna. Qui tu non esisti.”
Una voce mi chiedeva dov’erano i vecchi lavatoi, li aveva visti in una foto. Li hanno smantellati, ho risposto. Erano in Piazza Lavagna. “E più si cerca di trattenere il pianto, aggiunge la stessa voce, quando il pianto invece deve erompere, più la nostra faccia si contrae, diventa una ruga quasi comica.” Io annuivo e mi allontanavo verso il rumore delle auto imboccando una fila di portici separati da cancelli o grate alte dal pavimento al soffitto. “Faccia in fretta, mi esorta una voce, stiamo chiudendo tutto. Fra poco cala il buio. Ha un lasciapassare? Un documento? Basta anche una foto tessera. Si sbrighi.”
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Il 4 agosto si celebra un lutto già vecchio di un paio di settimane – “che senso ha? commenta uno. Non era neppure famoso. Quanto scialo per un morto, come se fosse il primo!” In realtà è tutto molto silenzioso, ci sono pochissime persone, pochi fiori. Il sole è sfacciato, il blu del cielo chiassoso, il marmo smagliante del Barchile è inopportuno, la mancanza d’acqua offensiva. Cinque rintocchi. Un veicolo lungo. Rito abbreviato. L’auto lunga e bassa si allontana col feretro. Una manciata di disegni: fiori, vedute, gabbiani, colora il selciato. La pittrice ha gli occhiali con la montatura rossa, una sigaretta spenta fra le labbra, una canottiera bianca.
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“Hai radunato le tue cose sul muro: una penna, gli occhiali e un dado. Vuoi proteggerle nel caso di una raffica, da un tuo stesso gesto sbadato, da un colpo di scopa dello spazzino. Sei appoggiato a una specie di terrazza attraversata da una scala. I tuoi oggetti, che tieni d’occhio, hanno una lieve oscillazione. Sul muro si è posato un piccione. I dislivelli qui non sono profondi, cadessero, i tuoi oggetti, sarebbe facile recuperarli.” Perché cammina così rigido, come fosse di legno e quasi a scatti? Ha le guance rosse, la pelle bianca, un’aria falsamente giovanile. Scende da Vico Vegetti. Agguanto subito i miei oggetti e mi abbasso sotto il muro. Non voglio che mi veda. Mi farebbe domande, commenterebbe la tremenda calura, guarderebbe il piccione chiedendosi ad alta voce se soffre il caldo come noi. Ha il passo pesante. La piazza è vuota. Gli scaffali di luce sono chiusi. Appena scompare in Via San Bernardo rispunto e di nuovo poso i miei oggetti sopra il muro, ma adesso senza il timore di perderli. Li guardo come non avessi altro da opporre a una raffica, al mio gesto sbadato, allo spazzino. Sono ipotesi remote, mi dico. Il vero pericolo è scomparso in Via San Bernardo, il muro mi ha nascosto. Ma la vera sicurezza è quel piccione che non si è mosso, che sembra garantire le mie cose e custodirle.
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“Qualcuna ha perso le unghie… davvero… vieni a vedere…” Una voce in Via dei Macelli di Soziglia, 5 agosto 2022.
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“Raccolgo storie di scontento, frasi, monosillabi.” Mi giro e non vedo nessuno. Sono arrivato in Campopisano: col caldo torrido il quartiere sembra abbandonato. I ciottoli bianchi del risseu accecano. Il contrasto con quelli scuri disturba gli occhi. Una madonna emerge da un muro con la testa che sembra fatta di sabbia. In basso, il brusio della sopraelevata. Sulla collina di Carignano una chiesa troppo grossa e i ben noti, opprimenti edifici. Dentro un portone c’è un uomo. Dice: “mi sono riparato dal sole, bruciava la testa.” Il contrasto di luce è tale che non riesco a vederlo. Prosegue, come se mi conoscesse: “Qui sto all’ombra ma non è un gran sollievo. Però riposo gli occhi. Non sono troppo vecchio, non sono più giovane. Lei ha visto lo scempio in piazza? Non è più niente. Conserva un certo fascino, sì, ma chi non l’ha vista prima non capisce la differenza. Che ore sono? I negozi sono già chiusi? Non ho sentito rintocchi. Sento un continuo fruscio, un rombo scuro, sotterraneo, snervante. Lei sta girando senza scopo e lo fa spesso. Apparentemente senza scopo, forse. Scopre il motivo, se le riesce, mentre cammina o dopo giorni. A volte nei sogni. A volte da un suono o da un riflesso. Il fondo dell’abside era pieno di statue e capitelli impolverati – nel 1987. Una statua, un torso di donna sembrava divincolarsi dalla base, brandiva una specie di mezza luna come un’arma. Due minuscole figure, una donna e un uomo, stavano sull’ingresso in controluce. Li rivedo in una fotografia in bianco e nero. È lei che ha scattato la foto. Le scale oggi sono ingombre di materiali, la chiesa è coperta da ponteggi, i box degli operai riflettono una luce metallica. All’inizio dicevo che raccolgo lo scontento. Lo scontento dell’inverno che non è mutato in luminosa estate, ma in un’estate opprimente di calura, guerre e Covid.”
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Ho sbagliato e ho messo due consonanti: l’errore sarà pieno di conseguenze, ritardi, discussioni, richieste, ritrattazioni. Il cielo è nuvoloso ma non piove, non si sentono tuoni neppure in lontananza. Nella città di C, quando esplode un tuono, il rumore sembra artefatto, prodotto da una macchina che fabbrica i temporali. Sui gradini di Palazzo Ducale si scivola facilmente, quando sono bagnati dalla pioggia diventano come il sapone. “Vogliono far fuori il ‘900 perché la sua esistenza contesta continuamente il XXI secolo. Per adesso, negare che sia esistito è difficile. Meglio tenerlo a bada con restrizioni, ammonimenti, revisioni. Così diventa sottile, piatto, lontanissimo, esangue. Lo indeboliscono con una feroce cura dimagrante. Poi, basterà un soffio.”
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Ho chiuso di colpo una traduzione perché oppresso dal caldo. Non solo dal caldo. Il culmine dell’annata è vicino, il culmine dell’idiozia superato. Potessi dormire, solo dormire senza sogni. Sono tutti tatuati, hanno le unghie affilate. Anche puliti sembrano sporchi. E perché si agitano così tanto? Perché muovono le labbra di continuo? Berciano. O per loro bercia il vivavoce. Bisogna sopraffare l’altro, iniziando a imitarlo per poi pesare di più, schiacciare di più, agglutinare, avvolgere, rubare. Furto di parlate. Furto di angoli dove telefonare. Continui furti di immagini. Si schierano coi ventagli – tipico prodotto della città di C. – gridano il nome della città e si filmano. All’istante manderanno il video.
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Bene. Eccoci in Piazza Campetto. Non è una piazza a dire la verità. Da quel supermercato, dalla sua grata enorme esce aria calda. Dai rubinetti del Barchile non esce acqua. La mendicante autunno-inverno è in vacanza. A chi manca un mucchio di stracci sporchi e una litania? Guardate la base di quei muri: consumata, sporca. Guardate le nuove panchine immacolate, degne di un paio di lumini per la forma e il tipo di marmo. Deponete una corona: i motivi per un lutto ci sono sempre: sono morte così tante cose in questi ultimi decenni. Sono tante le sparizioni, più delle morti, come sotto ogni dittatura che si rispetti. Passa il trenino dei turisti. Scattano foto.
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Sotto questi portici rallegratevi: bevete e non pensate. È un angolo senza spazzatura, questo, è raro. Teniamo lontani anche i piccioni. Facile: noi non diamo da mangiare, solo da bere. Qualche metro più avanti potete godere della carta per terra e dei piccioni sui tavolini. Povere creature! Se non ci fossero focaccerie e turisti che cosa mangerebbero? Anche la LIPU è d’accordo: le focaccerie fanno bene ai pennuti. Una donna striscia una sedia di ferro nero e si alza: ubriaca barcolla, forse inveisce, forse ha messo in moto il vivavoce. Si agita. Nessuno ci fa caso. Il cameriere raccoglie la salvietta da terra e la butta sul vassoio.
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Sembra che il golfo stanotte cambierà dimensione in larghezza, come una tenaglia, chiudendosi di qualche metro. Si sentirà lo scatto. Diranno che è stato un sabotaggio, un attentato alle strutture del divertimento e dell’incasso. Dietro un mucchio di reti dorme un senza tetto. Dalle reti esala odore di marcio. Perché hanno costruito quella scatola di vetro e di metallo? Ha i vetri sporchi. L’andatura del gabbiano è maestosa.
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Alle nove di sera il niente è pieno di rumore.
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I sei minuti della lavatrice automatica non corrispondono ai sei minuti del mio orologio. Entrambi non corrispondono ai sei minuti dell’orologio di Piazza Caricamento fermo da mesi. Sotto l’orologio, seduti sui gradini che danno sulla fossa di Sottoripa, parlano velocissimi saltando una sillaba su due. Ne esce una composizione sincopata, dai toni rauchi e sibilanti. Molta aria aspirata a imbuto, molte concrezioni sonore. Passa una specie di siluro di plastica, un passeggino a forma di ellisse.
Stamattina si sono scatenati i flessibili: da una finestra altissima uno sciame di calabroni meccanici e scintille.
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Oggi sono entrato in un negozio dove di solito mi sento bene accolto; non dico in famiglia, ma salutato con una certa simpatia, sì. C’era qualcosa che non andava, oggi. Non era ostilità, era come se lo spazio si degnasse, con riserva, di farmi entrare. L’arredamento e i bottegai mi trattavano con sufficienza mascherata da professionalità.
L’acquisto non bastava a giustificare la mia presenza. Che altro occorreva? A piccoli passi mi sono spostato verso il fondo, accanto all’uscita. Mi costringevo a guardare la merce e altro. Il banco arrivava giusto all’altezza degli occhi, una linea di cristallo, un taglio, dietro cui spuntavano teste e berrettini di commessi. Il negozio era vuoto. Perciò la deferenza era rivolta verso di me. Magari immaginavo tutto, vedevo nei gesti quel che io temevo, nello spazio una specie di esclusione. Così ho accelerato gli acquisti e sono uscito in fretta. Dall’uscita entravano tre o quattro persone corpulente, vestite tutte di bianco. Reggevano un cesto circolare decorato da una corona di fiori.
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È giusto alzare un muro fra le due zone. Fra quella dove si mangia e quella dove non si mangia. Il muro è simbolico, simulato, proiettato su uno schermo. Non vogliamo discriminare. Vogliamo far capire, insegnare. Il muro è solo un esempio – il primo – per mettere ordine. A nessuno piace la confusione. Dal lato di chi non mangia ci sarà un po’ di sabbia e una grande fessura nel muro dove chi mangia potrà introdurre quel che gli è rimasto, chiamateli avanzi se volete, ma anche donazioni, generosità misurata sulla consistenza e la freschezza degli avanzi. Perché sprecare quando c’è gente che ha poco, pochissimo, che ancora fruga nella spazzatura? Noi mostriamo un esempio sia a chi mangia sia a chi non mangia. Non ci sono disuguaglianze. La didattica è uguale per tutti. Il lato di chi mangia, a tratti, non sarà visibile a chi non mangia. Non vogliamo nascano pregiudizi basati su semplici immagini. Mentre il lato di chi non mangia, giustamente il più irrequieto, sarà visibile quando e come si vuole. Questa preferenza servirà a stimolare la generosità di chi mangia.
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“Ha notato che mancano quasi del tutto le descrizioni del paesaggio? E quando ci sono: scarne, incise. Per questo restano impresse nella memoria.” In effetti, l’ultima che ricordo è una folata di vento e pioggia che irrompe da una finestra spalancata. E qualcuno scavalca per fuggire, d’inverno, in campagna, e non ha gli abiti adatti per ripararsi dal temporale. Dormirà al margine della strada perché ha calcolato male le distanze. Si nasconderà dietro gli alberi quando passa un’auto.
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“Ha notato quanto sono fitte le descrizioni del paesaggio? Anche le case, i loro interni, sono trattate come paesaggio. Anche i volti. Ricorda quel passo dove il volto di una donna è paragonato, quando è di profilo a una roccia, e a un lago profondo quando è di fronte? La descrizione è minuziosa e magistrale. L’interno di una stanza sembra devastato da una tempesta e invece il caos è dovuto a un semplice trasloco. Ma la stanza è quella di un bambino ed è lui che osserva atterrito il cambiamento.”
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In Vico Indoratori il selciato cede, le pietre sono spaccate, l’odore di vomito ristagna. È un gioco a incastri incastrare le scarpe nelle fessure adatte per non inciampare. Occorrono stivali militari e tute. Una sirena è durata quasi tutta la notte; sembrava provenire da Via Luccoli, da uno degli innumerevoli ponteggi protetti dal sistema antintrusione. Di notte le lampade rosse di plastica creano un effetto da Mille e una notte dark, spandendo sui ponteggi una luce rossa fra il bordello e il lampioncino cinese. Le ombre. Le ombre hanno un colore di vino rovesciato sulle pietre, rosso-sporco. La fine di agosto è molto calda, tutte le finestre sono aperte, l’immenso cortile multi etnico prorompe in gridi infantili e animaleschi. Il Giardino di Vico Indoratori ha una luce opaca, smorta e intensa. Dov’è l’erba? I trolley arrancano, enormi o piccolissimi, trainati col rumore di uno scalpiccio di plastica.
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Ho immaginato i trolley presi di mira, bucherellati dalle fucilate di cecchini appostati in cima ai palazzi Doria. Mira precisa e scariche fitte tanto da staccare le mani dalle maniglie. In pieno giorno. Sotto i gradini di Piazza San Matteo, del ristorante Piazza San Matteo, avviati verso Via Davide Chiossone. Spari fitti e silenziosi a conficcarsi e a restare nella materia: plastica o carne sotto l’indifferenza dei masticatori, dei camerieri che accennano una mossetta indispettita senza lasciare il vassoio. Qualche risata isterica pensando a una simulazione, a una scena cinematografica. I trolley rotolano, benché bersagliati, sobbalzano e proseguono trainati, strascicati verso una destinazione dove devono arrivare in tempo nonostante tutto. I cecchini, adesso, mirano ai camerieri o meglio ai vassoi. Saltano i bicchieri, saltellano i camerieri. Una vineria all’angolo con Salita San Matteo, prende le cose sul serio e abbassa le saracinesche. Ora i cecchini, fior di professionisti, mirano solo ai polsi. Si abbattono i trolley, una bambina applaude. Chi ha paura dei cecchini di fine agosto? È una simulazione, tutti sono coinvolti, tutti hanno recitato. È l’ultimo spettacolo del Teatro Carnage, un tempo Garage, allestito per i turisti di fine estate.
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Oggi, verso le 14.00, venerdì 26 agosto 2022, Vico delle Pietre Preziose era disseminato di feci canine.
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Oggi, verso le 14.10, Vico delle Pietre Preziose era disseminato di feci canine.
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Oggi, domenica 28 agosto 2022, Vico delle Pietre Preziose è pieno di merda di cane.
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Le righe sul foglio sono storte come le strade della città di C. Però non s’intrecciano, non fanno nastri, ottovolanti, giravolte. Sono allineate verso il basso perché una scansione è venuta male. Non precipitano, s’inclinano verso. Se calasse una mano sul foglio e lo contraesse, si avrebbe un abbozzo di cartina della città vecchia.
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Oggi, 29 agosto 2022, alle ore 12.30, Via dei Conservatori del Mare è piena di merda, due sono accrocchiati su luridi gradini, fumano erba, nuvole di fumo su cui batte un taglio di luce, la pietra è zuppa di piscio. Vico Morando mette a dura prova le narici. Qualche zaffata di ammoniaca. E i fanatici del pesto, a ridosso del solito muro inclinato, come incollati con la faccia al muro… e il rigagnolo di acqua insaponata a pochi metri… it’s a nightmare… i’m happy not to live here…
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“È faticoso camminare su una gamba sola benché lei si aiuti con una stampella. Arrivare in cima al colle, con questo caldo umido, è segno di forza, ostinazione. Lei prima era in Via San Lorenzo, chiedeva l’elemosina. Qui c’è poca gente, rimedierà ben poco.” Questa è la voce che un mio sogno ospita. Non si rivolge a me ma a un ragazzo privo di una gamba. Sui due lati di Via San Lorenzo lumini, aromi di kebab, arpe, per l’ascesa al colle del mutilato – ex calciatore vuole la leggenda. Un’ascesa senza nulla di sacro che non sia la parodia del sacro. “Non giri in questa piazza, torni a Caricamento, lo dico per lei. Qui viene poca gente. Forse voleva un posto con poche persone e una simulazione di spazio. Senta il soffio del salino, la ruggine dei cantieri. Il canto delle gru, il grido dei gabbiani. Oggi la luce è opaca, è fastidiosa. Torni al porto.”
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“Lei ha passato anni a inquadrare sudiciume e lo ha ritenuto un’anomalia; poi ha scoperto che è costitutivo della città di C. È il suo telaio. Che sia urbanistico o morale, non cambia. Il sudiciume è la materia su cui si specula, il sudiciume accoppiato al caos è il titolo più quotato. Le pareti al limite del crollo sono fonte di speculazione. Il cantiere non si ferma. Il degrado è fonte di reddito, il suo argine anche. Per degrado s’intende anche il rodeo del cibo di strada (Street Food Fest) in Piazza delle Feste con lunga fila di bidoni della spazzatura. È cultura. Cow Boy e Padania. Guardi l’insegna tipo ranch. Guardi i maxi schermi, guardi i piloni della sopraelevata, ora sono colorati, legga gli slogan egualitari. Attivi al massimo del volume il suo vivavoce, filmi gli schermi, mandi il video agli amici, lo faccia prima degli altri, li bruci sul tempo, lasci un commento, dia un voto, si senta giudice anche lei per qualche minuto, accusi, difenda, respinga, rimandi, si senta in alto, punti il dito dietro un banco.
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Aveva un viso malinconico. Una guancia era consumata come per attrito prolungato – decenni – contro tempeste di salino. Sembrava aver visto tante cose e niente. Aveva lo sguardo fisso al vuoto eppure attento a quel che accadeva in pochi metri. Era triste perché lontano dal mare aperto, dagli oceani e dai porti. Così sembrava. Sembrava in continua lotta fra una sponda stabile e una vastità ondeggiante. Un piede dentro un liquido salmastro, l’altro ben piantato sulle pietre di un molo. Guardava gli alberi del giardino, tutti gli alberi, come alberature senza vele. Sentiva l’impatto – spaventoso – dei marosi seduto su una sedia dentro una piccola stanza in una casa da cui neppure si vedeva il mare. Aveva la testa piena di ondate. Le ossa del cranio erano il telaio di un vascello e vibravano. Era contento e insieme triste. Non cercava di vedere lontano con strumenti ottici, chiudeva gli occhi. Allora, la costa del Cile, interminabile e frastagliata, bianca di tonnellate di guano, bianco sul bianco della spuma delle onde, appariva avvicinandosi rapida, sempre più vicina, abbagliante, sempre più pericolosa. Che magnifico tumulto! pensava stringendo i braccioli di paglia della sedia e sorridendo. Che chiasso meraviglioso! E gli urli dei gabbiani! Neppure una voce umana e neppure una nave! Che progresso!
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Quando la tempesta è finita mi scrollo le gocce dal cappotto, ne osservo una, tenace, poi scrollo anche quella. Resto fermo davanti alla saracinesca di Müller, sento ancora dei boati: c’è una svolta pericolosa. Meglio far sporgere le mani per sentire la velocità del vento. Dopo mesi di siccità ecco una pioggia furente, ininterrotta. La vasca ha traboccato, un’ondata gigantesca ha colpito Palazzo Ducale allagandone l’interno.
La goccia fa da specchio distorto alle rovine. Una calma inaspettata, quasi un torpore, invincibile. Non ci sono mezzi di soccorso. Si deposita una strana polvere viola e si rapprende.
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Si può iniziare da una via qualsiasi, una svolta o insegna o cavo penzolante o tubo di gomma o magnifico portale imbrattato. Oggi piove. I palazzi inzuppati sono scatole di cartone.
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Anche oggi abbiamo caldo umido, poco vento, velature sulle facce, sul cielo. In piazza Caricamento si contano tre piccioni sventrati, centinaia di pietre sconnesse, due tricicli per i turisti. La campana della giostra rintocca, la sopraelevata sgocciola. Dietro i vetri non c’è nessuno; è la gabbia delle informazioni turistiche. Un graffio sulla pavimentazione, lunghissimo.
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“Stanotte lei ha sognato una fuga in treno o in pullman. Era male organizzata. La cabina del conducente era piena di persone, lei non poteva appoggiare i piedi sui pedali. All’esterno, un sistema di cinghie a slitta per dare la prima spinta al mezzo, non aveva funzionato. Allora qualcuno ha tagliato le cinghie e il mezzo ha dato uno scossone o due ma è rimasto dov’era. Nella cabina ridevano tutti, giocavano come fossero seduti su un grande divano. Lei voleva fuggire dalla città di C. e ha fatto questo sogno tante volte e ogni volta è stato un fallimento: mancava qualcosa, o c’era troppo di qualcosa, o i manovratori di cinghie o i costruttori di binari erano inetti. Spesso questi sogni di fuga terminavano in maniera drammatica o pagliaccesca. Quando pensava di avercela fatta, spuntavano cecchini da torri di guardia mimetizzate fra alberi e case. Le sparavano addosso, l’epilogo era un risveglio agitato. Altre volte tutto finiva in una specie di festa idiota. La fuga era dimenticata in fretta: con una rapidità angosciosa, l’ennesimo fallimento veniva archiviato. Intorno si ritrovava gente che sghignazzava, ballava e beveva.”
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L’autobus rosso a due piani si scoloriva. Sotto la vernice appariva il grigio. Qualche cappello era già volato via. L’autobus, da una decina di minuti, percorreva lo stesso semicerchio, trasportava turisti. Al decimo giro le scaglie di vernice rossa coprivano la strada. Dall’esterno nessuno notava lo strano fenomeno. All’interno qualcuno si sentiva sballottato ma rideva e scattava foto alla fontana, a Palazzo Ducale, a Garibaldi. Qualche urlo in inglese, una donna che tratteneva i figli, un uomo che si sporgeva, forse troppo. Era una giornata magnifica: cielo blu, temperatura mite, qualche nuvola bianchissima e soffice contro cui si stagliava l’angelo mutilato, oggetto d’innumerevoli scatti e video. Sembrava un gioco quel vai e vieni semicircolare dell’autobus: non troppo rapido, non troppo lento, giusto perché i turisti godessero della visita alla città di C., alla sua piazza più nota. Nel vascone erano finite scaglie di vernice e qualche cappello. L’acqua era quasi rossa, di un rosso metallico. L’autobus, quasi slavato, grigio come un’autoblinda, andava avanti e indietro nel suo semicerchio.
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“Non si avvicini, cambi vicolo. Questo è il mio vicolo, lo coloro e lo addobbo da anni. Avrà ben visto in tutta la città di C. il mio arredo urbano. Metto anche rami di palma. Sono grandi e secchi. Non li calpesti, scricchiolano forte, troppo forte, possono attirare l’attenzione, qualcuno chiederebbe di toglierli. So che mi invidiano. Eppure faccio il bene di tutti, diffondo il Bene, incido i tronchi, scrivo dappertutto, dispongo fiori e ortaggi per il bene di tutti, per la salvezza di tutti perché siete tutti deviati, avete bisogno di fiori, di mediatori con l’Altissimo che non parla con il primo venuto. Sì, io porto la sua parola, la Verità, sono la stagione della semina e della raccolta. Fra le due intanto imbratto i muri, le fontane, le porte, gli sportelli, i vicoli, quello che trovo e che mi prendo, nessuno mi disturba; soltanto uno un giorno ha provato e gli ho sputato in faccia. Non aveva capito niente, non aveva visto l’aureola di fiori che circonda il mio cappello, la mia aura sacerdotale, il mio incedere. In ogni caso, lei cambi vicolo, si dimentichi delle ghirlande e delle palme, delle carote e delle mele: marciranno fra pochi giorni ma nessuno oserà levarle.”
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Non era la prima volta che mi chiedeva di stringergli la mano. Ripeteva: “Mettiamoci una pietra sopra, è passato tanto tempo, adesso non ha più senso.” Per l’occasione aveva curato le mani: unghie perfette, mano idratata, gesto sicuro, affidabile, braccio teso con autentica energia. Lo conoscevo da anni: di solito quando mentiva gli apparivano delle chiazze rosse sulla fronte. Adesso la fronte restava bianca. Eppure sentivo come se esercitasse un controllo, uno sforzo come quando uno trattiene un bisogno urgente. Forse sbagliavo. Forse era il luogo, dove la luce filtrava attraverso vetrate a colori, come nelle chiese, o un rumore di applausi che veniva chissà da dove, e la sua fronte che spiavo, e che non era arrossata, ma lucida per il caldo e il sudore. Mi chiedevo perché avesse le unghie così curate; non le aveva mai avute troppo pulite. E perché un lieve tremito all’angolo delle labbra. Non era il caso. Uno scroscio di applausi ripetuti, un palcoscenico e una luce da confessionale. Immaginavo tutto questo mentre fissavo la sua mano tesa e piccola all’estremità di un braccio lievemente corto. Le sterlizie erano ormai senza fiori, la scarpa era sempre appesa allo stesso cavo. Era aumentato il numero dei bidoni. Quel braccio teso quanto avrebbe resistito? E la fronte, quando si sarebbe arrossata? Immaginavo il braccio e la mano trasformati nell’impugnatura e nella canna di una pistola. La fronte restava bianca. Il braccio teso. Lo sguardo fisso con lievi oscillazioni. Dal sottopasso il fruscio di piccioni in gabbia o un gruppo di spazzini in azione con le scope di saggina. Avevo molti dubbi su tutto: il luogo, quella luce, il braccio un po’ corto che era il suo, senza dubbio, era vero. Le sterlizie senza fiore rispettavano il ciclo stagionale. La polvere e le piume uscite dal sottopasso formavano una piccola nuvola risucchiata verso il basso, verso Vico della Casana. Non era la sua zona. Era strano avermi fissato un appuntamento proprio lì. Erano le 14.30 al mio orologio. Le 15.00 al suo. Gli elicotteri avevano cominciato a ronzare dal mattino presto. Gli altoparlanti davano le previsioni del tempo ogni 30 minuti. Sulla fronte gli si era formata una ruga piccola. La fossetta sul mento, tipica, si dice, degli uomini cattivi, era più infossata. L’insegna a spirale del barbiere girava e girava accanto ai cancelli del sottopasso chiuso da anni. Il gallo di ferro era immobile. “Ma non ti pesa quella mano?” dissi d’un tratto, non potendo più resistere. “Puoi farla riposare. Distendi il braccio e asciuga quell’inizio di sudore sulla fronte. Non è il caso. Fai troppa fatica. L’intenzione non è male, ma forse l’allenamento è poco. Spegni i falsi applausi. Spalmati un po’ di crema sulle mani piccole e sudaticce.”
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La scala si attorceva a un’altra scala e a sua volta quest’ultima s’innestava in un muro. Il muro era liscio, senza finestre, grondaie, o sporgenze. Tornai indietro. Vidi il grigio delle saracinesche diventare rosso ruggine: il sole era al tramonto. Conoscevo la zona ma non bene. I due tornanti sotto piazza del Carmine e l’ex mercato, alcune stradette di mattoni con nomi curiosi: Piazza della Giuggiola, Vico del Cioccolatte, e una lunga via che saliva all’Albergo dei Poveri ai cui fianchi spiovevano muraglioni sovrastati da pagode e statue. Non ricordavo un marciapiede così stretto e alto, così stretto da permettere il passaggio a una sola persona per volta. In quel momento lo impegnava un uomo con le stampelle. Attraversai la strada. Una ragazza trascinava al guinzaglio un vecchio cocker. Le imposte crollate erano ormai decine, i vetri spaccati, centinaia. Dall’ex mercato, attraverso un enorme pannello, un soffio di aria caldissima investiva persone e cose. Ricordavo un cartello con la foto di un gatto smarrito e una panchina storta. L’odore di feci secche scaldate dal sole era pungente. C’era un manifesto enorme con la faccia di un politico a cui avevano bruciato gli occhi. Il mese successivo la città sarebbe andata alle urne. Quanto a me, mi chiedevo se il vecchio ristorante cinese fosse ancora aperto: avevo fame e mi trovavo ancora alla base delle scale da cui ero sceso o perlomeno erano scale identiche. Le osservavo: lo stesso sviluppo, lo stesso sbocco dentro un muro liscio senza appigli. Lo stesso materiale. Ma certi angoli non erano gli stessi.
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“La prima scena è buona: sembra proprio la città che non è. Nella post produzione il trompe l’oeil digitale completerà l’opera, stamperà un falso memorabile. Toglieremo e aggiungeremo. Cambieremo i colori, il contrasto, la luminosità. Saranno privilegiate le riprese aeree. Dall’alto questa è una città affascinante come il condominio della Barbie. Toglieremo molta gente in certi punti, ne aggiungeremo altra in zone semivuote, come Sarzano e dintorni. Avremo cura di epurare dal paesaggio urbano il Centro dei Liguri, i Giardini di Plastica… ehi! levatemi subito quei tossici, quei cani enormi che stanno cagando, quel tizio che infila bustine nei muri. Mi raccomando. Ritoccate gli affreschi del Ducale e di San Giorgio, devono essere perfetti. Saturate i colori, devono essere plastificati, delle caramelle, un tributo al pop. Nessun suono in presa diretta… sostituite tutto con un bel frangente continuo, qualche applauso, musica idiota… Non fate capire del tutto se quel borgo è Boccadasse o una scogliera nei dintorni della Foce. E la sopraelevata… sempre dall’alto, mi raccomando! Aggiungete qualche palma. Cambiate la direzione delle ombre. Quel gruppo di ubriachi sui muretti… sì quelli che stanno dai cancelli del porto… levateli. Allargate Via al Ponte Reale… e già che ci siete, sbiancate qualche nero… sto scherzando… Ah! levate tutti i mezzi dell’AMIU. Anche questi, solo ripresi dall’alto. A volo di uccello. Come i paesaggi senesi. Togliete le gabbie, le trincee, i reticolati dei ponteggi della cattedrale. Così com’è è orrenda. Sembra un’enorme scatola di truciolato con maxischermo. L’ingresso centrale è un tunnel buio. Che disastro! Mi sa che avremo da lavorare parecchio con dettagli e immagini di repertorio. Ricordatevi di sbiancare alla candeggina statue e portali. Il modello è il recente restauro del Barchile. Voglio una città coloratissima con bianchi squillanti e neri profondi. Ah, nelle riprese a mano, per i vicoli, levate alcune figure da Via Orefici, una soprattutto, ha la voce da castrato, acutissima, sembra raggrinzito come un vecchio piccione e porta molti foulard etnici. Fate vedere come sarà Ponte Parodi ma con un pizzico di democrazia, tipo Il Ponte restituito ai genovesi. Quindi, mischiate imbarcazioni e gente di ogni colore… uguaglianza uguaglianza… mi raccomando!”
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Ero stanco di vedere una riga dopo l’altra, ciascuna spaziata allo stesso modo, ciascuna col margine esatto a destra, col margine esatto a sinistra. Centinaia di pagine tutte uguali, tutte ordinate, tutte simmetriche. L’interno come l’esterno a rettangolo replicato centinaia di volte: fronte e retro. Era compatto, certo. Era pratico, certo. Forse un refuso avrebbe dato un po’ di vivacità a quel blocco; una macchiolina, un peletto, una consonante al posto di una vocale… Il rettangolo stampato giaceva sul letto, inerte. Ogni tanto gli davo dei colpetti timidi col dito: lo picchiettavo sul dorso, lo spostavo di pochi centimetri. Verso il bordo del letto. Fingevo di guardare la copertina e di riflettere. Mi giravo verso il comodino con una scusa: prendere un fazzoletto, guardare la temperatura. Intanto, colpetto dopo colpetto, il rettangolo stampato scivolava verso il limite. Gesù che noia! Sì è un oggetto perfetto. Ha un bel fruscio, sembra un ventaglio, o vento tra le foglie. E si lascerebbe anche capovolgere e incurvare a barchetta! Benché spigoloso sa essere docile. Intanto lo trattengo per una pagina e lo sospendo sul vuoto, lo scrollo un pochettino… è ben legato. Non cede. Però adesso ha una grinza che gli attraversa il dorso verticalmente e una piega dove lo tengo fra indice e pollice. Lo scrollo ancora un po’. Lo guardo di sbieco e scrollo forte. Fa un rumore strano, come un animale impagliato appeso a una zampa. Fingo di essere sbadato e il libro colpisce il bordo in legno del letto. Ora ha uno spigolo ammaccato e ha perso qualche filo, qualche corpuscolo di carta. Si avverte un minimo segnale di apertura, qualche piega, uno slittamento del piatto inferiore.
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Ho sognato di essere inseguito e mi sono svegliato. Sentivo che il sogno non era finito. Dopo pochi minuti ho ripreso a dormire e a essere inseguito. Forse avrei saputo perché qualcuno mi inseguiva. Correvo da quanto? Ero trafelato ma stranamente non stanco. Neppure tanto sudato e neppure preoccupato più di tanto. Forse più curioso di sapere perché qualcuno mi inseguiva. Alle spalle, uno gridava: “Hai fatto una cosa che non dovevi fare ma non te ne sei accorto. E non ricordi quando, né dove. Per questo ti inseguo incaricato da altri che hai danneggiato con la tua sciagurata distrazione. Hai danneggiato anche me, ma non in modo grave.” Allora cercavo di ricordare e continuavo a correre mentre la notte già finiva ma senza alba, e con un salto, eccoci in pieno giorno. Il sole era forte, il cielo senza nuvole. C’era caldo. Chi mi inseguiva ripeteva che avevo fatto qualcosa che non dovevo e lo ripeteva in tante lingue diverse – alcune mai sentite. Ma che cosa avevo fatto? Sui lati della strada c’era qualche passante ma sembrava non badare né all’inseguitore né all’inseguito. Solo una donna di bassa statura mi aveva sorriso e un altro aveva applaudito e incitato. E di nuovo, questa volta saltando il tramonto, era scesa la notte. Il terreno era per lo più piatto e il percorso diritto. Una bella luna illuminava la scena. Dietro i bordi della strada salivano cani che giravano per i fatti loro. L’inseguitore sembrava più vicino e ripeteva la stessa litania da quando era iniziato l’inseguimento. Era strano, eppure non mi ero mai voltato a guardarlo. Dalla voce doveva avere circa quarant’anni.
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“Per adesso non ci puntano la pistola alla tempia e allora forse vale la pena vivere”. Pensavo guardando la monotonia del paesaggio rachitico. Ero dietro ai vetri della finestra. Come tutti i giorni, scostando uno straccio, guardavo il passaggio detto delle bestie: carovane con la soma stracarica di rifiuti, relitti, pezzi, frammenti lungo il crinale basso di un monte spoglio, carovane che sarebbero sparite allungandosi in un gioco di prospettiva assurdo, tutte ridotte a miniature sghembe, inghiottite dentro i chilometri scuri dei tunnel sotto il Parco dell’Acquasola, sperando di ricavare un buco nella terra per dormire. Sopra, la plastica dei giochi si era fusa e amalgamata alla ghiaia, la ghiaia al terreno. Sopra i platani rachitici volavano rapaci quasi bianchi. Le panchine erano sprofondate da anni. I busti dei poeti Bacigalupo e Piaggio sembravano esplosi dopo essersi gonfiati fino a un limite massimo. Sul selciato, la testa di Bacigalupo sembrava una gigantesca anguria di marmo spappolata, le guance di Piaggio erano sparpagliate in schegge fino ai cancelli del parco. I cancelli sprofondavano giorno per giorno. “Vale la pena vivere, sì. Questo grigio, quest’aria polverosa, la carovana delle bestie, i giochi disciolti in pozze colorate e rapprese, il grado di rachitismo dei platani, chi lo vedrà ancora?”
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Dopo quattro film e due libri, tutti iniziati e poi saltando da un fotogramma all’altro, da una pagina all’altra, ho chiuso gli occhi alzando una piccola montagna col cuscino e un lenzuolo per ripararmi dall’aria dei ventilatori. Durante il Covid avevo steso un mezzero come una vela fra il letto e la camera per non vedere più il brutto giallo degli armadi. Era azzurro-verde, lasciava filtrare una luce da chiesa e mi dava un senso di conforto, di riparo. Sulla parete di sinistra l’umidità aveva gonfiato figure: un guerriero, una medusa, un profilo e altre forme sul punto di sfarinarsi. Da un paio d’anni non esistono più, le ho raspate e ho dato lo stucco. La piccola finestra zigrinata inquadra la luna che da ieri cala. Quando scendo per andare in bagno la ritrovo riflessa da uno specchio lungo, rettangolare, appeso nell’antibagno. È molto luminosa nel cielo limpido. Da mesi non passano gabbiani. Al mattino presto sento i piccioni.
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“Ci pensi bene prima di staccare la testa al cane, ci pensi bene.” Era troppo tardi. Dopo un istante partì un sibilo. La testa staccata e inclinata contro un muro, continuò ancora ad abbaiare per pochi secondi. Il corpo non lo guardava nessuno, tutti fissavano la testa. Uno diceva: “Non pensavo che continuasse ad abbaiare… anche da morto è riuscito a essere fastidioso!” Il padrone guardava il guinzaglio e si passava una mano sulla bocca piena di saliva. Guardava l’estremità del guinzaglio a cui non era appeso niente. “Potrebbe tenerlo come trofeo, o come ricordo. Imbalsamata, la testa prende un aspetto sacro. Avrebbe una dignità che non ha mai avuto, un trofeo da mostrare agli amici invece di un cane stupido e molesto.” Cominciava a piovere. “Meglio così, disse uno spazzino, il sangue andrà via facilmente. E lei, vuole tenerla la testa o no? Se non vuole la tiriamo su e ci pensiamo noi.” Il padrone adesso sfregava tutto l’avambraccio sulla bocca e la manica era inzuppata di saliva. Non diceva niente, fissava con ottusità il guinzaglio a cui non era attaccato nessun collo. A un certo punto disse: “Lo avevo anche pagato parecchio, guinzaglio e collare e cane. Ora che ne faccio? Non posso sostenere le spese di imbalsamazione. Farò una foto alla testa, in effetti adesso merita, ha qualcosa di importante. E poi non capita tutti i giorni. Si rivolse allo spazzino e gli disse: “Mi dia il tempo di fotografarlo, poi lo porti pure via. Ah! se vuole faccio uno scatto anche a lei col trofeo.” Pioveva più forte, il sangue era già lavato, lo spazzino faceva il suo dovere, quelli che si erano fermati imprecavano contro il maltempo e il padrone scattava raffiche di foto.
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“Da un punto qualsiasi, può iniziare da un punto qualsiasi. Se crede possiamo anche stare in silenzio.” Sul tavolino c’era un libro, e il tavolino era polveroso. Un odore di ammoniaca penetrava nella stanza le cui pareti erano rivestite da una squallida tappezzeria. La poltrona era comoda. La luce soffusa proveniva da una finestra alta coperta da tende bianche. Il pavimento era di graniglia. Da un punto qualsiasi, aveva detto. Ma se poi i punti si accavallano? E diventano un nodo? Ciascun punto sembra più importante e pretenzioso dell’altro e non cede il passo. Le due uova deposte da un piccione sul mio davanzale hanno la precedenza sulla revoca di un amministratore? Oggi ho imboccato una strada sbagliata e mi sono vergognato, precede o segue, ieri ho appeso un quadro, un dipinto a olio che raffigura un bosco intricato? “L’odore di ammoniaca da dove proviene?” chiesi di colpo. Sembrò sorpreso, si lisciò i radi baffetti, sporse le labbra ma non disse nulla. Sorrideva. Aveva accavallato le gambe. Mi fissava. Dall’esterno arrivava il rumore del traffico e voci mischiate al rumore del traffico. Nessun suono distinto. Nessun piano, nessuna prospettiva sonora. Il punto importante, per adesso, era l’odore di ammoniaca. Dopo, avrei chiesto che cosa ne pensava della tappezzeria. Si comincia da un punto qualsiasi e non si sa dove si arriva. Il libro sul tavolo m’incuriosiva ma la polvere mi sembrava più interessante. Era qualcosa che si legava alla mia vita, alle strade che percorrevo tutti i giorni, a certi sogni. “La polvere…” dissi con un filo di voce. “Forse si può iniziare dalla polvere… e poi dalle scarpe, le mie. Vede? Sono coperte di polvere. Sono belle scarpe coperte di polvere.”
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Né sogno, né allucinazione e neppure immaginare. La parete ricorda altre pareti e già c’è un cambio di passo, un inciampo e poi un’improvvisa accelerazione. L’erba è quella alta, o meglio, erano felci ondulate e schiacciate dal passaggio dei cinghiali. E qui entra sulla scena un terreno recintato, oscuro che spariva dentro il bosco. Era vasto e incolto, senza costruzioni evidenti. C’è uno slittamento di una parete e dietro un cane che abbaia e corre dentro la proprietà. Il paesaggio è dominato da un odore forte di fieno appena tagliato. Le more sono secche, avvizzite. Le stagioni non coincidono, forse nella fretta di ricordare e di scrivere l’autunno è arrivato in anticipo, forse quel tornante pieno di polvere e fango era già asfaltato. Quando, pochi chilometri più avanti, crollò la strada, il paese restò inaccessibile dal lato nord. Una voragine di venti metri, nessuna vittima. Mi chiede di essere più preciso, soprattutto nei nomi. Non è facile. La chiesa non era crollata. Per trovare l’acqua, in piena estate, seguivamo le cantabrune. Di notte accendevamo un grande fuoco sulla piazza. Una notte due si presero a pugni. Sì, ma dove accadeva? Si ricorda? Ho bisogno di tracciare una mappa e poi di collocare lei all’interno e seguirla nei suoi spostamenti. Capisco… ma non è facile. C’era un muretto dove scambiavamo i fumetti. Forse si può già abbozzare una mappa. Abbiamo un cane, le felci, una strada crollata, le more secche, i fumetti… e un lato: il nord. E c’è la piazza col grande fuoco. Quando si sposta un’altra parete vedo i cervi volanti librarsi alti sulle fiamme, quasi divinità. Li ammiravamo ma alcuni fra i più crudeli li abbattevano a bastonate. Il piccolo cimitero era di terra battuta, ai margini del bosco, poco fuori del paese. Accanto c’era un fienile. Il cognome più diffuso, fra i morti, non lo ricordo. La casa aveva tre piani. Al secondo c’era il forno. Sulle mensole alcuni vasi di vetro erano pieni di cicche. C’erano due o tre vecchie automobili e una cancellata. Un noce. Lei vuole davvero i nomi e vuole davvero disegnare una mappa dove mettermi dentro per seguire i miei spostamenti? Sì, la prego, faccia uno sforzo per ricordare, è importante. Quando è sceso il buio eravamo in due, con le biciclette, ormai parecchio lontani dal paese. Eravamo sfiniti. All’andata era tutta discesa. Ecco, adesso ha un vettore, anzi due, e anche il mezzo. Ed è un ritorno. Eravamo inzuppati di sudore. Perché nella sua cartina non mette l’altro? Più o meno avevamo la stessa età, andavamo negli stessi posti.
*
Fra uno che sputa a lunga gittata, catarro denso, ben preparato da colpi di tosse sibilanti, e un suonatore di bongos amplificati, e una donna alta, dal trucco pesante che accenna goffamente una figura di tango, attraversare i pochi metri di Piazza Banchi è un’impresa. Ci sono anche i turisti, una ventina, forse selezionati in base a forma e peso. Sembrano grandi uova, camminano oscillando le braccia, tengono le mani a paletta. Hanno i capelli rasati alle tempie, indossano tute, i polpacci esibiscono tatuaggi. L’ora è calda-umida. Uno, sciancato, trascina al guinzaglio due cani. I piccioni lottano per un pezzo di focaccia. Innumerevoli le rimostranze urlate e gesticolate al cellulare. Una donna puzza di borotalco. Sospetto che una nube così densa abbia lo scopo di coprire. Allora, come stai? dice uno. L’altro: dietro quell’angolo ho visto tre grandi cassette di plastica, raccordate a tubi, gli sportelli aperti, i cavi penzolanti. Da un muro si staccano calcinacci, la puzza di piscio è insopportabile. Vedi i gradini che scendono verso Sottoripa? La fossa, sì. Sono arrivati i coloni, hanno conquistato tre ristoranti. Stupisce la verticalità pericolosa dell’accesso. Sui gradini di fronte le sentinelle battono le mani. Dunque, non va male. Mi sembra che inizieranno a pulire la statua. Quel profilo aquilino, nobile, tornerà di bronzo mentre adesso è bianco di sterco di gabbiani. In questa piazza serve un simbolo d’integrità, moralmente e in effigie, non si può accettare una statua ricoperta di sterco. Cosa penseranno le altre etnie? Detto questo si allontana ruttando. Mi volto verso i miei piedi. Mi accorgo che considerano la direzione e l’andatura. Sento che riflettono. Sento che sono in conflitto. Quale direzione? Perché? Da quella parte la luce è opaca. Dall’altra le grandi vetrine di un negozio in affitto sono sporche. Sui lati, in alto, facce di scimmia. Il selciato è concavo, si slitta verso i bordi.
*
Stanotte, di colpo, ho deciso di svuotare il cestino della carta. Se ne è andato almeno un mese di carte e appunti, perlopiù inutili e già vecchi. Ho cestinato prove, abbozzi, ricevute, scontrini lunghi come un cartiglio. Qualche filo, una mascherina – non è tutta carta. Ma è tutta compressa a palla. E se la svolgessi? Solo per sentire il rumore, quel crepitio da incendio di rami secchi. Sono appunti incagliati in un delta asciutto, la sabbia è indurita, le piogge non scendono. La siccità screpola l’inchiostro. L’acqua sparisce dalla superficie e affonda sotto metri di terra. Ci vorrebbero pozzi. La carta gorgoglia.
*
La carta, gli anni, il cestino… la memoria…, un tempo sincopato… siamo zoppi, abbiamo ricordi pieni di ostacoli, e li abbiamo chiusi dentro una sfera, li abbiamo accartocciati. Vogliamo svolgere l’involucro? Ma ne varrebbe la pena? Per il rumore della carta, sì. Ha un crepitio unico, sembra sbocciare, con fracasso, un fiore violento, aguzzo. Il contenuto, spesso, è una delusione, ma è il suo senso a deludere, e noi deludiamo noi stessi perché non sappiano più sfigurare. Ma il grigio pieno di pieghe, gli angoli schiacciati, la carta che è diventata sfera sfrangiata, quanto ci assomigliano! Sono questi gli anni? Il cestino è di metallo, a griglie. Il suo cilindro ha un bell’effetto tridimensionale. Carta bianca e un foglio azzurro, ben compressi come le automobili dallo sfascia carrozze. Se non viene svuotato e rimesso in agitazione è solo un oggetto: bisogna ridargli la parola grigia, il tempo dell’abbandono e dello scarto. L’inizio di qualcosa che fermenti ancora una volta.
*
Bene. Siamo arrivati in Piazza De Ferrari. Scrosciano le fontanelle. Una volta, intorno al vascone, era un vortice di traffico. Via San Lorenzo non era pedonale, tutto l’opposto. Ora è pedonale, ciclabile, vi transitano i mezzi della nettezza, le auto della polizia, della finanza, dei vigili, il trenino dei turisti, il risciò per i turisti, e di mattina tutti i mezzi per carico e scarico merci. Le piste ciclabili sono strisce di vernice rossa. Ci sono frecce gialle di cui non si capisce la funzione. È una strada importante. L’arredo urbano è bello quanto funzionale: cubi da pic-nic, da appoggio. Qualcuno si accovaccia, tiene le caviglie strette intorno alle mani, sembra teso per un salto, un agguato. “Scusi posso chiederle una gentilezza?” Sì, dipende dalla gentilezza. “Mio figlio ha perso una scarpa, è rossa, di stoffa, una scarpa fuori stagione. Vede? È quel bambino laggiù, col calzino bianco un po’ sporco, quello seduto sul cubo. Dondola il piede senza scarpa e canta a bassa voce, un mormorio, sembra una preghiera. Forse prega per la scarpa. Intanto, vede, sfrega con la mano l’altra come se quel gesto richiamasse la scarpa persa. Ora agita una stringa. Ci ha visti! Guardi, saluta con la stringa.”
*
È come un rumore di risacca che trasporta ciottoli ma è formato da voci. È continuo, ha un fragore sommesso che si alza al clamore. Di quando in quando un battito di mani, un coro, un urlo. Giocano? C’è una lite? Fanno giocare un cane, forse. O un bambino. Ma i suoni sono gutturali, sconnessi. Il tono è di qualcuno che si lamenta. Il tono elettronico di un vivavoce aggiunge uno stridore metallico. Sul fondo di Vico Morandi una pila alta un paio di metri: sono scatole di cartone. I negozi hanno chiuso da un paio d’ore. Dietro la lunga tendina ricamata e bianca di Via dei Conservatori una figura grassa, rosea. La serata è limpida, l’aria fresca.
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Dietro la parete a est un rumore di stoffa strappata. In certi punti i muri sono così sottili che si sente anche un fruscio. Capita anche di sentire sangue prima che la ferita si apra, un pianto prima che qualcuno singhiozzi. La pelle è sbucciata, le nocche fanno male. Nessuna microfrattura. I colpi si sentivano. Ma in che giorno? Ieri? Uno aveva alzato la voce, poi una risposta. Poi una risata. Allora era tutto finito? Poi la televisione. Un gran fracasso. Insulti. Mi sono allontanato. Dietro la parete di fronte il verso dei piccioni, gutturale. Ogni tanto un ronzio, una macchina attivata. I trolley enormi, neri, passano in Via dei Macelli di Soziglia come feretri, piccole case tristi. La mobilità dei morti su rotelle, con gli oggetti d’obbligo per il passaggio, la perquisizione, i rilevamenti. “Può andare, lei è in regola. Più avanti esali.” Così si passa nei vicoli, da una soglia all’altra: esibendo le credenziali del morto o mezzo morto, è più facile varcare. Ci sono fumi dietro quella svolta, sono profumati. L’arredo floreale e ortofrutticolo, le palme secche come benvenuto, crepitano. Poi esplode un canto collettivo, condominiale. Applausi, tutti alle finestre, ai terrazzi. Solidarietà. Bravo. Un bravo dopo l’altro. La preghiera è offerta dalla Ditta Stantuffo & C. specializzata in orazioni e cancelli, aperture e chiusure, catene, reticolati, filo spinato, ordini. Seguite le luminarie, i consigli natalizi per tutto l’anno: guarda, torna, annusa, cerca. Fumo.
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“Lei ha accumulato quella polvere? I suoi sogni di che cosa l’avevano avvertita? Della fatica e della dedizione. Della direzione del vento. Li ha ascoltati? Il mucchio è compatto ma lo deve proteggere, non resisterebbe alla tramontana e neppure a una serie di calci. Perché prendere a calci un’offerta? Forse sembra un mucchio di polvere qualsiasi. Non ci sono nomi, non ci sono scritte. Edificato in quell’angolo anonimo, senza una luce particolare, resta inosservato. Facile sbatterci dentro senza volerlo. Magari s’inginocchi. Almeno quando passano gli spazzini faccia capire che è importante, una raccolta di resti, per esempio, oppure un segnale. Non dia spiegazioni esatte – del resto non le conosce neppure lei. S’inginocchi.”
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Dopo giorni senz’acqua, il vascone di Piazza de Ferrari, zampilla e risciacqua. Le sue bocche spalancate sono piene di liquido, quei mascheroni smascellati, spalancati, sparano acqua a cascata. Intorno, su tutto il perimetro di muretti, la gente siede, mangia, telefona, filma, scatta foto, lecca il gelato, si fotografa mentre filma, mangia, scatta foto, lecca il gelato. Gli schizzi d’acqua deviano a seconda del vento. Un uomo appoggiato a un bastone, un uomo pelato, vestito con una giacca di panno, siede e considera. “Le lettere rosse sembrano bistecche di plastica. Mancano dei pezzi. Come caratteri amputati.” Un velo di schiuma. Dietro qualcosa si muove.
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L’uomo appoggiato al bastone considera. “Cerco di rallentare ma è difficile quando tutti corrono spingendo chiunque dentro il loro cerchio. Una sarabanda, una ventilazione forzata, una corsa della polvere. Come non rimetterci gli occhi? Mi appoggio al mio bastone come fosse una boa. Gli spruzzi d’acqua sono più forti, ho la giacca bagnata. Ieri l’aria aveva il colore del cuoio, verso il crepuscolo. Com’era possibile? Ho la pupilla irritata. Il mio bastone lo sento più curvo e più debole. Quel gruppo si avvicina correndo, sembra che non guardino davanti, sembra che siano azionati senza possibilità di arresto, rallentamento o sterzata. Adesso l’aria è piena di gocce.”
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In libreria:
– Quando arriva?
– La prossima settimana, stia tranquillo.
– Non ho molto tempo.
– Solo cinque giorni, stia tranquillo, appena arriva le telefono.
– Non è per quello… ho 91 anni…
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La diffidenza verso le cose aumenta. Quello spigolo ben saldo da anni è impossibile che si muova, eppure sarà meglio che giri al largo e lo tenga d’occhio. Potrei anche misurarlo, non sarebbe eccessivo. Le tazze in quella vetrina sembrano molto più profonde di ieri, più larghe. Non sono le stesse forse, sono simili, l’esposizione è cambiata. Potrei entrare e chiedere, non sarebbe eccessivo.
Mentre cammino penso che sono tutte sciocchezze, e sorrido di me stesso. Il vento che s’imbuca in Salita allo Arcivescovato è tiepido e molto gradevole. Più avanti svolto in Vico Indoratori, quasi vuoto, a parte un decrepito barboncino bianco seduto a metà del vico, gli occhi raggrinziti e umidi. Tocco le tasche e sento la forma delle chiavi e di altri oggetti che al tatto non riconosco. Di solito, nelle tasche, ho sempre le stesse cose. C’è un oggetto che sembra appuntito a un’estremità. Continuo a camminare e guardo le tasche. Spunta un foglietto: sembra innocuo. Tuttavia lo tiro fuori, mi fermo e lo esamino. Uno scontrino. Addossati a un muro due parlottano, forse uno mi indica con un cenno della testa. Data l’ora e la stagione, in un punto di Via dei Conservatori del Mare c’è quasi buio e i lampioni non sono ancora accesi. Il pupazzo di un bambino strilla. Le volte affrescate di San Pietro in Banchi mi riconfortano. I colori mi riconfortano. Fra le sbarre di un tombino frammenti di vetro dall’aspetto tagliente.
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Bisognerà fare i conti con le parole, la sintassi, gli spostamenti improvvisi. Della memoria, dell’invenzione sulla memoria, della fotografia, della percezione. Gli occhi arrossati vedono in un certo modo. Sono fessure e le cose si stringono. La prospettiva, se il sistema nervoso è alterato, vedrà una strada come piegata dal vento, i tetti toccare terra, le dita perdere le unghie finte, gli occhi perdere le ciglia finte, la pelle tatuata staccarsi… tanti brandelli arrotolati sul selciato. Pergamene. Cartigli. Le distanze mentiranno. Con un passo, uno solo, da Piazza Raibetta si arriverà a Piazza San Lorenzo. Tutti i metri lasciati indietro si potranno mettere da parte nei periodi di carestia o mancanza di spazio. Questo scorcio resiste come un cartone dipinto inzuppato d’acqua. S’inclina e cede. È calpestato. Non sarà utile neppure come branda. All’aperto stanotte si vedono miriadi di stelle, sembrano chiodi bianchi. La panchina circolare è già occupata. I cefali sono squali in miniatura. Bisogna fare i conti con l’illuminazione, i riflessi, il dorso dei cefali, qualche rumore oltre la diga, il rombo costante del porto e della sopraelevata, la stanchezza… la stanchezza percepisce in che modo? Grandi quantità irremovibili? Troppi metri? Un lato moltiplicato per cento? Un cefalo salta.
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Quado un cefalo salta, quasi al buio, si percepisce un allungamento rapido color piombo fuori dall’acqua torbida. Si registra il fatto, lo si mette da parte e intorno si osservano decine di corpi simili. Appoggiati alla ringhiera si teme ciò che non si vede, dietro e più a fondo. Più a fondo meglio non indagare. Dietro sono fruscii, chiacchiere, suonerie. Il tono è concitato. Sotto Palazzo San Giorgio sono schierate una ventina di auto delle forze dell’ordine: carrozzeria smaltata, rilucente. Scendono personaggi in divisa come medaglieri ambulanti. Un altoparlante gracchia qualcosa. Luccica qualche sciabola, oscillano le nappe delle mostrine. Un vuoto incomprensibile prende campo, da tutti i lati.
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Le lampade, le prime che mi vengono in mente, hanno la luce gialla e il vetro sporco, quasi non fanno luce, solo attraverso le macchie pulite filtra qualcosa che si riverbera sul soffitto a volta. Poi ricordo il buio con bagliori rapidi a intervalli regolari e avevo le caviglie umide, la gola stretta da un’aria acre. Un bagliore aveva illuminato una porta. “L’ultima sala pornografica è stata chiusa, l’ingresso murato. Siamo in Via Chiabrera. Quando arriverà in fondo sentirà abbaiare, è il mio cane. Non abbia paura, non fa del male a nessuno. E io neppure. Quel lampione è davvero squallido, chissà da quanti anni non lo puliscono. Quel ruscello scuro è formato dalla condensa di alcuni condizionatori… sono diventati architetture come le antenne, le parabole. No, non sono belli. Uno ha coperto un capitello. Opprimono. Come le dicevo, l’ultima sala ha chiuso. Ora chiamerò il mio cane. Non si spaventi. Come le dicevo non fa del male a nessuno… vedrà… e hanno murato la porta, come le dicevo.”
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“Al civico ** un cartiglio medievale illeggibile. Le cose che contano sono illeggibili. O leggibili per poco. Val la pena scrivere sull’acqua e proteggere con la carta velina le parti più deboli, poi farne un cono da lampada. Filtra una luce calda. L’ambiente accoglie. Gli occhi si chiudono. Nessuna cosa ha un privilegio, si è distesa con le altre. Il sonno avrà un tono uniforme, ambrato.”
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I giardinetti scoscesi di Via Brignole De Ferrari sembrano spellati e polverosi. In Via Garibaldi, poco più avanti o poco più indietro, abbozzo un saluto e due parole. Ma quasi subito: “scusami, devo telefonare.” Salgo un po’ più avanti ma non molto, lungo una stradina mattonata; sul muro è dipinta una siringa lunga due metri con schizzo di sangue, alla base di un palo una ciotola per gatti e uno specchietto retrovisore di un’auto. Quando sbuco in Via *** un uomo altissimo con i piedi enormi, divaricati verso l’esterno, avanza come un pinguino gigante. Cambio marciapiede, guardo la frutta e i prezzi. Mi dicono che domani il temporale si auto genera, produce acqua in proprio. Sarà un fenomeno unico. Un altro dice che ha un conflitto politico per le imminenti elezioni. Lo si vede dalla faccia abbronzata e rilassata, dai mocassini a 300 euro, appena lucidati. Svolto in Passo della Lodola. Svolto da qualche parte.
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Da qualche parte vorranno ben darmi indicazioni, penso. Perché anche fra le strade già percorse ci si può smarrire. A volte si è molto distratti. Quel nespolo, le cui foglie al bordo cominciano a ingiallire, l’ho già visto carico di frutti beccati dai pappagalli. Ma la strada sottostante non la riconosco, né il palazzo. Una doppia scalinata di marmo si biforca, il marciapiede in quel punto è spaccato. Devo voltarmi e cercare molto in basso. In basso ricordo segni, erbacce, e una strada molto stretta che sbucava in una piazza. C’è troppa oscurità. Le saracinesche chiuse si susseguono, i cornicioni dei palazzi altissimi si toccano. “Non le sembrano corridoi interminabili, illuminati male? In fondo c’è sempre un chiarore, una fessura, ma più si avanza e più la luce arretra e si restringe. Forse è meglio guardare in alto oppure ascoltare.” Se ascolto sento un rumore di fondo senza variazioni, almeno in questo punto. Allora prendo una strada a caso.
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Ho riconosciuto la chiesa gialla, il mercato e anche la piazza. Ma i nomi non li ricordo. Appena ne ho uno sulla punta della lingua ecco che si sfarina, si scioglie. Ricordo certe lettere; ma non formano neppure una parte del nome. So che dietro il mercato c’è la piazza. Dalla piazza sale una strada e accanto una più stretta; ci sono molti contrafforti e un’edicola. Nessun odore particolare. Una curva sembra avvolgersi su sé stessa, ma dipende dal punto di vista. Almeno sono dieci i contenitori della spazzatura. Di fronte c’è la fermata dell’autobus. Molti cani senza guinzaglio, forse senza padrone, risalgono i viottoli.
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Perché in questo groviglio urbano non c’è una sola linea retta che misuri più di dieci centimetri; superato il decimale abbiamo ondulazioni, storture.
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Questa casa, dove sono successe tante cose, ha qualcosa di sfinito. Lo potete leggere sui muri rigonfi e sfarinati, sul pavimento che non è mai stato in piano, soprattutto sull’imposta sbilenca e scheggiata che resiste alla pioggia, al vento, al sole, e come sia possibile che non crolli, dopo vent’anni… Lo sfinimento si respira. Dal soffitto di cartongesso colano gocce, scivolano inclinate. Qualche piastrella è bagnata. Non è per il ciclo stagionale che le foglie si staccano. Molte non ne vorrebbero sapere di abbandonare i rami e cadere. Non cederebbero così facilmente una vita alta, illuminata, per finire a terra e poi essere prese a calci o calpestate. Sono leggende scientifiche. Non riguardano tutte le foglie, né tutti gli alberi spogliati, esposti. La casa si è sfinita con la vita di chi ci ha vissuto, col via vai temporaneo o prolungato – non molto prolungato perché i sabotatori odiano la continuità, staccano le foglie e le prendono a calci, le disseccano. I sabotatori hanno nozioni, solo nozioni, e se ne riempiono le tasche. Producono stanchezza negli altri mentre sorridono. Invitano alla fine prima che fine sia. E non è detto che sia. Amano sfinire cose e persone. Stanno dietro e poi dentro. Usano succhielli a rotazione. Qui, in questa casa sfinita, sono passati corpi, hanno lasciato un’immagine in diminuendo, uno stampo sbiadito, una superficie conserva una specie di bruciatura. La casa sfinita si è creduta forte. Capace. Dotata di accoglienza. Alla base della scala oggi c’è acqua.
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Alla campana chiassosa e alla chiamata oppone uno stato simile al sonno. Alle facce, che avvolgerebbe nelle pagine di un libro, chiede l’oblio, almeno un mezzo colpo di spugna. Facce come gesso spostate dall’aria. Le vostre fattezze presuntuose volano via. Ma tentate un ultimo attacco in forma di polvere, un attacco alla gola. Allora oppone un cenno della mano. Il giovane gabbiano reale incede maestoso anche bagnato di pioggia. Sembra mirare col becco il torace di uno che urla nel telefono e si dimena. Ora sta bevendo nelle tante pozze dopo il temporale. Inciamperanno. Cadranno dentro le pozze. Sono tutti molto agitati…
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Lo scopo, dopo tanti anni, è uno solo: tendere fili di nylon in tutte le scale, nei punti dove si corre, negli accessi in discesa. Ben tesi. Il primo abbatterà il secondo. Qualcuno arriverà di corsa… Sembrerà una farsa. Ci sarà qualche applauso.
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Perché se ha visto decine e decine di banchetti, decine di camion della polizia, cantanti e percussioni, mostre di auto, schermi giganti, una specie di uomo barbuto col petto concavo come risucchiato, seduto sul limite della fossa, in piazza Caricamento, davanti ai monconi di colonne bianche e nere, il mento sopra un cartoccio di fritto, e due dissuasori ben piantati sulle gambe, lo stivale di Rubattino sul bordo, e basterebbe una piccola spinta… Sono solo poche ore della solita folla.
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Andate verso il porto, andate dove ci sono le ultime ringhiere e guardate le città galleggianti, l’affascinante minio delle pilotine.
Verso il basso, sotto il pelo dell’acqua, branchi di cefali. Se il sole è radente la schiena dei cefali si illumina col riflesso del piombo argentato. Un boato. I container sono colorati. Una pilotina nera attraversa le acque del porto. Bella scia di schiuma, coda di bianco dietro al nero.
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Alle 22.18, in Via dei Macelli di Soziglia, passa un carretto. Non lo vedo ma sento il rumore e le voci di chi lo spinge o traina, affannate, di sicuro più di una, maschili. Procedono lentissimi con improvvise accelerazioni di pochi secondi che coincidono col rumore più forte. Potrei affacciarmi e guardare. Ma la curiosità non va oltre l’ascolto. Se mi affacciassi sarebbe come violare un segreto oppure, semplicemente, una delusione. Allora ascolto. Sembra che una parte del carretto sia molto inclinata perché il veicolo produce un rumore di pedana strisciata contro il selciato. Deve avere anche una lanterna, perché dal basso vedo oscillare sui muri ombre. Ombre deboli, trasparenti. Adesso il rumore è un fruscio senza interruzioni, regolare nel tempo. Traccio una linea e una distanza, immagino la struttura, il materiale e il carico. Lo sforzo che posso determinare dalla lentezza con cui si allontana può ingannarmi: potrebbe aver sostato, rallentato per necessità. Potevo essermi distratto. A volte il rumore è soffocato. Non sento più le voci.
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Una specie di trillo meccanico si ripete a ogni fine e sparisce a ogni inizio dell’estate. Quale sia l’oggetto che lo produce e il suono originale non posso saperlo. Dura qualche minuto. Le diverse porosità dei muri, i livelli, la presenza di materiale fonoassorbente (tendaggi, divani, cuscini etc.) alterano il suono d’origine. Immagino una grande campana larga e bassa. Probabilmente è solo un banale autoclave. All’interno dei muri, quando passa, un rumore si snatura sempre. Diventa indecifrabile. La costante è il fastidio, più o meno accentuato. Il trillo misterioso in sé non è potente ma suggerisce immagini poco liete: scantinati, umidità, cunicoli. Il vero aspetto inquietante è la sua ripetizione stagionale: in 14 anni non ne ha saltato uno. Ineluttabile. Senza orario.
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Circa 14 anni fa, in Via dei Macelli di Soziglia, dominava la prostituzione nigeriana. Erano puttane coloratissime e chiassose. Litigavano spesso. Un giorno, durante una baruffa, sono finite in un negozio di scarpe. Erano tutte alte e robuste. Dentro il negozio hanno continuato a litigare mettendolo a soqquadro. Era un turbine di corpi bellissimi e di colori che faceva irruzione in un negozio squallido pieno di immaginette da catechismo. Alla fine, dopo l’intervento della polizia, erano sedute in fila su una panchina con l’aria contrita, da catecumene colte sul fatto. Pochi mesi dopo sono sparite. Non mancano a nessuno, s’intende.
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All’inizio degli anni ’90 un giro di prostitute ruotava intorno a una sigaraia e a suo marito coi polmoni allo stadio terminale. Alla fine di Sottoripa, chiusi i negozi, preparavano i banchetti con sigarette e preservativi. Sul marciapiede di Via Gramsci, anche dopo l’alba, c’era un gran via vai. Fra i rumori, la spaventosa tosse del magnaccia-sigaraio, bucava. Faceva quasi star male. Fra le voci, certe lamentele prolungate di clienti insoddisfatti.
Non esisteva l’Expo, ma iniziavano i lavori; non esisteva la metropolitana. Quel crocicchio era animatissimo anche nei pomeriggi autunnali. Un falò dentro un bidone piazzato sul marciapiede dove qualcuno arrostiva castagne. Colonne di fumo in pieno pomeriggio, dietro alle finestre della sala, fra i vapori del traffico e lo scarico dei fumaioli degli autobus. Della sala non ho mai capito le vere dimensioni per i giochi ottici degli affreschi e la spezzatura o rientranza di un lato del palazzo, visibile all’esterno, invisibile all’interno. Da qui congetture e misurazioni. Qualcuno sosteneva fosse un trucco ottico di puro stampo barocco e aveva tracciato dei segni in certi punti per avere riferimenti. Dopo qualche mese i segni erano lievemente spostati. Lui sosteneva per un rigonfiamento del parquet o un assestamento di tutto il palazzo: per la ricostruzione del porto sparavano mine. A me, in fondo, non importava granché. Ricordo, stagliate all’orizzonte, le gru, gli scavatori, tutte le macchine che mettevano sottosopra il porto. Lavoravano anche di notte. Il paesaggio urbano sembrava proiettato nel futuro, immaginato. Ma il rumore di un percussore non era per niente immaginato: di notte spaccava i timpani. Per dormire si usavano i tappi. Via al Ponte Calvi, Palazzo delle Maschere. Non ricordo il civico. Ricordo un pestaggio in pieno giorno, un corpo per terra che prendeva calci a ripetizione. Alla fine del pestaggio pensavo fosse morto, era rannicchiato, immobile. Di colpo, quasi con un salto, era in piedi e un attimo dopo correva veloce lungo Via Gramsci.
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26-9-2022, ore 18.12. Brevissima e lieve scossa di terremoto.
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Forse per un bicchiere di più, forse perché il giorno finisce, le ombre diventano appuntite, reclamano. Si distendono in cerchio. Prima di scomparire per sempre, chiedono due righe. “Perché vogliono esserci ancora? A che scopo?” Comunque due righe non si negano a nessuno, per quanto non sia uno spasso raccogliere resti, soprattutto i propri. Bucce e carta unta. Portoni sbattuti. Ancora l’eco, ormai del primo pomeriggio, di un colpo d’ala contro un’ala per la contesa del cibo. E le sillabe francesi che non coincidono mai. In cerchio per impedire la fuga. Dovrei ringraziare? Se ho fatto male il compito ho fatto quello che sapevo fare. Alla fine di una giornata anche due righe dovrebbero scriversi da sole. Si tratta di trascrivere. Dov’è la fatica?
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“Perché si ostina a colpire proprio quella porta? Sta sbagliando. Così non entrerà mai. Il palazzo deve aggirarlo. Il palazzo è enorme, copre una superficie di grandezza insospettata. Lei si accanisce contro quello che scambia per l’ingresso principale. Ne ha tutta l’aria, in effetti. In realtà è solo uno degli ingressi, e quello principale lo è per alcuni e non per altri. Sono tutti ingressi principali. Li riconoscono gli abitanti del palazzo. Ma quelli che vivono da un lato non conoscono gli altri. O meglio, li vedono, ma li scambiano per soglie qualsiasi, accessi a scantinati, a locali inaccessibili. Sopra ogni ingresso c’è una decorazione, un emblema. E una scritta. Anche statue, perlopiù a frammenti: torsi, braccia, gole spaccate dove sono cresciute erbacce. Per esempio è interessante osservare certe prospettive: guardi quel lato che sembra deviare in Via dei Giustiniani. Invece inganna, inganna quasi tutti, da secoli, è stata costruita per fingere una profondità che è altrove, a scopo difensivo, per disorientare il nemico. Qui tutto è militare a scopo difensivo e poi, s’intende, offensivo. Guardi quella serie di buchi. Non è casuale, è per far male, ustionare, uccidere. Come le dicevo… deve aggirare ma non è facile. Rasenti i muri, finga di guardare le vetrine o di ammirare quella coppia di levrieri che proprio adesso scende da Via Canneto il Lungo, una coppia magnifica, scarna fino a contarne le costole, andatura fiera come quella del padrone. Capisce? Qui s’impone una strategia calcolata al millimetro per uscire e per entrare, parole che in pochi conoscono, perché questi pochi hanno disegnato e ridisegnato il palazzo dove lei vorrebbe entrare. E i suoi dintorni, con grandi vetrine, con grandi luci, sono fatti per distrarre dal vuoto che espongono, una miseria costosa, oggetti di cattivo gusto. Tenda una corda mentre rasenta i muri, meglio un filo di nylon… sì… una lenza. Le servirà come bussola e come arma. Con un filo di nylon si possono fare tante cose… All’altro capo del palazzo vedrà un negozio storico: due vetrine appartengono a un altro palazzo. Se lo raggiunge, e non è detto, entri e chieda. Ma non chieda dov’è l’ingresso principale, domandi il prezzo delle magnifiche specialità, lasci intendere, aggiri. Ricordi l’uso del filo: orientamento e arma. Lo tenda bene, lo impugni saldamente.
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I piccioni becchettano sul davanzale, litigano per le briciole. Forse è meglio essere dimenticati una volta per tutte invece di arrancare sventolando una pezza sdrucita. Fatti certi tentativi, dopo mesi, dopo anni, perché saltare fuori all’improvviso come spinti da una molla? Perché rosicchiare? La disputa muove male i suoi argomenti, stride. L’enorme portone ottocentesco è socchiuso. Si scorgono colonne e colonne. Un enorme lampadario in ferro, una specie di cupola e in cima un lucernario. Un giro di gradini vertiginoso. Questi androni deserti fanno un rumore cupo e odorano di acqua marcia. Siamo in Via San Lorenzo.
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Finge di fare quel percorso per la prima volta, di salire quei gradini che s’innestano in Via di Porta Soprana. Sotto un muro c’è un posteggio per le moto. Sul muro crescono muffe, piccole piante grasse, trifogli, licheni. Una linea interminabile di tognolini fiancheggia Via ***. Il malessere inizia superata la porta in entrambi i sensi. In cima a Salita del Prione affretta l’andatura per sfuggire al malessere. Non si guarda intorno ma sente. Una macchia scura di vegetazione pesa tutta da un lato, sbilancia. Il grande schermo ordina. “Perché è tornato qui? Aveva dei fantasmi appesi alla cintura, straccetti che sbatacchiavano, e pensava di levarseli di torno? Non fanno più nessun tipo di compagnia, sono consunti e ostinati. E pretendono riguardi assurdi. Pensava di riportarli dove si erano agganciati, qualcuno alla pelle? Voleva posarli davanti a una porta, alcuni. Altri, stenderli su una grata di sfiato e poi allontanarsi in fretta.” Guarda la cupola della Chiesa del Gesù, si appoggia a una ringhiera, guarda in basso.
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Perché è sicuro: quegli straccetti, mentre si distraeva, glieli hanno appioppati. E adesso liberarsene è più complicato del previsto. Appesi alla cintura, irrequieti, molto irrequieti, probabilmente sentono che saranno abbandonati. Schiamazzano addirittura, gli intrusi. Non capiscono che il tempo dei clandestini, dei fasulli è finito. Recitano. Come all’inizio. Sono una manciata. Se ne deve liberare. Quando è successo? Quando si è fatalmente distratto? Ricorda una specie di mago dal viso fuligginoso, un cialtrone, e un appartamento squallido. Il guaio degli straccetti è che hanno cominciato anche a puzzare. Così, appoggiato alla ringhiera, mentre guarda in basso, mentre non guarda niente, il malessere aumenta. La macchia di vegetazione diventa più scura, i baristi vanno e vengono.
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I baristi si muovono agilmente davanti alla statua di Elvis Presley. Un passante fissa i titoli dei giornali e poi sputa. Oggi il clima è cambiato tante volte e c’è stata pioggia per una mezz’ora. In alcune persone si percepisce un tremolio interno che scuote lievemente le dita e la testa; la testa oscilla e nega. “Vorrei suggerirvi di guardare i capitelli del chiostro prima che il cancro del marmo se li mangi. Sono un bellissimo esempio di uno stile che ho dimenticato, provengono da un monastero di cui non ricordo più il nome. Ma sono pregevolissimi. Mi scuserete, a volte la memoria tende dei tranelli: gli strati sono troppi, i secoli anche, i manufatti, gli spostamenti, le demolizioni, le distrazioni… La guida non è infallibile, sbaglia, può essere angosciata, molto stanca. Quello lassù era un camminamento: sentinelle, posti di guardia. Via Ravecca è una delle vie più antiche della città di C. Quella è una sciamadda, significa fiammata, tipico locale della città di C.” Sotto l’arco di Porta Soprana c’è un gruppetto vestito di blu, scarpe nere, cravatta. Si avvia agli uffici della Regione. Si blocca davanti a un cane senza guinzaglio dall’aspetto poco rassicurante seduto in mezzo alla strada. Le scarpe nere cigolano, gli impiegati ruotano su sé stessi. “Dicevo che la sciamadda… ma non importa… Se vedete pezzi di stoffa dalle vaghe sembianze antropomorfe, sparpagliati lungo Via di Porta Soprana, calpestateli e mentre li schiacciate ruotate il piede, sfigurateli, impastateli alla pietra, che siano irriconoscibili, materia di scarto. Ma riprendiamo la visita. Quei cerchi sono le bocchette del vecchio acquedotto. La porta fu costruita in pochissimo tempo, era urgente, si avvicinava il Barbarossa…” Uno è appoggiato alla ringhiera, è rivolto verso la Chiesa del Gesù, non guarda niente ma si accorge della luce calda riflessa dalla pietra gialla, se ne accorge per pochi secondi, perché poi si volta, l’hanno chiamato, deve raggiungere qualcuno che ha la faccia da spazzacamino, i vestiti stazzonati.
*
I gesti che si fanno quando si è soli, anche i più banali, come spostare una sedia, o un oggetto da un ripiano all’altro, in pubblico cambiano. Lei, per esempio, quando spostava un oggetto, fosse anche minima la distanza fra partenza e arrivo, e l’oggetto leggero e facilmente spostabile, metteva una cura estrema in quel gesto che frazionava in tante parti con movimenti a scatti come avesse giunture meccaniche, e solo dopo un paio di prove, spostava l’oggetto con un movimento fluido. Fuori, invece, se accadeva la stessa cosa, il movimento era subito continuo, sicuro. Non le ho mai chiesto se era consapevole di segmentare il gesto prima del piccolo trasporto e se si accorgeva che lo stesso gesto, in pubblico, era normale. Temevo di metterla in imbarazzo perché, se non se ne accorgeva, era inutile e scortese farglielo notare. Poteva anche nascerne una lite e in fondo non trovavo un vero motivo. Certo, quegli scatti da automa costruito con una meccanica elementare, non potevano passare inosservati. E la differenza nel trasferire definitivamente l’oggetto, dopo quelle prove, era evidente. Inoltre, in pubblico, come dicevo, lo stesso oggetto, a volte una semplice bottiglia, lo spostava senza attirare l’attenzione, con un movimento sicuro e fluido. Aggiungo che ripeteva le stesse prove frazionate, anche con oggetti di un certo peso. Una volta mi sembrò addirittura che applicasse quel criterio “fotogramma dopo fotogramma” anche per grattarsi un braccio. Non era un ralenti. Però, visto che rimaneva una bizzarria a carattere privato e durava pochi minuti, alla fine ho pensato di tacere.
*
Giorno e notte stanno intorno alla finestrella quadrata col vetro zigrinato. Sporgono dal margine del tetto, escono dalle grondaie. Aspettano. La finestra è chiusa, ha i doppi vetri. Dall’interno non è facile raggiungerla. Occorre una scala. E prima bisogna spostare un pesante materasso a due piazze. Poi arrampicarsi sopra una specie di pedana. La pedana è di legno, molto lucida: facile scivolare. Si deve procedere cauti. Dalla pedana al pavimento circa un metro. Non sempre. Dipende dalla luce. Ieri, una luce sporca, avvolgeva tutta la camera e i livelli sembravano scomparsi. Le distanze alterate. Era meglio procedere a tastoni. Poi un taglio di luce ha fatto alzare qualche piastrella, la luce sporca piano piano si è ritirata verso la finestrella, è sparita, risucchiata con un sibilo. Dall’esterno è partito un improvviso applauso, uno solo. Io, su quella pedana rialzata, dormo da 14 anni. E non avevo mai visto tutte quelle ombre intorno alla finestra, l’unica di tutta la stanza, come in posizione di assedio, sembra che giochino alla guerra. Ed è un gioco che non capisco. Stanno lì, aspettano di scorgere una fessura, di infilare qualcosa. Forse sono loro a manovrare la luce, lo fanno per disorientarmi. Io non mi difendo. Cerco di ignorare. Del resto non fanno rumore. So che ci sono, so che alcuni si sdraiano sul tetto, altri tastano il perimetro della finestrella centimetro per centimetro. Sperano in una guarnizione allentata, penso. Uno spiffero.
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Non sapersi orientare, agire come un bambino, cercare una guida. Esagramma N. 4.
La guida che ci aspetta adesso è in cima e allo stesso tempo è in fondo a Vico Casana. Ne abbiamo una anche a metà. Con tre guide non ci perderemo. Il draghetto di ferro sopra il Britannia Pub a che epoca risale? Perché Vico Casana si chiama così? Escono ciocche di capelli dal parrucchiere sotto i portici. In uno specchio c’è una testa avvolta da carta stagnola. Vorrei dormire. I portici sono scuri, hanno una forma a sarcofago, puzzano di vino e birra. Due guide sono scomparse. Quella che resta è piantata in cima a Vico Casana, in controluce, in attesa. Sono lentissimi quelli del pacchetto n. 18: mentre arrancano sbuffano, hanno la testa che ciondola, l’aria insoddisfatta. Eppure hanno appena visto meraviglie: le sterlizie secche, il sottopasso chiuso pieno di spazzatura, i capelli ammucchiati, e intravedono Piazza de Ferrari, una striscia di cielo. Il draghetto di ferro sembra un fischietto o un fumaiolo di una locomotiva giocattolo. Vorrei scucirmi dal pacchetto, sfilarmi. Perché ho fatto questo giro? Costava poco. E in fondo ho visto meraviglie: le sterlizie secche, i bidoni della spazzatura, i capelli tagliati, un sottopasso-discarica… Ma siamo appena all’inizio, il giro durerà ancora un’ora. Eppure sembrano tutti stanchi. Forse erano stanchi ancora prima di partire. Il viaggio non è stato male. Quando la città di C. incombe sul porto è uno spettacolo unico. Qualcuno dice che vale tutto il viaggio ma a patto di non scendere. Stanotte, nei sogni, le ciocche di capelli fluttueranno come alghe; il draghetto di ferro sarà un cetaceo trafitto da un San Giorgio che cavalca una moto d’acqua. Saranno sogni pieni di fumo, puzzeranno di combustibile.
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Qualcuno oggi ha freddo ma la temperatura è mite e gradita ai più. Ci si diverte, si chiacchiera, si fanno discorsi su chi piscia per strada ad Amsterdam ed è multato di mille euro. La tendina arrotolata è un segnale. La tendina bianca. Guarda bene. Oggi è a mezz’asta. E sotto, due ombre girate verso il muro scambiano qualcosa. Anche il cuscino incastrato fra palo e muro è un segnale. Vuol dire che la stanza è libera. O forse vuol dire: oggi, primo ottobre. È un calendario. Sui muri è dipinta una torre che s’innalza e si avvolge oltre le nubi. Il braccio che impugna la lancia ha un cedimento e la lancia è spezzata. Poche possibilità di cavarsela, questa volta. Il cavaliere è disarcionato. Più che spaventato è incredulo, sdegnato. Come? sembra dire. Mi ritrovo per terra, io, in mezzo alla polvere, come un sasso o una scarpa? E sullo sfondo cosa accade? Un fruscio di un vestito, uno strappo. Si sente il rumore di un aereo in picchiata.
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Una tenda rossa, lunga, sdrucita. La vedo da una finestra. Copre metà di un’altra finestra, quasi di fronte, in basso. Al soffitto è appesa una lampadina a spirale: la luce è squallida, forte. Un arredamento provvisorio. Una stanza con un letto matrimoniale e sopra il letto diversi oggetti. In un angolo si muove un gatto, un gatto giallo. Che cosa ti aspetti di vedere o di sentire? La tenda è stretta al centro da un anello e la parte bassa è deviata verso l’esterno. Il davanzale di ardesia è sporco di piume e polvere. La stoffa rossa trabocca nel vuoto.
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Il materiale con cui si formano i miei sogni a volte lo ritrovo: anche se devo scavare e scavare prima o poi tocco la radice o credo di toccarla. Tra le cifre scombinate oppure combinate secondo un sistema spesso incomprensibile, stanotte avevo a che fare con una costruzione bassa e lunga, forse uno stabilimento balneare dentro il quale c’erano molte donne, perlopiù puttane o ex puttane. Una era molto alta, esile e pallida ma per nulla debole fisicamente. Aveva labbra strane a forma di becco e dure come un becco. Era impossibile baciarla. Inoltre lei doveva chinarsi e faticava per la differenza di altezza. Seguiva un litigio perché mi facevano aspettare troppo per una telefonata. Da parte mia, rimostranze interminabili. Poi, sul mio davanzale, stendevo uno spesso strato di riso per i piccioni notando come fosse bello il bianco del riso sul grigio della mensola. Qualcuno diceva che avevo esagerato, che i piccioni non hanno bisogno di mangiare così tanto. Però lo strato era bello, dava una sensazione di pulito. Nell’edificio facevo l’amore con una delle puttane: il letto era molto grande e altri si univano con malizia o scoperta eccitazione. Ricordo delle coperte di lana morbide e un’atmosfera confusa; forse chiedevo a una delle donne di sposarmi. La donna molto alta e esile era la presenza più forte. Cinque poliziotti stazionavano a ridosso di un lato di Piazza Campetto mentre qualcuno cercava acqua alla fontana del Barchile. Non trovandola, continuava a ruotare i rubinetti da un lato e dall’altro. A vuoto. Uno dei poliziotti di colpo lasciava gli altri e andava verso la fontana per aiutare l’uomo a trovare l’acqua. Gli dava istruzioni, suggerimenti. Sembrava che parlasse la lingua di un rabdomante. A questo punto, nel sogno, c’è uno stacco: l’improvvisa comparsa di una montagna per metà bruciata. L’incendio doloso era stato spento da qualche giorno. La terra bruciata aveva come sfondo il mare e la foschia. Perché questo stacco? Ho frugato nei ricordi e non ho trovato niente. So qual è la montagna e conosco a memoria quel paesaggio di mare e di foschia; so anche l’origine dell’incendio. Ma l’aggancio alla scena o alle scene precedenti sfugge. Non c’è, neppure deformata, una modulazione.
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Sei o sette poliziotti formano un gruppetto vivace accanto a una gelateria. Siamo più o meno nella zona di Caricamento. Giornata calda. Mi capita di osservare la lunghezza dei manganelli che mi sembra esagerata. In un vicolo buio, fra serrande chiuse, c’è una donna ripiegata su sé stessa. Dietro il corpo, a una distanza di qualche metro, un’insegna sgargiante, bianca. Molta luce in quel punto. Una vetrina grande, alta e larga. Fa angolo. A destra si sbuca in Via San Lorenzo. Tornando indietro di qualche metro si possono osservare i draghi di ferro mangiati dalla ruggine. I poliziotti si sono dispersi. Le autoradio sembrano trasmettere un’ovazione o un inno. Sotto la facciata a sud di Palazzo San Giorgio, dietro le auto in sosta, c’è il corpo di uomo sdraiato su un fianco.
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C’è uno strano silenzio nei vicoli. Qualche eco di serranda che si abbassa, qualche voce… Stasera, dove si spostano i rumori? Dove vanno a fare il verso del lupo o i cori da stadio? E i cani? Dove abbaiano? Sento un debole lamento… uno fischia – e altri rumori. Quello di un carrello, breve. E un ronzio. Oggi, verso le tre, ammucchiavano sacchi di cemento in Via di Scurreria la Vecchia. Un tonfo sordo, cadenzato, uno sbuffo di polvere. La pila dei sacchi aveva un criterio, quasi un senso estetico.
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La piccolissima volpe bianca disegnata su un muro di Via Tommaso Reggio è intatta, resiste a tutte le crepe che ha intorno, alle diverse insidie del degrado. Cacciatori di graffiti! Vi sfuggirà sempre.
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Al tre ottobre del 2022, ore 20.55, un piede batte un tempo sincopato, insistente, percuote il pavimento di piastrelle quadrate, rosse, rosso-scuro con le fughe quasi sbriciolate, piccoli sprofondamenti neri. Sono caselle, cellette dove tracciare un segno col gesso. Chi le calpesta tutti i giorni di solito non se ne accorge. Stasera le osserva. Traccia qualche segno elementare: una x, un tondo. Non sono inutili. Gli servono per colpire quel pavimento che vede tutti i giorni da 14 anni, che lo annoia, che gli annoia anche i piedi. Così come lo deprime l’ambiente sempre uguale, gli stessi percorsi, la stessa porta, le stesse finestre, il numero dei gradini, le forme immobili, i ripiani, il modo di convergere che hanno certe linee…
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Coi resti del pavimento avremmo potuto costruire barricate e rifugi per gli uccelli. Alzare piccole colline da scalare, da forare con tunnel. Una rete di tunnel complessa, misteriosa. Potevamo esplorarla, illuminarla con giochi di luce. Con i pezzi rossi avremmo improvvisato decorazioni, limandoli sarebbero nate figure. Oggi, visto che non è successo niente, e il pavimento quindi è intatto, guardo il solito ambiente dove tutto si raggiunge facilmente, dove non ci sono insidie, trabocchetti, prove da affrontare per raggiungere una sedia, una finestra, la porta d’ingresso. Molto più comodo prendere un oggetto, scostare una tenda, accendere una luce, imboccare le scale etc. Sembra tutto come prima, esatto e tranquillo. Le inclinazioni dei tavoli non sono cambiate. Una parete non è mai stata perfettamente lineare. Potrebbero ingannare anche un quadro lievemente storto, una scatola che è dove non dovrebbe essere, una distanza che sembra cambiata, quella, ad esempio, fra il tavolo basso e la scala. Ma osservando bene, sono inganni da quattro soldi, sono falsi inganni, perché un quadro un po’ storto non significa niente, non è il segnale di una sommossa remota e la scatola, probabilmente, è sempre stata lì. In quanto alla distanza fra tavolo basso e scala, non l’ho mai misurata. A colpo d’occhio è sempre uguale. Tutt’al più potrebbe esserci una differenza di pochi centimetri. Ma anche fosse così, non direbbe proprio niente su un’eventuale tumulto con barricate, collinette, canali e luci misteriose. Allora è meglio rassegnarsi al numero di gradini, delle finestre, delle mensole, delle piastrelle etc., sempre tutti uguali come gli altri giorni. Anche la scatola è meglio non toccarla. Un certo rimpianto è inevitabile. Si poteva costruire un ambiente mosso, imprevedibile, una dichiarazione di guerra all’ovvietà, una scossa alle abitudini, e invece non si è fatto niente. Resta da vedere se quella crepa sul pavimento e quella fessura alla base di una parete sono sempre state di quelle dimensioni: lunghezza, profondità, disegno non sembrano quelle di tutti i giorni. Ma quali prove abbiamo della differenza? Nessuna foto, nessuna descrizione, nessun testimone. La memoria non basta, inganna. Del resto, l’ambiente ha micromovimenti di cui vediamo solo i risultati, e alla fine. Assestamenti. E perciò: piccole crepe, fessure, inclinazioni impercettibili. Tenere un registro, un inventario, in questo senso sarebbe impossibile e probabilmente anche inutile. Forse indicativo per un inizio di sommossa, per i primi segni di un sovvertimento. Allora una piccola crepa diventerebbe significativa, anche dopo anni sarebbe il segno che un cambiamento era ed è in atto, sarebbe un invito a continuare, a seguire un suggerimento dato dall’ambiente stesso. Bisogna stare in ascolto, quindi. E non sopravvalutare la vista. E dare importanza al tatto. Sentire, tastare la forma dell’ambiente, anche brancolare e dare al caso la sua giusta rilevanza.
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Dopo tre anni è tornato. Aveva la stessa tuta, le stesse scarpe. Sudava allo stesso modo. Lo zaino era quello di tre anni prima. Il luogo era identico con qualche pila instabile in più. Si è disfatto dello zaino e di altri tre ingombri. Così lo spazio, già angusto, è diventato soffocante. Raggiungere l’uscita non era facile. Ma lui non se ne accorgeva, esattamente come tre anni prima. Poi è apparso un uomo corpulento. Ha fatto due passi e si è fermato. Teneva una cartella di cuoio con la mano destra, la teneva scostata dal fianco come se volesse impedire avvicinamenti da quel lato. Agli altri lati pensava il suo corpo largo.
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“Vede, non si tratta di letteratura per noi, ma di come cucinare, per non buttarla via, della carne scaduta senza farci venire il mal di pancia. A voi questo non interessa, non interesserà mai.”
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Uno era alto, massiccio come una torre, l’altro, o meglio, l’altra, bassa e tarchiata posava i piedi sul pavimento come volesse schiacciarlo, sprofondare. Era sudata. Abbassava il peso del corpo dalla punta della testa ai piedi, una specie di caduta poi raccolta dalle scarpe, trasmessa alle suole e premuta sul pavimento della Libreria del Centro Storico. Poco prima qualcuno aveva chiesto se quel vescovo era San Siro, e cigni quegli animali intorno al santo. Parlava del bassorilievo in ardesia che si può vedere a sinistra della libreria. Intanto la donna tarchiata era arrivata quasi in fondo. Stava ferma, ma una vibrazione lieve le percorreva bacino e polpacci. Sul viso nessuna smorfia. Eppure lo sforzo si avvertiva: erano le scarpe che mandavano un rumore di scarpe di gomma premute col massimo della forza su un pavimento di marmo. In libreria c’erano altre persone: sei o sette. L’uomo alto e massiccio era arrivato in fondo alla libreria, nel settore per bambini. Dava la schiena all’ingresso. Aveva le braccia lunghe e per spostare un libro non doveva chinarsi, restava eretto e stendeva il braccio. La donna tarchiata era alle sue spalle e adesso aveva il viso rosso e a tratti pallidissimo. Credo che nessuno si accorgesse di questa spinta esercitata verso il basso sempre nello stesso punto. Qualche contrazione la donna non riusciva a trattenerla: era rapida, passava su diverse parti del corpo e si distendeva sempre verso i piedi. Che non erano grandi: piuttosto larghi, davano un’impressione di solidità. Fra le chiacchiere e i libri, dopo qualche minuto, mi sono dimenticato della donna e dell’uomo alto. Più tardi, mi sono tornate in mente le due figure e soprattutto quel modo di far crollare lentamente il peso verso i piedi. Non è detto che la donna tentasse di incrinare il pavimento. Per certi versi si poteva dire che lo alimentasse o ne traesse alimento.
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“Paralizzate le spedizioni”, grida uno in Piazzetta De Marini mentre un carrello, caricato male, barcolla, si rovescia e decine di scatole finiscono per terra. Paralizzare le spedizioni, le scatole per terra, il carrello rovesciato su un fianco, non interessa proprio a nessuno. Qualcuna è ammaccata negli angoli. “Ed è sempre così: si ammaccano negli angoli, hanno gli spigoli sporgenti, eppure l’imballo, l’Arte dell’imballo, ai nostri giorni ha raggiunto una certa perfezione” dice uno mentre passa guardando quasi con disprezzo scatole, carrello e spedizioniere. Non è da escludere che più avanti, poco prima di svoltare in Via San Lorenzo, abbia sputato. Si è accorto delle macchie di sangue, del grasso su cui ha camminato? C’è una porta di metallo che dà sul retro di un negozio: si apre raramente. Quando si apre scaricano sul selciato. Il selciato in quel punto è curvo, quasi spaccato. Trasportano animali morti, pezzi di animali morti. Scarti di pezzi di animali morti. Intanto il traffico di carrelli prosegue in Via San Lorenzo.
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Aveva le stringhe spesse e lunghissime. Era seduta sui gradini sotto il monumento a Rubattino, in Piazza Caricamento. Cercava di sbrogliarle, scuoteva la testa. Una parte delle stringhe aveva raggiunto l’ultimo gradino. A immaginare quella matassa allungata si poteva pensare a una gomena. Poi, camminando, ho incrociato un cavetto del telefono che dava filo da torcere a uno che tentava di scioglierne i nodi continuando a camminare. Aveva un’aria da bancario, un completo blu con la solita cravatta. Era smilzo e alto. Il cavo penzolava sul braccio e sulla spalla, strisciava su un lato della testa, oscillava e pesava di più dove i nodi erano più numerosi. Sul lato ovest di Palazzo San Giorgio, dietro un reticolato, era fittissimo il gruppo di piccioni che si avventava su una quantità di briciole. I piccioni sono furiosi quando si contendono il cibo: una vera rissa. Il resto della piazza oggi è tranquillo. La donna dalle stringhe lunghissime continua a sbrogliare la sua matassa con ammirevole ostinazione.
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Sono sicuro che è stato un rumore a modificare il mio sogno. Come spiegare il brusco passaggio da terreni interminabili, aridi, su cui volavano grandi rapaci, le carcasse di animali bianchissime sotto un sole feroce, a un’ondata che aveva superato ogni diga del porto e si allungava a lambire i portici di Sottoripa? Ero allo stremo. Vagavo su quel territorio piatto senza motivo, i vestiti stracciati, sporco, assetato. Non cercavo niente, non ricordavo se e quando avevo iniziato una specie di esplorazione. Ero partito con altri? E gli scheletri bianchissimi erano ciò che restava dei nostri cavalli? Mi accorgevo di avere addosso qualcosa di incongruo: un fazzoletto da taschino pulitissimo e raffinato, e anche ben ripiegato. E le scarpe erano mocassini di vernice, senza una macchia, né un granello di polvere. Fissavo quegli oggetti. Mi veniva in mente che fossero un bottino. Avevo depredato qualcuno. Mi rivedevo nell’atto di assaltare. Ma perché quegli oggetti? E com’era possibile che fossero così puliti? Sul fazzoletto erano ricamate delle iniziali. I grandi rapaci erano appollaiati sulle carcasse: non emettevano nessun verso. Avevo sete. E stranamente nessuna fame. Poi l’ondata compariva in prima pagina mentre allo stesso tempo lambiva i portici. Ancora non si era ritirata e i giornali già ne parlavano, contavano le vittime, quantificavano i danni. Qualcuno diceva che era artificiale: un complotto politico. Avevano già gli articoli pronti. I bambini e i gabbiani sguazzavano nella schiuma. Poi mi ritrovavo in una casa dove cercavo di aggiustare un’autoclave molto rumoroso. Dentro una parete sentivo scrosciare acqua come se avesse piovuto solo all’interno dei muri. Fuori non pioveva. Dentro i muri le gocce risuonavano.
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Si vede da come mastica il pane, in Vico dell’Oliva, a ridosso di una saracinesca, che ha fame e pochi denti. Ogni tanto sputa il pane e accorrono i gabbiani. Ha stivali di plastica, di quelli per l’acqua alta, quelli da pescatore.
Vico dell’Oliva vanta un bel portale antico. Resta in ombra, quasi sempre. Vetrine solo in cima. Una è di vestiti da sposa. Sopra una mensola che sporge da un muro si siedono i gratta e vinci, quelli che sperano nella vincita clamorosa. I biglietti sono sparsi tutt’intorno. Tre ripiani coperti di piastrelle rosse.
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I piccioni graffiano la mensola col becco, cercano briciole. Una finestra di fronte, in basso, è buia da qualche giorno. In Vico del Sale ho visto un bassorilievo e poi da un’altra parte un’edicola gigantesca, sporca, in un vicolo pieno di oscurità. Ci sono strane rastrelliere in legno, incastrate nei vasi, mai viste prima. A che cosa servono? In fondo a Via Canneto il Lungo un mazzo di ferri sottili, lunghi, verniciati di rosso, sembra artigliare il passante. Sedie rosse. Campanelli.
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Guarda un numero e pensa a un libro; il numero cambia, cambia il segno. Siamo in un terreno guasto che si può sanare a certe condizioni. Come si è guastato? Con l’indifferenza. Occorre un lavoro estenuante per bonificarlo. Il compito è grave. Non impossibile. Il numero cambia. Siamo un filo d’erba che spunta. Che sforzo! La difficoltà è iniziale. Un solo filo. Si devono cercare aiuti ma si deve stare attenti a chi ci aiuta. Il numero cambia. Siamo un calderone, un’opera alchemica. Lo scacco è possibile quanto la riuscita. Il recipiente deve essere ripulito, intanto. Bisogna alimentare la fiamma. Nel trasporto potrebbe rovesciarsi, si deve prestare attenzione ai sostegni, afferrarli bene. Quattro figure sostengono due travi. Il numero cambia. Siamo vicini al sonno, alla distensione. Ciò porta a trascurare il pericolo: ancora lontanissimo, ma presente sotto forma di una linea scura non del tutto ferma.
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Sulla porta del negozio, lo sguardo vuoto, le braccia lungo i fianchi, corpulento, illuminato dai neon, gli scorre sotto il naso la massa del sabato. Ogni tanto strizza gli occhi, fa una smorfia. Uno dei punti più intasati della città vecchia non ha ancora abbassato le serrande. Quando chiamano il cane urlano. Quando chiamano urlano. La svolta in Vico delle Vigne è ostruita. Il ronzio è quello dell’alveare o dei mosconi, quelli spessi e pesanti delle giornate ancora calde di ottobre, quelli che hanno il volo torpido e ronzano forte.
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Stamattina ho deciso di mettere una certa cura e molto impegno ad allacciarmi le stringhe, le lunghe stringhe dei miei scarponcini. Bisogna infilarle in tanti occhielli e fare certi passaggi a destra e a sinistra, tirare bene, senza saltare nessuna fase del percorso. Altrimenti non stringono. Altrimenti si cammina male. Adesso le ho sistemate e potrei uscire, sicuro di camminare con decisione, di scendere le ripide scale senza timore d’inciampo, con un ritmo regolare, nonostante l’orlo d’ardesia consumato e ondulato con improvvisi vuoti, piccoli ma perfidi. Potrei uscire, sì. Ma tendo a rinviare la decisione: giro a vuoto, fisso qualcosa, lo sposto. Vado verso un tavolo o una sedia, raccolgo le idee. Probabilmente fingo di raccogliere le idee. Sono trucchi per rimandare, li conosco, li pratico da anni. Non servono a niente, solo a rinviare. Eppure hanno un’altra funzione oltre al rinvio. Non aumentano nessuna voglia di uscire; al contrario, la diminuiscono. Perché dovrei uscire? Ho fatto sogni che non varrebbe la pena di sognare; non sono interessanti, non ho dormito in maniera interessante e il risultato è una gran massa di gente, facce, parole, gesti insulsi dentro scene e scenari squallidi e ripetitivi. In una di queste scene getto il caffè sulla camicia di un tizio perché è imbevibile e il tizio sorride di un sorriso vacuo, si guarda la camicia e non reagisce. E il caffè era bollente oltre che imbevibile. Adesso mi rendo conto che s’intonava ai disegni della camicia, foglie color caffè su fondo bianco. Ma non gliel’ho gettato addosso per questo motivo, ero pieno di rabbia perché aveva un gusto di liquirizia bruciata. Per uscire occorre che m’inventi un motivo. Devo mettere in moto il lato creativo dell’uomo, l’invenzione, il progetto. Bisogna assolutamente imprendere. Per prima cosa osservo come ho allacciato le stringhe: è un buon lavoro, sì. Sono tese e intrecciate come si deve fino all’ultimo occhiello e allacciate col doppio nodo mi danno una grande sicurezza. Dunque potrò affrontare i gradini ripidi e sbreccati della scala con una certa baldanza e poi le pietre del selciato, sempre sconnesse. Provo un certo conforto e l’idea di uscire mi sembra più concreta e più a portata di mano. L’indugio sembra cedere a un abbozzo di decisione. Mi accorgo che fa caldo, continua a fare caldo, caldo umido. Forse è inutile mettere un giubbino, mi farà solo sudare e la pioggia delle previsioni sembra poco probabile. Per un attimo rivedo un’altra scena dei sogni di stanotte: sulla città di C. è scesa una nebbia fittissima, rara. Puzza di smog e di grasso. La gente sbuca di colpo, spesso si scontra. Uno dice: “non vedere, a volte, o vedere a fatica è meglio; quelle forme lanciate in aria, forse azzurre, che cosa sono? E questi tamburi che sento ma non vedo che cosa annunciano?”
Tornando allo scatto creativo che dovrei impormi mi tocca constatare che è come se avessi una molla rotta da qualche parte. So di avere altre molle ma questa era fra le più importanti, una molla grande, molto compressa e quando scattava mi ritrovavo scaraventato per strada. Non avevo bisogno di pensarci, indugiare, spostare oggetti, muovere il vuoto. Il vuoto. La parola mi colpisce. Fra me e la porta d’ingresso c’è un vuoto pieno di ostacoli. Dovrei conoscerli bene. L’esperienza aiuta, dovrebbe aiutare. Sapendo di che ostacolo si tratta dovrei sapere come e se posso superarlo. Forse il primo l’ho già superato senza accorgermene. Ma ce ne sono altri sconosciuti, rintanati oppure così evidenti che mi assale lo sconforto. Sembrano tanti, troppi. Cerco di non abbattermi. E ragiono. Il primo ostacolo è quel vuoto fra me e la porta. C’è sempre stato, si tratta di pochi metri, li conosco a memoria o almeno credo di conoscerli a memoria. La luce è tenue ma sufficiente per vedere dove metto i piedi. Dunque? Forse ho così tante esitazioni perché sono solo, nessuno può spingermi o trascinarmi, oppure incitarmi; anche trattarmi male. Mi darebbe quella spinta che la mia grande molla rotta ormai non può più darmi. Fuori rintoccano le campane. Il cielo è nuvoloso. Forse sta per piovere.
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Senza farla tanto lunga: chi avrebbe voglia di uscire sapendo che una certa etnia è ritornata dopo tre anni e si raduna come tre anni fa intorno alla statua del famoso armatore, gremisce i gradini, dispone tastiere elettroniche, microfoni, cavi per l’amplificazione, e si prepara a schiamazzare le lodi del Signore, tutti azzimati, di media-piccola statura, i capelli con la scriminatura perfetta, impomatati alcuni, facce al borotalco? E sapendo che per l’ennesima volta si sentiranno frasi come: “Però gli Americani in Vietnam… E Israele? Mamma ho visto un pinguino!” Sapendo che la piazza sarà piena di lagne amplificate, e lo schermo gigantesco manderà le stesse immagini dai colori saturi, dai blu perfetti di piena estate, le immagini delle regate, barche a vela, borghi marinari con le casette colorate di rosso, giallo, verde e un mare bellissimo?
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Mi sembrava già difficile superare la terza piastrella e il vento non era certo favorevole, tanto che mi sono fermato su una sedia, ho considerato la quantità di piastrelle, i mulinelli di polvere e ho pensato che era meglio rinunciare. Eppure ero partito sotto buoni auspici: scarpe allacciate bene, vento favorevole, un certo cauto ottimismo e una prova di flessibilità degli arti. Senza tralasciare qualche breve esercizio mentale. Anche gli urli erano spariti, gli urli della notte, dalle strade. Così, anche se la luce era grigia, ero partito, senza cartina, ma il percorso, forse in altri tempi, avrei potuto farlo anche a occhi chiusi. Adesso sgranavo gli occhi sulla terza piastrella: quadrata, rossa, un po’ in pendenza ma come tutte le altre, ed erano centinaia. A guardarla bene, la terza piastrella sembrava poco consistente, una specie di pasta ancora non del tutto solida. Soprattutto nei punti di giuntura con le altre piastrelle. Non proprio come una palude, ma dava l’idea di qualcosa di vischioso paragonata alle altre che erano sì sbilenche e consumate in vario modo, ma davano pur sempre una sensazione di solidità, di appoggio sicuro. Su quelle il piede non sarebbe affondato. Invece per la terza avevo forti dubbi. Per adesso restavo seduto e masticavo lentamente un pezzetto di pane. Dai lati della grande stanza, dentro i muri, fischiava il vento sfavorevole. Ho raddrizzato la mia bandierina infilata nello zaino, molto piccola, tutta spiegazzata; eppure averla mi dava una parvenza o illusione di avere un’identità, con i suoi due colori slavati e una cifra netta, un graffio, e il bordo sfilacciato. Era lei, la mia piccola bandiera dall’identità un po’ incerta per gli altri, riconoscibile per pochi, all’occorrenza sapevo che avrei potuto sventolarla e quei pochi sarebbero accorsi, mi avrebbero aiutato.
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Per adesso non mi oriento. Questo è un fatto. Non ho paura, ma capisco che per adesso non mi oriento. Le parole “per adesso” un po’ mi rassicurano, mettono un segno al presente, accennano al futuro. Dietro i vetri c’è la solita rissa di piccioni: più turbolenti del solito si battono per le granaglie. Ho fatto un lungo giro vicino al mare, vicino al porto dove sono tornati i cormorani. Ho camminato per un paio d’ore. Le mie suole sono buone, spesse e ben conformate al mio piede, le ho controllate prima di uscire. Uscire da dove? Esattamente non ricordo. Potrei dire: forse sono uscito da qualche parte, è possibile che… Sapere che sono uscito è già un riferimento. Il cielo è grigio, di un grigio opaco. L’aria è calda. Probabilmente ho camminato lungo strade che non vedevo da tempo, accorgendomi di questo, non accorgendomi di quello. Non volendo guardare quello né questo. Mi ricordo un senso di rifiuto, di stanchezza estrema, anche se momentanea, alleviata da un appoggio: una ringhiera affacciata su acqua bassa, alghe, bottiglie. Lo sciabordio minimo e lentissimo era esasperante. Come una voce né maschile né femminile trascinata avanti e indietro. Uno ha telefonato per chiedere informazioni su scarponcini da arrampicata: dettagli, colori, misure, prezzi. Un vero interrogatorio. Il fatto è che non trovo un inizio, non trovo il capo. Trovo o piuttosto sento dei brandelli, dei pezzi più o meno consistenti. Anche ingombranti e fastidiosi, come la voce di cui ho detto prima. Ecco, c’è un prima. Ma a che cosa mi serve? Non è il prima necessario per cominciare a orientarsi; è un prima convenzionale che potrei mettere in un qualsiasi punto. Sono uscito, sì. Questo è sicuro. E sono anche rientrato. Non credo di aver chiesto indicazioni, né all’andata né al ritorno. Non ho consultato cartine, guide. Uno ha gettato la lenza nell’acqua lurida del porto, i prezzi di un ristorante mi sono sembrati scandalosamente alti, un fiore, uno solo, a forma di campana, bellissimo fra le erbacce. A partire da questi elementi finisco col ritrovare due gru arrugginite, il verso di un animale preistorico molto simile a un potente rutto, tute fosforescenti, gruppi di vigilanza speciali. Sembrerebbe già abbastanza per un abbozzo di cartina. Ma il guaio, forse, è che io stesso non collaboro, non voglio collaborare, mi rifiuto di collaborare, perciò mando fuori strada me stesso, annebbio i ricordi precisi, cancello i nomi. Ricordo quello che voglio ricordare, e basta. Per lo più forme di marmo: un leone, un’aquila, un’altra aquila, targhe, scritte, insegne, insegne levigate, gradini, la vetrina di una vineria, due o tre metri di un tubo di gomma precipitato sulla strada. I palazzi sono molto alti, il tubo è andato in pezzi, era gomma secca, screpolata. Ma tutto questo non lo uso per ricostruire un inizio e neppure una coda da cui risalire all’inizio o almeno a metà. Intanto ho preso atto che il disorientamento, se dura, diventa una forma di orientamento particolare, ma è pur sempre un orientamento. Però bisogna stare calmi per usare questi punti che svoltano improvvisamente e quelli che sembrano fermi e già conosciuti e forse non cambiati. Ad esempio i piccioni. Sembra una scena che si ripete da mesi con minimi cambiamenti. Soprattutto di granaglie. Oggi era orzo perlato misto a riso. Manciate generose. Vedevo la scena da una decina di metri. I vetri sono sporchi. Le ali battevano contro i vetri. I corpi erano in controluce. A un certo punto la contesa mi è sembrata più convulsa del solito, i colpi d’ala più frenetici, la mischia era diventata selvaggia. Non mi piaceva, questo me lo ricordo molto bene.
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Muovetevi da Vico Lavagna verso Via della Maddalena. Fermatevi in Piazza Lavagna. Si chiama così? Non ricordo. Vedo una foto dei lavatoi: a sinistra una lavanderia, a destra una gelateria. La foto è degli anni ’30. Un controluce difficile a quei tempi. Alla vostra destra c’è un muro gonfio d’acqua. Tornate indietro e sbucate in Via Luccoli. Prima che il muro ceda e l’acqua trascini calcinacci. Vedo che avete ancora sandali e bermuda come fosse piena estate. Un pezzo di intonaco contro una caviglia è un’esperienza da evitare, se volete. La piazza si biforca in due vicoli che si ricongiungono in Via della Maddalena. Qui, se volete andare a puttane, avete l’imbarazzo della scelta. Oppure volete la sartoria africana? Tornate indietro fino alla chiesa della Maddalena. Qui il paesaggio umano cambia. Cambiano le ombre appostate dietro gli angoli, cambia il modo di respirare e di annusare. C’è più luce. C’è una salita di mattoni. Voi ascoltate, come appoggiando l’orecchio a un imbuto, tutti i rumori raccolti durante un percorso di cinquanta metri circa. Un riassunto fonetico del vostro giro.
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Eccoci ai Magazzini del Cotone. La giornata è dalla nostra parte o dalla vostra: calda, umida, di un caldo eccezionale, fuori stagione. Un clima che favorisce le muffe, i raffreddori, le sudate, gli odori forti. Ma questa è una città dagli aromi pungenti, sapida, e perciò l’esaltazione di sapori e odori vi aiuta a entrare in quello stato di esaltazione dei sensi propizio ai luoghi che visiteremo.
Forse avrete già notato, laggiù, quel ragazzo che da qualche minuto fruga nei bidoni della spazzatura; rovista meticoloso e ostinato, soprattutto nel bidone del vetro in cerca di una bottiglia non spremuta del tutto. Spera in un fondo di Armagnac o Calvados o altro costosissimo brandy. Da qui, senza muovere un passo, abbiamo una bella prospettiva sui Magazzini del Cotone, sulla parte denominata “Alcatraz” per le sue strutture, le passerelle in metallo, il lungo corridoio, le grate, gli edifici ciechi. E sempre senza spostarci vediamo decine di yacht bianchi, tutti uguali. Forse qualcuno di voi si chiederà quanto possano costare, esclusa la manutenzione, s’intende, e l’ormeggio. Ebbene, siamo all’incirca sui venti milioni di euro.
Cambiando discorso, e questa volta dovremo anche camminare, andiamo a vedere il cilindro-Van Gogh. Vi sarete accorti che la città di C. ama la ruggine. Eccone un esempio. Il cilindro, da anni, era tutto ruggine, e hanno pensato di pitturarlo nello stile di Van Gogh. Da un lato abbiamo: girasoli, faccia di Van Gogh e spirali Starry night. Chi non le ha già viste replicate innumerevoli volte? E i girasoli? Li hanno stampati anche sui sedili dei cessi. E così, qui, abbiamo l’ennesima variante dell’oltraggio ma, notate, la ruggine si sta divorando le figure. Fra qualche mese saranno scomparse sotto uno spesso strato marrone. Qua e là emergerà una macchia di colore, una striscia. Forse, sarà più interessante dell’originale…
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Appena apro gli occhi la prima frase che mi viene in mente è: “ma andate tutti a farvi fottere.” Poi mi chiedo: ma chi sono questi tutti? Vaghe ma solide entità. Sono sempre al plurale. Si manifestano come sciame o coro. Sono un collettivo o una gestione separata – non cambia. Sono Essi.
Essi sono mosconi con la pancia grossa, quattro scontrini e sette codici. Per quanto torpidi parlano veloci, sono un congegno, una registrazione. Quando, e se si riesce a capire che è una registrazione. Spesso non c’è differenza. Quando mi sveglio abbandono i sogni con un certo rimpianto, anche quelli angosciosi; mi sembra di perdere qualcosa, non importa se non li capisco; nello scambio fra sonno e veglia sento qualcosa di simile a una truffa. Sale un singhiozzo – represso. Mi guardo intorno e cerco di trattenere a tutti i costi il mio sporco sonno, il caos dei sogni. La luce che ho qui, diffusa, bianca, accentua la delusione. Perché consegnare la varietà, la sintassi in apparenza frantumata del sogno, per ricevere in cambio questa luce? Le scorie del sonno me le terrò fra le braccia finché potrò e non sarà per molto. Gli imperativi dello scontrino e dei codici, delle sveglie, del tempo cronometrato le faranno a pezzi irriconoscibili. Lo sento mentre mi vesto che mi hanno tolto già qualcosa – come tutti i giorni. E non mi verrà restituito. Poi, metterò un piede fuori.
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La città di C. è un’ulcera, dice qualcuno, un prurito continuo. Quando sembra attenuarsi non bisogna rilassarsi, al contrario, occorre più che mai stare in guardia: è un segnale che sta per ritornare più forte di prima, e con una forma a cui non si pensava, e in un punto che non abbiamo immaginato. Per esempio con nuove strisce dipinte sulla strada: colore e percorso enigmatici. Affiancano e poi intersecano altre strisce: ciclabili, pattinabili, pedonali, scarico merci, posteggio auto, posteggio moto, posteggi riservati ai residenti, alla finanza, alla polizia, agli stabilimenti balneari, ai monopattini, alle auto elettriche, agli spazzini, corsie preferenziali etc. Il tutto è compresso in uno spazio compresso, ondulato, con improvvisi strozzamenti, brusche deviazioni, un diluvio di segnaletica.
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Tre finestre alte, a pochi metri una parete gialla. Da un interno spunta una mano e sopra un davanzale posa un paio di scarpe. Un altro ha steso un lenzuolo blu e federe su cui è stampato un quadro di Van Gogh. La radio annuncia forti temporali per domani e mare mosso. La temperatura subirà un drastico calo e il vento sarà impetuoso. I muri scheggiati voleranno in frammenti. I frammenti colpiranno dove colpiranno. Vedo androni e rientranze stipati di persone vestite come fosse estate. Se uno vorrà fuggire e correre si illude: i frammenti saranno molto più veloci. Sarà costretto a cercare un altro riparo, a spintonare per farsi posto, a sopportare commenti poco benevoli. E a ciascun angolo i vortici di polvere ruoteranno a una velocità vertiginosa per sparpagliarsi all’improvviso. Il materiale che i mulinelli possono afferrare non manca: di cantiere, foglie secche, fisiologico. Le foglie secche raspano il selciato, un cane corre abbaiando. Si accendono i lampioni mentre le vetrine si spengono.
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Avanzerei anche durante una tempesta, dice. Ma intanto resta fermo, considera, riflette. Pensa alla strada che è meglio imboccare, al mezzo per attraversarla, al punto dove potrà gettare l’ancora. E se dovrà lasciare una lettera, almeno un biglietto a chi resterà a casa. Non è un dovere, pensa. Li ho già invitati a seguirmi. Hanno detto che ero pazzo, o che avevo un attacco di vertigini e che durante un attacco di vertigini non ci si muove e tanto meno si deve avere la pretesa di guidare altri. Ma guidarli dove, poi? E perché? Non erano del tutto in errore. La mia spinta, la mia follia, non potevano condividerla. Come spiegarla? Era impossibile trovare le parole adatte, anche gli esempi sarebbero mancati. Solo l’acqua che saliva verso le finestre, anche se lentamente, poteva servire come esempio, ma a loro non bastava. Al terzo giorno le raffiche e i fulmini raddoppiarono. Pensavo di sganciarmi in fondo a Via Reggio e di lasciarmi spingere dal vento fino all’incrocio con Salita allo Arcivescovato. Lì il vento è un incrocio di correnti molto temuto, una specie di Capo Horn. Come veicolo avevo una pelle di montone cucita a pali di legno. All’interno quattro maniglie di cuoio a cui aggrapparmi. Era solo il necessario per raggiungere quell’incrocio e doppiarlo. Non mi aspettavo di più né dalle mie forze né dalla mia imbarcazione rudimentale ma affidabile per quel percorso. In più avevo con me la mia bandierina e una piccolissima volpe bianca che fiutava la direzione e la forza del vento e prevedeva le onde anomale. Non era il caso di esitare. E non avrei detto niente il giorno della mia partenza, perché era giusto partire soli. Quando il motivo di una partenza è oscuro, anche se forte, non bisogna coinvolgere nessuno. Si abbandonano gli altri in silenzio, scivolando anche fuori da sé stessi, se è il caso. Si spera, dopo il viaggio e la lotta con gli elementi, di capire perché si è partiti in condizioni tanto avverse. Ammesso che si sopravviva, in quale modo e dove. Intanto, preparo la bandierina e avverto la piccolissima volpe bianca. Se io non dovessi farcela, lei sarà in grado di seguire le correnti adatte, di ritornare e raccontare. Ammesso che riesca a trovare un posto dove ritornare e qualcuno a cui raccontare. Le raffiche sono ancora aumentate, dai selciati emana uno strano vapore che rimbalza contro il cielo e ritorna ai selciati: sembra intaccarli e risalire ancora, in un ciclo senza pause.
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“Perché volete che vi aiuti? Sono sempre stato goffo e voi lo sapete. Non ho nessuna capacità particolare, né manuale né intellettuale. Dovreste chiamare le squadre di soccorso oppure affidarvi alla Provvidenza. Io sono quasi inetto, non aiuterei neppure me stesso, non voglio danneggiarvi.” “I soccorsi non rispondono più. L’acqua è a pochi metri dalle finestre. Il fragore dei tuoni è senza sosta. L’aria livida di lampi. Tu sei goffo, è vero, eppure la minuta volpe bianca obbedisce solo a te. Con noi è un pupazzo, un disegno su un muro. Sei inetto, appartieni ai livelli bassi, dialoghi con i disegni di animali e potresti aiutarci. Nulla ti obbliga. Potresti salvarti da solo e lasciarci annegare. Sempre che il diluvio non rallenti o non finisca, almeno per qualche giorno. Però adesso guarda fuori: oscurità in pieno giorno, raffiche, e un silenzio spaventoso di uomini. Neppure un urlo.”
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Andare fino in fondo e girare, recita un cartello. Ultima area di inversione, aggiunge. A piedi, penso, non dovrebbe essere un problema. Mi fermo e mi guardo intorno perché ho fatto molti chilometri con lo sguardo fisso in avanti, benché la percezione laterale sia sempre in agguato, se non si hanno i paraocchi come i cavalli. Ai lati scorrevano fondali di colline, montagne basse e boschi. Tutto un lato di un monte mi ha lasciato l’immagine della pietra grigia e di pochissima vegetazione. Davanti era come se, a due metri di distanza, mi precedesse una prua ondeggiante su sentieri ora ripidi ora piani, ora coperti di pietre scheggiate o terra battuta, delimitati a volte da muri a secco. Immaginavo di essere accompagnato da un piccolo cane fedele. Il timone erano i miei scarponcini, ben solidi e flessibili, provati tante volte, anche stando fermo e immaginando un percorso simile a questo. Il cammino vero, naturalmente, non ha le stesse proprietà di quello immaginato. Gli somiglia in parte, in parte sorprende. Le mie scarpe sono adattabili, penso, tanto a quello che ho immaginato, tanto a quello che calpesto. Sono partito per noia, soprattutto infastidito dalla città di C. e per mettermi alla prova dopo aver passato molto tempo a immaginare un percorso, scarponcini ai piedi, zaino in spalla, ma restando seduto in casa anche per molte ore. Per una settimana almeno, tutti i giorni mettevo gli scarponcini, mi caricavo lo zaino dopo averlo riempito dell’occorrente per una spedizione di circa un mese. Poi, mi sedevo e mi guardavo intorno ma senza vedere quel che avevo intorno se non a tratti. Vedevo, come dietro un vetro opaco, scritte, forme, rilievi, limiti che mi sembrava di non aver mai visto.
Come guardare un paesaggio sott’acqua, sotto un’acqua torbida. Ogni tanto qualcosa emergeva più nitido, quasi decifrabile. Erano parti di scene dove mi sembrava di vedere me stesso ma offuscato, in cammino.




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Dopo avermi urtato prosegue come certe navi che ne urtano altre e fuggono col favore della nebbia o dell’oscurità. Ho un graffio sul collo. L’uomo che mi ha urtato era pieno di piercing. Il graffio è superficiale, non sanguina. Non si è neppure voltato. La collisione è avvenuta in Via al Ponte Reale, alle 14.30 circa. L’uomo che mi ha urtato sta scomparendo tra la folla, verso l’Acquario. Mi sembra che abbia i capelli tinti di viola e stivali altissimi adatti ad attraversare paludi, stagni, canali dal fondale basso. Intorno ho un ciuffo di canne mosse dal vento e sento schioccare cavi che battono contro alberature di metallo. Chi mi ha urtato e ferito affonda in mezzo alla gente, poi riemerge, e scompare di nuovo. Non sono rari questi incidenti e compilarne un inventario sarebbe un compito arduo. Tuttavia qualcuno mi dice che ha segnalato la collisione. “Dovesse succedere ancora non esiti a scaricare la sua arma: serve per riportare un po’ di disciplina. Quel delinquente non era neppure provvisto di fanali, corni o fischietti. Quando gli spazi sono così stretti e tutti si accalcano, le strade diventano buie, ed è un dovere segnalare la propria posizione. Il mancato soccorso è indice di infamia. Chi ha causato lo scontro non pensa che un giorno qualche farabutto come lui possa ricambiargli la gentilezza. Lei se l’è cavata con un graffio. Lo disinfetti bene. Ma è l’offesa che non si sa mai come disinfettare.”
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Ero in Piazza delle Vigne, seduto a un tavolo con sei o sette persone. Qualcuno lo conoscevo, altri li vedevo per la prima volta. Ero stato ad ascoltarli per circa mezz’ora e non avevo detto una parola. Di colpo ho detto: “Mi rattristate. Dovrei compiangervi ma non ci riesco. Quello che sembra allietarvi mi deprime, quello che sembra rendervi felici mi annoia. Per mezz’ora ho stretto sempre più forte i braccioli della sedia perché avrei voluto colpirvi. Credo di avere le mani sbiancate. Avrei anche voluto frantumare i vostri cellulari con cui vi siete intrattenuti come foste soli. Vacue e irritanti, le vostre parole non sono le vostre, sorridete troppo, inarcate troppo spesso le sopracciglia, gesticolate. Vi sforzate di essere simpatici e appropriati secondo quel che pensate gli altri si aspettino da voi. Perché vi ho ascoltati per mezz’ora? Non solo siete vacui ma riuscite a svuotare, a sottrarre. Togliete col niente, lasciate un senso di anemia, di debolezza estrema. Forse per questo sono rimasto. Adesso non so se riuscirò ad alzarmi subito. Oltre alle mani sento il mio volto impallidire. Dovevo colpirvi prima, molto prima, ancora prima che ci sedessimo.”
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“Inutile scandagliare in questo punto, non c’è neppure acqua, solo qualche centimetro di fango che si sta asciugando. Potete spegnere e ritrarre la pompa. Qui ha piovuto poco, la pioggia ha sferzato altre zone, ma qui, per qualche strano fenomeno, si sono viste poche gocce. E il luogo non è riparato da niente, è sotto il cielo come gli altri. C’è da chiedersi… c’è da chiedersi dove lo troveremo. Le ultime segnalazioni indicavano questa zona. Tenendo conto di vari parametri, la deriva avrebbe dovuto portarlo qui. Qui avrebbe dovuto incagliarsi. Ma non ci sono neppure tracce. Neppure un filo di stoffa, un lembo di pelle, una stringa. Non c’è niente. Eppure, da quei canali e col vento che ha cambiato direzione, dovrebbe essere arrivato da queste parti. Abbiamo battuto la zona per una circonferenza enorme stringendo fino a questo punto. E non c’è neppure un pelo della piccola volpe bianca. Vero che avrebbe potuto annegare in Piazza San Matteo dove la tempesta si è abbattuta con una forza particolare. Però l’animale sapeva fiutare i punti più sicuri, trainava la rozza imbarcazione con la sicurezza e il coraggio di un vecchio capitano. Sentiva le correnti propizie e quelle a cui non bisogna avvicinarsi mai. Fiutava i gorghi e gli spigoli sommersi…. Il conducente di un elicottero sostiene di averlo visto navigare sopra il fiume d’acqua all’altezza di Via Davide Chiossone, all’incirca dove la via incrocia Vico dell’Umiltà. Ma è l’ultima testimonianza. Le ipotesi possono essere innumerevoli. Dovremmo però chiederci perché in questo punto c’è così poca acqua. Questa è la prima domanda a cui trovare una risposta, almeno tentare. Questo fango è troppo asciutto e da poco ha smesso di piovere. Nelle reti di sbarramento non è stato trovato niente. Cominciamo a spaccare la pavimentazione.”
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C’è umido, caldo umido. Il porto puzza di uova marce e cani sporchi. Sulla solita mensola i soliti piccioni combattono per il cibo. Devo decidermi a non nutrirli più. Quelle ali che sbattono, quelle beccate in uno spazio esiguo, mi irritano. Vadano altrove e si arrangino. Intorno ai tavolini di bar, ristoranti, focaccerie, per loro i resti non mancano. Ecco la campana del vespro. Ecco nel solito angolo lezioni bibliche gratuite. Qualcuno è stato quasi gentile, qualcuno è passato in rotta di collisione e mi sono scansato. Lo prendo come un esercizio di agilità: scanso e proseguo, proseguo e scanso. Mi allontano soprattutto dai sigari, dai cellulari, dai tatuaggi, dalle unghie finte – veri artigli – dalle ciglia finte – lunghissime e pesanti – dai capelli come corde arrotolate, da un odore o un altro, da un cane o un altro, da un turista o un altro. Mi guardo poco intorno perché l’occhio è allenato, la percezione scatta che è un piacere per qualcosa che dispiace sempre.
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Da qualche mese, ogni giorno, mi faccio una domanda: siamo noi che non siamo riusciti a trovarlo o era lui che si nascondeva? La situazione è quasi tornata alla normalità; i danni sono meno ingenti di quel che temevamo; le strade sono sgombere e la viabilità ha ripreso il suo normale corso; le attività commerciali sono ormai tutte riaperte; i morti, seppelliti. I dispersi restano dispersi, quasi archiviati. Anche l’uomo con la piccola volpe bianca. Eppure, io non riesco a rassegnarmi. Sento che siamo andati a un pelo dal trovarlo e non poche volte. C’è stato un momento in cui ero sicuro che lo avrei afferrato per i capelli o per i piedi e lo avrei tirato fuori: dall’alto o dal basso. E non ho mai trascurato le misure intermedie. Ho dragato un numero sterminato di edifici, scantinati, chiese, tetti, campanili, sotterranei, zone di ogni tipo. Sorvolato il mare per migliaia di chilometri. Impiegato squadre speciali terra-aria-acqua. Attraversato chilometri di fognature. Mi hanno messo a disposizione le tecnologie più avanzate. Ne ho ritrovati tantissimi che ormai venivano dati per dispersi: vivi o morti. Eppure, l’uomo con la piccola volpe bianca, l’imbarcazione di pelle e la bandierina, è scomparso. Ogni tanto qualcuno sostiene di vedere lui o l’animale. Ma le descrizioni del luogo sono sempre vaghe, inattendibili. Del resto, in una simile città, traforata da ogni genere di aperture, vera topaia o alveare, chissà dove sarà andato a decomporsi.
Genova, 2021-2022.







