
Filippo Bentivegna
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GALASSIE PARALLELE è è un’incursione nelle opere e nelle vite di artisti italiani “fuori norma”, eretici creatori di insensate e inutili bellezze, dal Novecento fino ai giorni nostri – pittori, disegnatori, scultori, musicisti, poeti, estranei a ogni canone, percepiti nell’ottica di una via non maestra, che traversa i territori della conclamata o nascosta follia. «Dietro le facciate vedere quel / che mai avrei voluto sapere, dietro / ogni facciata vedere / quel che oggi non v’è» (Amelia Rosselli). Nell’essere “inadatti alla vita” pulsa l’energia sotterranea della vita e dell’arte, e il solo modo di costruire una nuova ragione è vivere intensamente la polifonia delle non-ragioni che la nutrono, senza temerne la complessità. Gli artisti citati non sono tutti contrassegnati dai sintomi evidenti della malattia mentale ma ogni artista è stato traversato da un turbamento psichico capace di amplificare, come cassa di risonanza, l’originalità utopica del suo pensiero-opera.
In una pagina dei Ravagés (una silloge in prosa che descrive disegni immaginari di alienati), Henri Michaux descrive così la scena di un disegno che attribuisce a un pazzo: «Su una pianura liquida di grande vastità, in una piroga colossale, ponderosa, protestante, venuta dal Nord, lui sta, inflessibile e solo, solo come si può esserlo quando non si è sulla via della salvezza, quando nella zona nera il paesaggio proibito è espugnato. Intorno, l’acqua: assolutamente tranquilla, né animata né amata, un acqua pesante. Su questo piano orizzontale, dove avanzare è faticoso, come se lui si trovasse su un pendio da risalire, l’uomo del recesso, eremita dell’”Assoluto”, non mostra che la sua schiena, diritta come un muro».
L’eremita dell’Assoluto è stato il protagonista di queste mie divagazioni. «Scrivere e disegnare sono, nel loro fondo, la stessa cosa» afferma Paul Klee. Lettere e figure vivono nella stessa pulsione espressiva. Persone turbate dai traumi, desocializzate dai ricoveri, stordite dagli psicofarmaci, non dimenticano lo spazio transizionale dove i segni e le cose, il linguaggio e le forme, si incontrano. Se esiste un altrove su questo pianeta, non dobbiamo cercarlo in qualche spazio esotico e “altro” ma nei tempi interni dell’uomo, in un “arcaismo psichico del segno” di cui solo ora cominciamo a intuire le potenzialità. Privo della possibilità di “de-lirare”, il mondo si blocca e resta inerte, morto. Carico di un eccesso di “delirio”, si fissa in stereotipi oppositivi, che bloccano il movimento dell’energia psichica.
Alcune delle opere di cui si parla in questo libro non hanno trovato spazio permanente in musei dell’arte o storie della letteratura. Restano estranee, casuali. Louis Wolfson descrive, nel suo capolavoro narrativo, Mia madre, musicista, è morta, l’equivalenza del giorno della morte della madre – la sua catastrofe individuale – con tutte le catastrofi collettive possibili. Parlando del giorno di quella morte scrive: «evidentemente non so quanti milioni miliardi di nonilioni (è almeno un numero finito?) di pianeti si siano dati una vera eutanasia nucleare in quella notte tra il 17 e il 18 maggio 1977, ma la Terra non era (ancora?) sciaguratamente nel loro numero!». Il privato del dolore e la necessità di rappresentarlo si coniugano. Cosa sarebbero, le Gedichte di Trakl, senza l’ostinata ars moriendi del poeta e senza la classica struttura delle sue strofe? Gli psichiatri possono affannarsi a vergare diagnosi classificando irregolarità verbali, manierismi visivi, esasperazioni prospettiche, dentro una casella psicopatologica. Ma le opere aliene dalle vie maestre sfuggono a ogni inquadramento nella loro controviolenza simbolica, nella loro allegria iconoclasta; sono fuori dai linguaggi correnti di cui erano vittime. Sono altri caos, galassie parallele dove rotture, discordanze, formazioni simboliche, tempeste analogiche, prevalgono sull’orizzonte della ragione. «Turbolenza, a volte, è maturazione» scrive Wilfred Bion.
Certi autori, nella loro turbolenza, hanno varcato la soglia del non ritorno, fermandosi in uno stato di psicosi. Ma l’arte contemporanea, verbale o visiva, non è forse psicotica nelle sue profondità? Lenz di Buchner, Lamento di Trakl, Perturbamento di Bernhard, non si esprimono soltanto grazie al tessuto, alla trama, alla materia delle follie che narrano? Le grandi esperienze dell’arte non si producono nella normalità. Al contrario, è proprio l’avversione alla normalità e all’ortodossia a inventare nuove fantasie e ossessioni, che a loro volta inventano e progettano nuove forme.
In un trattato anonimo del II secolo D.C., Il Fisiologo, leggiamo queste parole: «C’è un mostro nel mare detto Balena: ha due nature. La sua prima natura è questa: quando ha fame apre la bocca e dalla sua bocca esce ogni profumo di aromi e lo sentono i pesci piccoli che accorrono a sciami, ed esso li inghiotte: non mi risulta invece che i pesci grandi e adulti si avvicino al mostro. L’altra natura del mostro: esso è di proporzioni enormi, simile a un’isola: ignorandolo, i naviganti legano ad esso le loro navi, come un un’isola e vi piantano le ancore e gli arpioni; quindi vi fanno fuoco per cuocersi qualcosa; ma non appena esso sente caldo, s’immerge negli abissi marini e vi trascina le navi. Se dunque tu, o uomo, ti tieni sospeso alla speranza del demonio questi ti trascina con sé nella geenna del fuoco».
E se il mondo esterno fosse instabile come il dorso di quella Balena? La vita è fragile, minacciata sempre dalla morte: ma nell’intervallo in cui scambiamo il dorso del pesce per una terra solida, l’uomo può creare, “sospeso alla speranza del demonio”, e solo sospeso in quella diabolica speranza, case e progetti e opere, nel tempo che ci separa dalla definitiva sommersione.
Leonardo ammonisce «non si debba desiderare lo impossibile» ma lui stesso non fa che cercare di “realizzare”, nell’arte, nell’ingegneria, nel pensiero, ciò che sembrava impossibile. Quindi la follia è nucleo “fecondo”, da custodire. Lo psichiatra si sente custode delle tenebre che abitano la mente degli altri, e della sua. Ma come fa, a custodirle? A trarre da quel regno notturno una luce? Disponendo la sua attenzione verso alcuni punti: la follia è un grido di libertà e ci appartiene, anche se ci esagera e deforma; è una febbre che varca sempre i limiti, inconciliabile; e ogni matto, inventando il mondo del delirio o rifugiandosi nel silenzio della depressione, scappa dal carcere del mondo e, anche se in modo scomposto e caotico, strepita il suo eccesso, nel dolore come nella gaiezza. Scrive Jacopone da Todi: «O jubelo del core, / che fai cantare d’amore! / Quanno jubel se scalda, / si fa l’omo cantare, / e la lengua barbaglia / e non sa che parlare. […] Quanno jubelo ha preso / lo core innamorato, / la gente l’ha’n deriso, / pensanno al suo parlato / parlanno esmesurato / de che sente calore». L’arte è, sempre e ovunque, lo scatto del sogno, la potenza della “riparazione”, la “lengua” che “barbaglia” il parlare “esmesurato” contro i codici innocui del discorso.
Lo scultore Chomo (Roger Chaumeaux), nella foresta di Fontainebleau costruisce il proprio Villaggio-Preludio: la Cappella dei poveri, il Santuario dei legni bruciati, l’Arca ritrovata. E ovunque affigge cartelli dove è scritto: «L’uomo ha bisogno di mistero». «L’opera d’arte serve a ricordare che ci sono altre forme di vita e altre immagini, diverse da quelle della terra. L’opera d’arte è una forza cosmica affidata alle mani dell’uomo».
Ma di quale cosmo è lecito parlare? Come osserva Giuseppe Zuccarino delle ultime prose di Samuel Beckett: «Il luogo immaginario descritto da Beckett costituisce dunque uno strano inferno. Strano non perché la condizione di chi vi si trova sia poco angosciosa, ma perché si configura come un oltretomba senza divinità ordinatrice». Nessuna divinità cosmica ordina e consola le opere dei sognatori: la vera divinità, non teologica e non teleologica, è la lucidità sonnambolica con cui si riesce a orientare le pulsioni. L’uomo che produce dei segni nel mondo vive un dream state e i momenti di veglia sono quelli in cui mette a frutto i suoi sogni. Il resto della vita è solo un impaccio a realizzare il suo progetto onirico, la sua specifica visione. Ulisse e i suoi marinai si legano agli alberi della nave con le orecchie turate dalla cera per non sentire il canto stordente nelle Sirene. Ma Ulisse ascolta, il solo ad avere le orecchie libere dalla cera. Lui sente quelle voci stregate senza sprofondare nel loro assoluto sortilegio. Si contiene fisicamente ma si lascia pervadere intimamente: di questa inequivocabile pervasione l’arte è e sarà sempre segnale obliquo e potente, preludio a qualcosa di inspiegabile, che le singole opere non risolveraano mai; al contrario, ne accresceranno il mistero.
*In Marco Ercolani, Galassie parallele. Storie di artisti fuori norma, Il Canneto editore, Genova 2019.

Henri Michaux

Chomo
(Intorno alla psiche, 1)
