Per quanto le esplorazioni spaziali siano senz’altro valide e stimolanti al fine di allargare gli orizzonti conoscitivi dell’uomo, resta valida la seguente asserzione di Proust: «Se salissimo su Marte o Venere conservando gli stessi sensi, questi rivestirebbero del medesimo aspetto delle cose terrestri tutto ciò che potremmo vedere. L’unico vero viaggio, l’unico bagno di giovinezza, sarebbe non andare verso nuovi paesaggi, bensì avere altri occhi, vedere l’universo con gli occhi di un altro», e questo ci è possibile farlo solo tramite le opere dei grandi artisti.
«Il nostro io è formato dalla sovrapposizione dei nostri stati successivi. Ma essa non è immutabile come la stratificazione di una montagna. Di continuo dei sollevamenti fanno affiorare in superficie gli strati antichi». L’esattezza dell’osservazione proustiana trova conferma, più ancora che nella vita diurna, nei sogni notturni.
Un critico ha il dovere di essere anche filologo, ma nell’accezione data al termine da Nietzsche: «Per filologia, in un significato molto generale, si deve intendere l’arte del leggere bene – di saper cogliere i fatti senza falsificarli con l’interpretazione, senza perdere, nel desiderio di comprendere, la cautela, la pazienza, la finezza».
Quando capita di attraversare periodi più o meno lunghi di agrafia, ci si riconosce in ciò che ha annotato Peter Handke: «Per lo scrittore ogni frase che scriveva e con la quale avvertiva anche la spinta alla possibile prosecuzione era diventata un avvenimento. Ogni parola che, non parlata, bensì in forma di scrittura, annunciava la prossima, gli faceva tirare un sospiro di sollievo».
Handke ha ragione quando, in un suo volume, contrappone alle cosiddette pagine di cultura dei giornali un diverso tipo di critica, che «è un’arte a sé – la scoperta di un punto cardinale commisurato al suo oggetto che si può chiamare anche “visione” e il coscienzioso sviluppo di questa visione».
«I libri sono come due porte che si aprono contemporaneamente» (Quignard). Lo spazio a cui danno adito dipende in parte dai libri stessi e in parte da noi, che possiamo scegliere se fermarci sulla soglia oppure penetrare all’interno.
Nello scrivere, ci si trova sempre di fronte alla necessità di rileggere e correggere molte volte i propri testi prima di considerarli conclusi. Chi aspirasse a una stesura priva di ostacoli, capace di raggiungere subito la forma definitiva, mostrerebbe di non aver compreso la natura stessa del processo scrittorio. Cadrebbe dunque nel medesimo errore che Kant denuncia attraverso un’immagine, quella dell’«uccello che pensa di poter volare più liberamente in uno spazio privo d’aria. Certo l’aria non gli farà resistenza, ma non potrà nemmeno spostarsi, perché è proprio l’aria che gli rende possibile volare».
In una lettera del 1847, Baudelaire proponeva alla madre di vedersi al Louvre perché, oltre a presentare altri vantaggi, «per una donna è il luogo d’incontro più decoroso». Ben diversa, però, era l’impressione ricevuta da una professionista del sesso, per nulla avvezza alla frequentazione dei musei, alla vista dei nudi artistici. Infatti il poeta si ricorda, in Mon cœur mis è nu, di «Louise Villemain, puttana da cinque franchi, che accompagnandomi una volta al Louvre, dove non era mai stata, si mise ad arrossire, a coprirsi il volto, e tirandomi a ogni momento per la manica mi chiedeva, davanti alle statue e ai quadri immortali, come si potessero esporre pubblicamente simili indecenze».
Oltre ad essere un grande fotografo, Nadar era appassionato dei voli col pallone aerostatico. Avendone programmato uno in Belgio, aveva pensato di invitare Baudelaire – il quale, all’epoca, si trovava in quel paese – a fargli compagnia. Per un attimo il poeta, che detestava i belgi, pensò di accettare. Scriveva infatti in una lettera del settembre 1864 da Bruxelles: «Se per caso fossi ancora qui il 25, cosa alquanto dubbia, partirei con Nadar che mi ha gentilmente offerto un posto nella sua navicella. Fuggire questo sporco popolo in pallone, andare a ricadere in Austria, o forse in Turchia, tutte le follie mi piacciono purché mi sottraggano alla noia». Qualora il viaggio di Baudelaire si fosse realizzato, egli avrebbe avuto modo di scriverne il resoconto, rendendo così indirettamente omaggio a Edgar Allan Poe. Quest’ultimo, infatti, vent’anni prima aveva pubblicato su un giornale di New York un racconto immaginario – presentato però come notizia di cronaca – riguardo a una trasvolata oceanica compiuta in pallone dalle coste inglesi al nuovo continente. Inutile dire che i lettori americani del quotidiano, fino alla successiva smentita, erano caduti nella trappola, credendo si trattasse di un fatto vero.
«Scienza con pazienza, / Il supplizio è sicuro», scriveva Rimbaud. Ma se per «scienza» si intende semplicemente lo studio, allora in certi casi può essere vero l’inverso, ossia che scienza e pazienza danno un senso alla vita.
È vero che nello scrivere può esserci una piccola parte affidata all’occasione, alla casualità, al gioco, ma ciò non deve mai distogliere da quella che Elias Canetti, pensando a Kafka, definiva «l’incommensurabile serietà che l’ossessione per la scrittura possiede».
Parlando del modo di interpretare (ossia di eseguire) un’opera musicale, Nietzsche evidenzia un paradosso di portata più ampia. Osserva infatti che «quel che è “sbagliato” lo si può stabilire in innumerevoli casi, quello che è giusto quasi mai». Infatti egli considera falso «il presupposto […] che in generale ci sia una, vale a dire una sola interpretazione giusta». Detto ciò, il filosofo allarga il discorso in modo da includere anche gli scritti letterari, e conclude dicendo che «non esiste un’unica e autentica interpretazione, né per i poeti, né per i musicisti». Questo non esime un critico dal compito di proporre una lettura personale dei testi – o di obiettare, se necessario, alle interpretazioni altrui quando non gli appaiono convincenti –, ma egli dovrà mantenere una chiara coscienza del fatto che quella da lui avanzata non sarà mai la sola interpretazione corretta.
Scriveva Kafka: «Sull’impugnatura della mazza di Balzac: Io spezzo tutti gli ostacoli. Sulla mia: Tutti gli ostacoli mi spezzano». Ma per quanto il culto della volontà del narratore francese e l’umoristica autocommiserazione di quello praghese siano significativi in rapporto alle loro opere, chi non somiglia a nessuno dei due farebbe bene a rinunciare al bastone da passeggio, dunque anche al motto (qualunque sia) inciso su di esso.
«Forse egli non lascerà dietro di sé che un ammasso informe di frammenti intravisti, di dolori spezzati contro il Mondo, di anni vissuti in un minuto, di costruzioni incompiute», annota tristemente in terza persona il giovane Valéry. E nondimeno aggiunge subito una frase strana e poetica: «Ma tutte queste rovine hanno una certa rosa».
Negli appunti per un articolo rimasto incompiuto, Baudelaire ricorre a una formula sintetica: «Ritratto del vero critico. – Metafisica. – Immaginazione». Poiché il vocabolo «metafisica» può essere interpretato in maniere differenti, il poeta chiarisce che intende riferirsi semplicemente allo «spirito filosofico». Alla luce di questa precisazione, diviene possibile affermare che il ritratto, da lui proposto, del «vero critico» conserva la sua validità.
Scrivere un saggio è sempre una piccola avventura, che implica la necessità – e il piacere – di aprirsi uno stretto passaggio entro il fitto bosco dei libri, antichi e nuovi. Un bosco in cui i rami degli alberi non restano inerti, ma si spostano, come quelli della foresta di Birnam nel Macbeth shakespeariano.
Sia che si commenti direttamente un testo, sia che si esamini la lettura che di esso è stata fatta da altri, il confronto col punto di partenza resta sempre necessario e istruttivo. Infatti, citandolo o perlomeno tenendolo sempre presente, «si avrà modo di vedere se ciò che si vuol far dire al testo può essere confermato da esso. Certo, una delle correnti della moda attuale permette al “commentatore” di tramutarsi in libero improvvisatore e di affermare qualsiasi cosa a partire da un testo dato, ma nondimeno quest’ultimo, per quanto malmenato, conserva intatta la facoltà di smentire. È sufficiente, ancora una volta, tornare al testo per sapere dove cominciano le proiezioni, i fantasmi, le manipolazioni arbitrarie attuate dal lettore abusivo» (Jean Starobinski). Naturalmente, chi si dedica a una tale verifica nei riguardi degli altri interpreti deve essere cosciente del fatto che, prima o poi, qualcuno sottoporrà i suoi stessi scritti al medesimo esame, evidenziandone le manchevolezze.
A commento dei propri versi dal titolo Alla sua donna, Leopardi scriveva: «L’autore non sa se la sua donna (e così chiamandola, mostra di non amare altra che questa) sia mai nata finora, o debba mai nascere; sa che ora non vive in terra, e che noi non siamo suoi contemporanei; la cerca tra le idee di Platone, la cerca nella luna, nei pianeti del sistema solare, in quei de’ sistemi delle stelle. Se questa Canzone si vorrà chiamare amorosa, sarà pur certo che questo tale amore non può né dare né patir gelosia, perché, fuor dell’autore, nessun amante terreno vorrà fare all’amore col telescopio». Curiosamente, un’immagine simile (ma assai più smaliziata) si ritrova in una nota scritta, e poi cancellata, da Baudelaire. La nota, che fa riferimento alla poesia Les Yeux de Berthe, avrebbe dovuto essere falsamente attribuita all’editore di Les Épaves, Auguste Poulet-Malassis: «Noi crediamo di aver sentito parlare di questa signorina Berthe. Ha senza dubbio delle virtù, senza contare la fede, ma soprattutto quella che è il contrario della castità. È vero che i poeti possiedono occhiali e telescopi particolari, che consentono loro di vedere ciò che gli altri uomini non vedono».
In apparenza, quando il critico affronta i testi poetici, li tradisce, spezzando o trascurando la loro musica verbale. Ma si tratta di un sacrificio necessario, dal momento che, come asserisce Walter Benjamin, «critica è l’esposizione del nucleo prosaico in ogni opera».
Esiste una sostanziale concordanza tra la scrittura frammentaria e il procedere desultorio (con accelerazioni e rallentamenti) dell’esistenza individuale. Pertanto, «conviene infrangere la fissità del linguaggio e accostarci al nostro discontinuo fondamentale» (Barthes).
Anche quando sembra che dai vivi non ci sia più molto di buono da attendere, restano altre risorse. Lo ricorda Celan: «I morti: non hai dunque una memoria in cui li custodisci, dove ti rimangono presenti, parlando e tacendo, stando con te e contro te, esercitando fedeltà e tradimento, corteggiati ed evitati, vicini e lontani e in tutte le stazioni tra lontananza e vicinanza?». Ovviamente non si tratta solo delle persone scomparse che abbiamo conosciuto in vita, ma anche di quelle, ben più numerose e preziose, delle cui opere possiamo continuare a nutrirci.
(2024)

Cy Twombly, Untitled, 1962
(Frammenti, 1)
