RISVEGLIO

Cornel Woolrich (1903-1968), noto anche con gli pseudonimi di William Irish e George Hopley, è l’autore di diversi romanzi neri, da L’incubo nero a La donna fantasma, da Il sipario nero a Vertigine senza fine, da Si parte alle sei a La notte ha mille occhi, da cui spesso sono stati ricavati thriller minori ma inquietanti. Da un suo racconto inedito Awakening (Risveglio), Robert Siodmak avrebbe voluto ricavare un film dal titolo provvisorio Murder in the night, ma il film non venne mai girato per contrasti con i produttori.


Mi sveglio e allungando il braccio a sinistra sfioro qualcosa di umido. Accanto alla mia mano, nel lenzuolo tiepido, una macchia – le mie dita si muovono lentamente. E’ una macchia fredda, di consistenza vischiosa. Nessun dubbio: è sangue. Mi giro e vedo, giovane e nudo, il cadavere di una donna. Dimostra meno di trent’an­ni. È snella, quasi magra, il pugnale affondato per parecchi centimetri sotto il seno sinistro. Il capezzolo eretto, per il rigor mortis. Il manico dell’arma è ricurvo, marrone chiaro. Il corpo giace supino nel mio letto, le cosce pudicamente accostate. Gli occhi sono severamente chiusi, le labbra rosee, non ancora cianotiche. Qualche goccia di sudore sulla fronte, sotto la frangia nera dei capelli. Orecchie piccole, naso appuntito, mento regolare. Le guance terree, con gli zigomi in rilievo. Non ho mai visto questo volto. Mi è perfettamente estra­neo.

Mi alzo, mi accosto alla porta, abbasso la maniglia. Inutile. La porta è chiusa. Gettato sopra un tavolino, un mazzo di chiavi: le mie. Le riconosco. È sconcertante, impossibile. Perché mi sarei chiuso a chiave nella mia stanza se avessi avuto la necessità di nascondere un delitto così evidente? La finestra è aperta. La spalanco tutta, il giardino è chiaro, inondato dal sole. Dorothy e Terry ridono, mi fanno cenno con la mano. Il castagno stormisce, nell’aria fresca. Cosa sta succedendo? Sono assolutamente certo che quegli esseri in fondo al giardino, così sereni e felici, sono mia moglie e mio figlio? Oppure, sapendo di essere qui, con un cadavere al fianco, devo crederli due fantasmi? E Sonny? Dov’è Sonny, il mio primo figlio? Perché non mi saluta con loro? È partito? È scomparso?

La donna giace morta a pochi centimetri da me. Nella stanza siamo soli: io e lei. Questa realtà è incancellabile dagli occhi. L’ho uccisa io: non può esserci un altro assassino. Guardo davanti a me. Una porta. La porta della mia stanza. La riconosco con orrore. Se almeno fosse diversa! Se avesse la maniglia arrugginita, gli infissi scrostati! Potrei dire: ho preso in affitto la stanza di uno squallido motel, ho amato una puttana, di cui non ricordo niente, e in un accesso di furore o di rimorso l’ho uccisa. Ma non è andata così. Sono nella mia stanza. E là, nel mio giardino, come ogni giorno di primavera, Dorothy gioca con Terry e Terry strilla, cade dall’amaca… Almeno, così credo. Ma se fossero passati molti anni da quelle felici primavere? Se entrambi fossero morti un incidente che adesso non ricordo e se quelle che vedo laggiù fossero proiezioni della mia mente? Io sono rimasto solo. Mi ubriaco, passo la notte con le prostitute, e una di loro giace qui al mio fianco, il corpo immobile e insanguinato. Abbasso la mano, sfioro l’avam­braccio. Non è freddo. Non ancora. La pelle non è rigida. Guardo le palpebre, un po’ scure sopra gli occhi invisibili. Meno di trent’anni. Accarezzo i suoi capelli lisci e neri. Il sangue si è ormai coagulato. La ferita è un alone scuro. Osservo la bocca sottile: non si aprirà più. Guardo il manico del pugnale. Sono proprio io ad aver vibrato il colpo decisivo dentro questo corpo?

Non devo fantasticare. Forse questa morta, che i miei sensi percepiscono come corpo reale, è la figura di un sogno: riaddormentandomi la cancellerò. Accadrà certamente così. Mi sdraierò accanto a lei, toccando per l’ultima volta il suo fianco freddo, poi chiuderò gli occhi. Qualche minuto dopo svanirà il coltello; quindi la macchia viola nel petto, i seni, la bocca, le cosce. Più affonderò nel sonno e più il corpo dell’uccisa, livido e reale al mio fianco solo per la forza del sogno, ripiomberà nell’inconscio, ritornerà semplice fantasia. E io sorriderò, svegliandomi marito e padre felice. Chiudo gli occhi. Mi costringo a dormire. Ma i miei pensieri sono incubi. Cosa vedrò veramente al mio risveglio? Sarà il corpo della morta la cosa che sparirà dal letto, restituendomi al sorriso di Dorothy e ai giochi di Terry? O non svanirà invece il giardino luminoso e io sarò qui, nella mia vera stanza, squallida tana di motel, tappezzeria grigia e moquette polverosa, lampadi­na nuda sul soffitto scrostato, fissando gli occhi sulla porta chiusa a chiave, aspettando l’inevitabile sirena, l’irrevocabile arresto, l’ineluttabile condanna, perché accanto a me c’è il corpo di una prostituta che non respira più, il coltello conficcato nel seno sinistro…

Un ronzio mi distrae da questo pensiero. Alzo gli occhi. In alto, nell’angolo destro del soffitto, vedo una telecamera. Da quanto tempo è in funzione? Da quante ore registra quello che accade nella stanza? Il ronzio si attenua, poi si spegne. Il film è finito. Sento un piccolo scatto. Qualcuno ritira la pellicola. Chi ha diretto la scena? Chi ha visto? Lì, in quelle poche bobine, è racchiusa la mia verità: il crimine che ho commesso o l’incubo che mi ha tormentato, il mio delitto o la mia innocenza. Dentro quei fotogrammi è registrata la realtà del fatto. Chi ha diretto la scena? Chi ha visto? Chi è il regista?

Devo restare. Aspettare.

*I testi sono tratti da: Marco Ercolani, A schermo nero, QuiEdit, Verona 2010

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