CESARE

*Il testo è tratto da: Marco Ercolani, A schermo nero, QuiEdit, Verona 2010

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L’enigma della Nichtstrasse

Interno giorno. Atrio deserto. Porta a vetri di un commissariato. Oltre il vetro il profilo di un uomo seduto, massiccio, che fuma. Davanti a lui, un altro uomo, magro, gesticolante, prende la parola.

Mi ascolti, commissario Kunz. Deve ascoltarmi. Io sono stato testimone di un assassinio. E’ accaduto poche ore fa, all’angolo della Luferstrasse. Le racconterò ogni dettaglio, senza omettere nulla. Ma smetta di impartire ordini, di timbrare fogli. Mi conceda tutta la sua attenzione. Ecco, mi guardi negli occhi. Così.

Io abito al numero 14 della Nichtstrasse. Vivo solo, mia madre è morta da tre mesi. Quando mi annoio, verso sera, guardo i passanti dalla finestra e faccio scorrere il tempo. Guardare mi libera dal peso delle ore e dal malessere della noia. Così è accaduto stasera. Mancavano dieci minuti alle otto – l’ora in cui la strada si svuota e i negozi cominciano a chiudere – quando vidi una donna. Era giovane e alta, maglione blu e gonna scura. Camminava con una certa fretta, il passo leggero e svelto. Mi piacque subito: non aveva nulla di calcolato o di prudente. Quella donna non aveva il cuore pieno di sospetto e di paura, come tutti gli abitanti della Nichtstrasse. Avrei voluto essere al suo fianco. Ad un tratto le si accostò un uomo, obbligandola a fermarsi. Era un tipo magro, alto, dalla faccia indefinita. I due confabularono, come se si conoscessero. Il volto di lei, da sereno che era, si fece teso. Lui la afferrò per un braccio. Lei gridò. Quello, infuriato, cercò di stringerla a sé. Presentii qualcosa di orribile e scesi a precipizio. Varcato il portone, udii un gemito. Oltre la schiena dell’uomo, fra le sue gambe arcuate, vidi due piedi afflosciarsi, poi giacere inerti. Cosa succede? urlai. L’individuo si voltò con la lentezza di un sonnambulo. Benché fosse un viso comune provai, guardandolo, un orrore inspiegabile. «Io sono Cesare – bisbigliò. Dopo un tempo eccezionalmente lungo – ma forse furono pochi secondi – l’uomo incurvò le spalle e si slanciò nella fuga. Intravidi, nell’attimo in cui spariva, il cadavere della donna, riverso sul marciapiede, la faccia livida. La strada era deserta e le finestre chiuse. Nessuno si era accorto di nulla. Al tonfo di un bidone, mi voltai. L’assassino saliva un vicolo ripido. Correva. Lo seguii senza esitare. Pur ansimando, non lo persi di vista. Era sempre più buio. Dovevo raggiungerlo e fermarlo: l’omicida doveva pagare per il suo delitto. Ma fuggiva troppo velocemente per me. Urtò delle scatole vuote, sfiorò un muro. Continuava a scappare. Dietro di me, come un brusìo, salivano altre voci. Ora la sua schiena era a pochissimi centimetri. Vedevo la camicia bianca, fradicia di sudore. Stavo per afferrarlo ma sgusciò via. Correva ancora, sentivo il suo respiro affannoso. Un bidone vacillò. Correvo anch’io: le voci crescevano, sempre più forti. Sfiorammo la porta di un’osteria. Un uomo, la faccia ossuta, baffi e capelli lunghi, ci guardò senza stupore. L’assassino era sempre più lontano. Non riuscivo a fermarlo eppure correvo a perdifiato. E dietro di me, altri correvano con me. Ero il primo inseguitore. Nessun dubbio. Ormai era in trappola. La strada sempre più buia, le voci assordanti, il rimbombo dei passi. Forse lo avrebbero linciato. Le nostre ombre quasi si toccavano. Era eccitante. Una questione di vita o di morte. Ormai non aveva scampo. Imboccato un vicolo senza uscita, sgusciò dentro un portone. Lo seguii, era allo stremo. Il luogo mi apparve stranamente familiare. Ringhiera umida, un odore di pesce che stagnava nell’aria. Parecchie ombre tagliarono l’atrio dietro di me. Un clamore di voci. L’assassino si fermò al terzo piano e si guardò attorno. Non aveva più scampo. Fece un gesto osceno, levò il pugno e aprì una porta, dietro la quale sparì.

Io spalancai la porta, che non aveva chiuso a chiave, ed entrai. Un silenzio inatteso mi sorprese. Respiravo con affanno. L’unico rumore che percepivo era il rumore, affannato, del mio respiro. Mi trovavo in una stanza deserta: l’ingresso era stranamente familiare. Guardai cucina e bagno, soggiorno e camera da letto. Le altre stanze erano vuote. Nessuno. Ma quei luoghi – i mobili, le finestre, le porte – mi sconcertavano, come se li avessi visti da sempre. Poi riconobbi un soprammobile. Poi, sopra un comodino, vidi una foto: LA MIA. Quella era la mia casa. Il clamore, alle mie spalle, divenne frastuono. Molte mani picchiarono alla porta, urlando «All’assassino! All’assassino!». Allibito, cercai l’uomo che inseguivo. Scomparso. Niente in tutte le stanze. Non trovai nulla. Mi presi la testa fra le mani. I rumori crescevano. Tremai, persi conoscenza…

L’epilogo, lei lo conosce meglio di me, commissario. La porta venne forzata e io imbavagliato, percosso, quasi linciato. Fu la sua voce a salvarmi: il suo ordine di non sfiorarmi con un dito. «Ci penserà la polizia. Sgombrate tutti!». Fui spinto nel cellulare e portato fin qui. Ma lei deve credermi, signore. Io non ho ucciso quella donna. Non avevo nessuna ragione per commettere un crimine così assurdo e spietato. Io sono un uomo mite, un impiegato tranquillo. L’assassino era l’altro, era l’essere magro e sbilenco che entrò nella mia casa prima di me e che un secondo dopo era svanito misteriosamente. Perquisite ancora il mio appartamento, centimetro per centimetro. Deve essere laggiù, nascosto non so dove. Non era uno spettro, l’ho quasi toccato…

Non archivi il caso giudicando le mie parole la confessione di uno squilibrato. Sarebbe troppo facile. La reputo abbastanza intelligente, commissario, per non accontentarsi di una verità così a buon mercato. Cerchi ancora. Non creda, accusando me, di liberarsi facilmente dal dubbio che la mia confessione, ora, ha appena instillato nel suo cervello. Trovi il vero assassino, trovi quel CESARE, dovesse costarle la carriera e la credibilità. Fra pochi giorni, forse, in tutta Berlino, uomini insospettabili si renderanno colpevoli di efferati delitti e allora lei ricorderà le mie parole… Se invece resterà incredulo e io sarò giudicato colpevole di questo delitto, non basterà il peggior castigo, commissario Kunz, a lenire il suo rimorso.

Conrad Veidt (Cesare, ne Il gabinetto del dottor Calligari)

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