ORDINE E CAOS. Marco Ercolani

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Il nuovo libro, che le edizioni Joker pubblicano nel 2024 per la sezione “Memoria del viaggio”, è Alejandra Pizarnik-Leòn Ostrov, Lettere 1955-1966. Il volume, tradotto da Antonio Di Gennaro e Monica Liberatore, è il carteggio, scritto a Parigi, tra Alejandra e il suo ex-psicoanalista, Leon Ostrov, ed è curato dalla figlia del terapeuta, Andrea Ostrov. Mi piace iniziare la mia nota di lettura con un ricordo di Alejandra scritto da Leòn Ostrov e presente nel libro: “Venticinque anni fa – era la metà del 1957 – una donna mi telefonò per chiedermi un appuntamento. La prima prima impressione, quando la vidi, fu quella di un’adolescente, a metà fra l’angelico e il bizzarro; mi colpirono i suoi grandi occhi chiari e terrorizzati e la sua voce profonda e lenta… Alejandra di solito mi portava una poesia, pagine del suo diario, un disegno (aveva iniziato a frequentare il laboratorio di Batlle Panas) E ora posso dirlo: era impossibile per me sottrarmi al piacere estetico che la sua lettura, la sua visione mi procuravano, e a volte, se non dimenticato, il mio lavoro di analista era rimandato, come se fossi entrato nel magico mondo di Alejandra, non per esorcizzare i suoi fantasmi, ma per condividerli e soffrire e gioie di essi insieme a lei. Non sono sicuro di averla sempre psicanalizzata; so che Alejandra mi ha sempre poeticizzato”.

Ovviamente, questo scambio di lettere si svolge dopo la fine del rapporto terapeutico fra Alejandra e Leòn, del quale resta solo una profonda, tenace, reciproca amicizia. Alejandra, grande e seduttiva scrittrice di lettere e di diari, in un certo senso è una scrittrice “oscena” e tenerissima, che non smette di offrire all’interlocutore la sua interiorità torturata, che ha l’esigenza di dire tutto, oltre ogni regola. Questo carteggio ne è il nitido esempio. “La mia vita procede qui, con alti e bassi, la solita alternanza di speranza e disperazione. Desiderio di morire e di vivere. A volte mi divora l’ordine, a volte il caos. Credo che attualmente sia quest’ultimo. Forse è per questo che le scrivo. […] La mia vita è quindi un’evocazione di ombre. Vedo altre persone, cerco di uscire, mi costringo ad andare al cinema, a teatro. Inoltre, dalla settimana scorsa, ho un amante. Un amante che mi rende felice” (Lettera 10, 27/12/1960). O più oltre: “È inutile spiegare i miei silenzi. Dentro di me c’è sempre un’attesa primitiva di un cambiamento magico. (Una notte gli specchi si frantumeranno, cancellando colei che fui, e al mio risveglio sarò l’erede del mio cadavere). Sono così stanca delle mie vecchie paure e dei mmiei terrori che non oso comunicarli o raccontarli. Ricorda la mia frase o il refrain di tutti i miei diari: ‘Penetrare nel silenzio?’ […] La verità è che sono disperata. Ma è una questione di vita o di morte. Devo creare belle poesie e popolare il mio silenzio di voci” (Lettera 11).

Leggere Alejandra Pizarnik fa rabbrividire perché le sue parole ci consentono di frantumare la penultima maschera che protegge l’io e di sprofondare nell’abisso, come uomini e poeti, e immergersi è pericoloso perché non c’è mai la garanzia di un ritorno. Ma Alejandra è armata di un coraggio assoluto. Non smette di vedere se stessa dentro le acque più profonde e non smette di essere poeta. In questo carteggio tra lei e chi la curò c’è un’atmosfera di assoluta confidenza, come è raro vedere. Alejandra, libera anche dal vincolo terapeutico, diventa essere totale e creaturale, “cuore messo a nudo” aperto al dialogo con le parti più luminose e più oscure di sé: “C’è nebbia sull’acqua e sole sulle vetrate di Notre-Dame. E vedere al mattino, mentre mi reco al lavoro uno spettacolo così meraviglioso, e anche la pioggia, e persino questo cielo autunnale completamente grigio – così in sintonia con quello che sento – questo cielo che amo molto più del sole, perché a dire il vero non amo il sole, in verità amo questa pioggia, questa tristezza che c’è fuori” (Lettera 9). Naturalmente, anche se il rapporto terapeutico è finito, all’amico Leòn Ostrov confida che la psicoterapia con lui è stata una forma di conversazione e non sa se le sia giovata o no. Però ammette che il suo corpo si è snellito e mutato in modo stupefacente, e le sue mani non sono più quelle di prima. Alejandra non smette di delirare se stessa poeticamente, anche in presenza di chi avrebbe dovuto lenire la sua sofferenza psichica. Non smette di scrivere intimamente a Leòn dicendogli, nell’ultima lettera “quanto mi hanno emozionato quanta gioia ho provato ascoltando le tue parole, così calde, così belle, così rassicuranti – qualcosa come un fuoco in una notte inverno, (‘un feu pour vivre mieux’)“ (Lettera 21). Le vie della terapia sono ricche e stimolanti come le vie della poesia. Alejandra si è curata attraverso le parole e la presenza di Ostrov, anche se questo non è bastato per guarirla o per salvarla dal suicidio. Il vero dolore è inconsolabile. Restano le sue parole, a dirci del viaggio compiuto. Le parole di questo carteggio con chi la protesse e fu affascinato da lei. Come le parole di Alejandra nel “Diario” di giovedì 28 aprile 1960, quando scrive: “Se mi avessero chiesto: vuoi andare al freddo, verso l’ignoto, a ciò che abbandona e sconvolge, a ciò che da fame e sete e voglia di abbracciare qualcuno che sia poco più di un’ombra, poco più di un po’ di niente? Allora io avrei detto no”. Quel no è diventato il sì potente della sua sradicata, infelice, irripetibile poesia, che ha saputo dare l’ordine visionario della parola al caos della sua esistenza terrena.

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