
Pensare l’oltre
Dove ritaglio e rivoglio parole da questo tedio mi riprovo ancora, acrobata (L.P.)
1.
Nell’estate del 2005, parlando con Stefano Massari e Gabriela Fantato, avevo pensato a una breve antologia di giovani poeti che hanno interrotto la loro vita. Non volevo promuovere un’apologia romantica del suicidio o inventarmi un nuovo marketing della morte volontaria, né mi interessava, pur essendo psichiatra, il valore testi moniale della sofferenza psichica. Mi incuriosiva e mi incuriosisce guardare dove oggi è troppo facile distogliere la vista. In tempi di eccellenti versificazioni tecniche, con i poeti che si autonominano esegeti della loro carriera, attenti alla segnalazione nel prossimo pre mio locale o alla presenza nella futura antologia dei “migliori”, a me piace puntare lo sguardo su qualche minima verità, almeno per il tempo di dire quello che è urgente dire. Morire, naturalmente, non è meglio di vivere. Ma chi interrompe la sua vita e ha a che fare con la poesia, deve vivere una doppia in candescenza: quella del suo dolore personale e quella della voca zione poetica. La poesia, come la vita, non immunizza e non protegge: espone. Ci consente di usare il linguaggio come una bomba innescata e non come un abito da cerimonia. Questo ci insegnano i poeti disperati e “imperfetti” che si sono tolti la vita, da Beppe Salvia a Nadia Campana, da Giuseppe Piccoli a Remo Pagnanelli, da Vin cenzo Reta a Lorenzo Pittaluga: non si tratta di un cimitero di lapidi spente ma di un semicerchio di fuochi sempre accesi. È ancora possibile che chi soffre troppo insegni qualcosa a chi soffre poco e gli suggerisca che l’assenza di dolore non è un’insperata fortuna ma, talvolta, un’assenza di passione vitale.
Se questo è un tempo difficile per la poesia, lo è per viltà e miseria morale: la maggioranza dei poeti non inventa e non custodisce. Le lettere di Marina Cvetaeva, gli aforismi di Paul Celan, le prose di Amelia Ros selli, non erano l’elenco dei prossimi libri da stampare ma il segno, ardente ed esatto, che a loro, poeti del loro tempo, toccava un compito, che resta identico nei secoli: custodire la poesia come cosa ur ticante, aspra, inattuale. Le vite interrotte dei giovani poeti lo testi moniano ancora, benché sia forte il rimpianto per le loro opere future, rese impossibili dalla morte fisica. Ma questo conta meno. Pur non promuovendosi sul mercato letterario (quando mai lo hanno fatto?), questi poeti tengono acceso il fuoco che serve a noi per vivere ancora la poesia come stupore per la parola. Né noi né loro siamo diventati classici da an tologia, licheni da museo, argomenti per tesi di laurea. Ma di quella dolorosa energia e di quel tragico destino, che in certi casi può essere chiamato follia, non dobbiamo e non possiamo fare a meno.
Questa consapevolezza mi spinge a tratteggiare il destino di Lorenzo Pittaluga, che ha traversato arte e follia con uguale intensità, e con il quale la mia vita di scrittore e di psichiatra si è incrociata per undici anni. Con lui ho condiviso da sempre “insensate voglie di / uomini insofferenti / all’ordinario fluire / delle cose”.
La poesia di Pittaluga ci sorprende per la sua voce intima e sur reale, dalle continue variazioni timbriche. I versi non si appagano di una forma compiuta e ripetibile: sono alla continua ricerca di un vaso nuovo che li contenga, di una forma anche bizzarra che ne giu stifichi l’apparire. Nell’incessante incresparsi di forme abita l’origi nalità, e l’inclassificabilità, di queste “costellazioni” di parole. Dovrei dire: esiste una voce tragica ma questa voce non ha ancora trovato la gola, il palato, la bocca in cui formarsi per prendere vita, perché è alla ricerca di una bocca in cui risuonare. “Una glottide per / con servarla / nel cosmo” – ci ricorda Paul Celan. Bisogna tener ferma la glottide, non dimenticarla: quello è l’organo della fonazione, lo strumento. E conservarla nel cosmo significa non smettere mai di pensare il soggetto poetico come un io di carne che sussulta verso l’infinito, che percepisce fantasmi.
La misteriosa affabilità del dettato, frantumato e febbrile, esige un ascolto complice. In Pittaluga la vena grottesca, alla continua ricerca di soluzioni espressive, si me scola alla struggente nostalgia di un tu sognato. Il lettore riconosce un filo ma si smarrisce con l’autore, ritrovando tracce del suo smar rimento nel capriccioso annodarsi e snodarsi dei versi. Questa poe sia ironica e visionaria, dalla sintassi discontinua e sonnambolica, ha abolito i nessi del discorso. Ma il discorso continua ad esistere, in filigrana, alla ricerca di una comunicazione – affannosa, maltrattata, confusa – ma perentoria nell’infelice squilibrio, nella scomoda asim metria. Dove, come ricorda Alberto Cappi, “l’io si rende talmente poroso e leggero da inventarsi parola”.
2.
Lo psicoanalista Paul-Claude Racamier osservava: “il delirio è le lacrime dello schizofrenico”, e forse per Lorenzo la poesia è proprio questo: un’allucinazione-lacrima espulsa nella pagina grazie alle parole. Scrive Sinisgalli in Furor mathematicus: “Si potrebbe dire che al cuni versi sono stati scritti dal cadavere del poeta come certi testa menti apocrifi. Il poeta deve fingersi un universo immobile, un mondo vuoto, una piaga che confina col silenzio e col buio. Il rumore della penna sula carta deve bastare a scuotere i fantasmi”. Pittaluga non compone poesie che restano nella memoria con versi precisi o pensieri coerenti ma costruisce “macchie di parole”, capricci mutevoli abitati dal linguaggio. La sua scrittura è ininterrotta e inconsumabile. Lorenzo potrebbe scrivere in mezzo ai rumori più assordanti, trovando la sua voce anche fra mille parole, immerso nella sua serendipità. In un romanzo di Horace Walpole il principe di Serendip è il favoloso scienziato che, solo casualmente, fa scoperte di eccezionale importanza. Così Lorenzo, autore di versi ermetici non immuni da virtuosismi linguistici e manierismi fonetici, è anche il costruttore di sorprendenti edifici sintattici che, proprio dal loro impossibile equilibrio, traggono, come bizzarre sculture di vetro, una solidità indefinibile. Questa poesia si dipana con una sintassi ellittica, che abolisce i nessi logici. Ma il discorso continua ad esistere, in fili grana, alla ricerca di una comunicazione costante, in bilico fra stra lunatezza e cantabilità. Pittaluga scopre, come in trance, anche distorto, un senso affettivo: lo scopre nelle parole come un tesoro dimenticato. Qui si svela la sua piena originalità: quando, da un tessuto poetico criptico, ricava una confessione intima – “sino a cogliere da questa frammentata scrittura / la voce che apprendi nell’interesse che tu vuoi”, la sua poesia sorprende per la felicità espressiva: dalla trama fluttuante di una lingua in metamorfosi si staglia una parola limpida e decisiva, simile a certe stelle dentro una nebulosa galassia di sensazioni. Disincantato nello sviluppo onirico delle immagini, sorprendentemente naif in alcuni arcaismi lessicali, impudicamente sentimentale in certe “appoggiature” della voce, Pittaluga non è mai immerso totalmente nella sua materia linguistica, nella sicurezza della soluzione poetica, nella versificazione risolutiva, ossessivamente convinto che la “necessità” di cambiare rotta domini sull’esemplarità del testo compiuto. Orgogliosa della sua ermetica compattezza verbale, la parola di Lorenzo insegue quella sosta che il flusso ininterrotto dei versi le nega. Non può mostrarci, se non per rapide ellissi, il silenzio conso lante di quella tregua, la remota possibilità di una vita reale, sempre allontanata e temuta: una vita, alla fine, isolata dentro il guscio di una sintassi stravolta, oscurata da parole straniate e astratte, simili a cortine fumogene.
3.
Ho condiviso, da psichiatra, nel mio rapporto con Lorenzo, la sua difficile vita quotidiana, restia a ogni compromesso con la nor malità dell’esistenza. Rifiutava il byt – la “vita dei giorni”, il “vissuto” – perché pretendeva solo il byt’e – l’esistenza vera. Come scrisse il principe Volkonsky a Marina Cvetaeva: “Ricordo che un giorno diceste di esservi creata un motto. Mieux vaux être qu’avoir. È giusto. Avoir è byt, être è byt’e”. Lorenzo ignorava (o negava) l’equilibrio che gli esseri adulti, nel compromesso fra desiderio e realtà, alla fine, facilmente o penosa mente, raggiungono. Lui non sapeva adeguarsi, reprimersi, adattarsi. Esigeva da sé il massimo, travolto da un’euforia incoerente, febbrile, dolorosa. Per lui la vita era qualcosa di straordinario e di prodigioso, un evento diverso dall’insopportabile esistenza reale. Era sete di un oltre, ansia del vedere il dopo-vita, necessità eroica e ingenua di var care il “limite”.
Forse, per gli esseri umani che lo consolavano, compativano o giudicavano, provava un sentimento complesso e imbarazzante, che il titolo di un suo libro esemplifica: l’indulgenza. Forse aveva compassione, e nello stesso tempo invidia, degli esseri comuni che vivono vite banali dentro un universo abituale. Pittaluga ha cercato qualcosa che non avrebbe potuto raggiungere tollerando a fa tica lo strazio di questa ricerca e tentando, attraverso la poesia, una ricomposizione del caos interiore; ma, non essendone in grado, iniziava di nuovo da capo, affannosamente. Il tempo, per Lorenzo, aveva qualcosa di forsennato, di parossistico, in netto contrasto con il titolo del suo ultimo libro: La buona lentezza. Eppure la sua poesia, almeno nel modo con cui si configura fino ad oggi agli occhi del lettore, ha qualcosa di enigmatico e di rigoroso. Stefano Verdino osserva: “Pittaluga ha un non comune senso del ritmo e dell’accento, abile a maneggiare sdruccioli e ad increspare di ritmi e di pause testi che un poco tendono a un regime di costellazione (non infrequente nello scorcio di secolo, vedi Luzi e Caproni); è una poesia che presuppone un interlocutore, un’alterità probabil mente immaginaria”.
Sotto la cortina ermetica dei versi traspare un journal intime che ci propone un materiale visionario, metafisico ma colloquiale. Un materiale da jongleur surrealista, da poeta “barocco” o “ermetico”: ma Pittaluga circoscrive questo repertorio di imma gini, che svariano dal “marciapiede” alla “sibilla”, dalla “vendemmia” all’”angelo”, dalla “ragnatela” a “Dio”, lo mette fra virgolette come una grottesca citazione, e ciò che ne scaturisce sono gli intermittenti pellegrinaggi di una psiche che non trova pace neppure negli esorcismi della parola. Lo stile di Pittaluga conosce diverse variazioni: ora è rapsodico ed ellittico, ora sentenzioso ed effusivo. Sembra determinato a rifiutare una cifra stilistica unitaria. Ma, sotto le forme cangianti o seriali trapela il desiderio straziante dell’essere “oltre”, evocato con alchimie linguistiche e sortilegi verbali. Come se, prima ancora del dolore, le parole stesse si unissero in un grumo inaccessibile ma dolente, un muro che la voce complice del lettore districa a fatica. Ma, quando in questo muro si apre una fessura, quando fra l’enigma dei versi e lo strazio di un sentimento vivente c’è un attrito testimoniato dalla parola, la commozione è intensa, quasi intollerabile.
«C’è chi ha scelto / annuendo con la testa non mozzata». I versi di Wanda Szymborska ci ricordano come la scena più semplice può venire descritta nei modi più tragici. Così lavorava Lorenzo: “Annunciò – nel rompicapo / risolto – il buon rifugio: / morì di morte. Senza travaglio, / senza il peso della vita”. (Negli eventi) Vengono in mente le leggende attorno ad Aleksander Blok, il poeta russo che Pittaluga prediligeva. Blok morì nel 1921, poco più che quarantenne, di una strana forma di endocardite, o comunque di una malattia complessa, non diagnosticata. Ladislav Chodasevic scrive, di lui: “Ma di che cosa è veramente morto? Non si sa. Morì ‘così’, perché era malato di tutto, perché non poteva più vivere. Morì di morte». E Lorenzo aggiunge, augurandolo a se stesso: «senza il travaglio, / senza il peso della vita”. Pittaluga è poeta che non vuole strutturare la sua carriera con lucidità. Le fasi diverse della sua poesia lo coinvolgono simultaneamente e caoticamente, Si mette in ascolto di quella “cosa chiamata poesia” come la definiva Jurij Ortèn. Sente che la “forma poetica”, da cui si sente pervaso, si modella attraverso di lui: sceglie lui per compiersi, ancora una volta, come destino – quel destino di cui i poeti sono umili strumenti, medium consapevoli ma maldestri. “La forma più complessa / che t’imbianca come neve / perplessa, versa in te / tutti i fonemi più splendidi, / la forma più completa / che bene si sa rimodellare / per avere una canzone propria, / l’atroce storia / del mio quarto di secolo”.
La “forma” della poesia, ancora una volta, si compie dentro il destino di un poeta, dentro la storia del suo quarto di se colo, dei suoi venticinque anni (età in cui scrisse questi versi): così un “poeta”, straziato dal suo destino, arriva a posporre i dolori della biografia all’avvento delle parole che li descriveranno. L’idea poetica di Pittaluga, come osserva Elio Grasso, è quella di una “macchina perfetta e celibe, strutturata come congegno filosofico, in cui convergono i piani e le linee di un mondo unico”. È l’idea di un poiein inarrestabile, inconsumabile, a cui solo la fine terrena potrà mettere un termine. Osserva ancora Grasso: “Una raccolta postuma di Lorenzo Pittaluga potrebbe risultare pressoché infinita”, perché, in effetti, non ha un punto d’arrivo, un momento d’approdo, questo suo soliloquio in stato di trance, questo “stato di ispirazione permanente” da cui, ogni tanto, come schegge, si distaccano le sue poesie – frutti necessari, ma passeggeri. Ciò che conta è il crescere irrefrenabile dell’albero.
Il viaggio di Lorenzo potrebbe racchiudersi, emblematicamente, in uno dei molti, sentenziosi inviti di cui è costellata la sua poesia, e rivolti a un ipotetico tu: “Vai per sondare questa pista cifrata – / a caratteri doppi, fra eterno e quel / poco d’acqua che ti ravvisa / uomo del posto” (Gemella alla parola). Forse il “poco d’acqua” va in teso come il prodotto poetico: ciò che il poeta trattiene, sulla carta, dell’”eterno” a cui ha attinto per sondare una pista “enigmatica” e “cifrata”, dove ogni dettaglio è “duplice”. La polisemia delle poesie di Pittaluga è evidente: la loro apparente ermeticità è una barriera di cristallo che, a frugar bene tra le parole, rischia di dissolversi in un pulviscolo di percezioni. Ma “Se gettiamo per terra un cristallo, questo si frantuma, ma non in modo arbitrario: si spacca secondo le sue linee di sfaldatura in pezzi i cui contorni, benché invisibili, erano tuttavia determinati in precedenza dalla struttura del cristallo. Strutture simili, piene di strappi e fenditure, sono anche i malati di mente” – ricorda Freud.
Le poesie di Lorenzo ci appaiono spesso come aggregati chimici, strutture minerali che tentano di saldare quelle “fenditure”, di riportare l’individuo all’integrità perduta. Pittaluga definisce così la poesia: “Origine di una deriva / colma di “detriti” / di osso e sangue – o / è la mancanza / di un sogno che – / incoercibile – rigetti – / in un verbo – la /sua necessità: la / poesia” (Poesia). La “mancanza” si modella in una parola che è “necessaria”. La “deriva “colma di “detriti” – viene in mente il mondo, quel mondo da cui Lorenzo voleva separarsi e della cui stupidità aveva indulgenza – è anche la necessità della poesia come “argine che trattiene la piena”. La poesia, per Lorenzo è, alla fine, il frutto delle “insensate voglie di / uomini insofferenti / all’ordinario fluire / delle cose”. L’insofferenza era il sentimento che Pittaluga provava troppo spesso per le cose ordinarie, per gli eventi semplici. Lui cercava l’ex- straordinario, l’incongruente, il fuori canto, l’extra-linea. Esigeva un altro universo, abitato dal sogno di essere grandi poeti e individui felici. “Ma – più triste – traverso / le lancette: l’ora / dell’antistoria, fra mosche”. Crudele sentenza cioraniana sull’atemporalità, terribile ammissione di un tempo psichico reificato, antistorico, che, nel mo mento in cui viene percepito, rivela la sua imminente, palpabile de gradazione, “l’ora dell’antistoria, fra mosche”. A questa “ora”, fissata in un presente sostanziato di immagini astratte e assolute, appartiene la poesia di Pittaluga. Ma la sua energia, la sua “seduzione” poetica, è tutta nel conflitto aperto fra metafisico e terreno, dove ogni anelito metafisico è sempre contaminato da un eccessivo dolore terreno, sostanziato di solitudini, delusioni, assenze, nostalgie.
Lorenzo non è mai poeta puro, appagato della “rimozione” dalla sofferenza in un paradiso – linguistico e umano – tranquillizzante. Mette sempre in conflitto il suo penoso “stare” nella vita con il “magico” essere “oltre la vita”, mitizzato nel mo mento, irrimediabile e assoluto, dell’abbandono della vita stessa. Con le parole Pittaluga non ha riscattato nessun dolore. Non ha spiegato nulla. Si è solo “scoperto”. Il mondo è sempre pieno di “accartocciate grida” che cercano di sfuggire al silenzio. Lorenzo ha usato queste grida. Ha parlato ad altre persone con i suoi versi streganti, inconcludenti, surreali. E la sua lingua è aspra ed ermetica, come bizzarra ed ermetica è stata la sua vita, divisa fra il desiderio della santità, della purezza, del “tutto”, e lo sprofondamento in un’esistenza solitaria, maldestra, difficile. Lorenzo – l’ho ricordato – leggeva in modo disordinato, febbrile, apparentemente con scarsa concentrazione. Ma leggeva con avidità, si imbeveva come una spugna delle parole altrui. Assorbiva parole da ogni stimolo esterno, da ogni sensazione, come se non avesse potuto far altro che questo, immergersi nella materia delle parole, della stravolta sintassi in cui le combinava, le articolava, le disarticolava. Come se, non essendo facile vivere, si potesse sostituire la vita con l’incantesimo un po’ de forme di una parola “liberata”.
Ma – qui sta il punto – Lorenzo usava modi e metri diversi: non era naif, in poesia, non era né selvaggio né sfuggente, ma, al contrario, meticoloso e ossessivo. Certo, non poteva tacere. Doveva esprimersi. E non è vissuto abbastanza per mettere in rapporto le sue parole con la sua vita: ha vissuto quelle e questa come due universi non comunicanti che, nell’attimo in cui andavano in relazione, esplodevano, entrando in corto circuito.
Forse Lorenzo non ha sciolto nulla del suo destino. Lo testimonia la morte tragica, ma non improvvisa. Nel 1989 scriveva «in un sussurro / impercettibile sussurro / dove le più tenere voci languiscono (cetre?) / al suono – / duro – / nella polvere / precipitato». Di questa caduta – dal grido primordiale alla scrittura nella pagina, dal desiderio eroico al corpo traballante, dal volo magnifico dell’Albatro alla sua goffa marcia sul ponte della nave – Pittaluga ha testimoniato. «Perché la cosa scritta non conta se non nella misura in cui è fedele al grido» – scrive Jacques Rousselot parlando di Tristan Corbière.
4.
Se è vero che la malattia psichica determina spesso una sensibilità prodigiosa, da scorticati, come se non ci fosse più lo schermo della pelle a proteggere dalla percezione esterna del mondo e mancassero gli strumenti di difesa contro l’invasione interna dei fantasmi, di que sta sensibilità da “invasato” Lorenzo si fa testimone e ce ne restituisce il brivido. Il brivido è il rapporto fra un corpo-psiche che si dibatte nei limiti odiati e un oltre-corpo, un’oltre-psiche, che non può prescindere da quei limiti e da quella sofferenza. La sua poesia è questo conflitto, simboleggiato dalla figura di Adamo-Cristo-Messia nel racconto giovanile La crocefissione, di cui l’io narrante scrive: «Ammiravo l’incredibile equilibrio col quale sosteneva la sua secca sa goma trafitta dal sottile paletto, unico rapporto del suo corpo con qualcosa di terreno». Io, come amico e terapeuta, non posso dimenticare le parole con cui mi riferì del suo primo salto nel vuoto, a diciassette anni, quando si fratturò un braccio e una gamba. Lorenzo disse: “Ricordo l’attimo dello schianto; il dolore acuto al femore, e quella sensazione di fastidio, di vertigine, proprio sotto l’orecchio sinistro, che era schiacciato al suolo”. Come dimenticare che la “vertigine”, quella sensazione di annaspare nel vuoto, era ormai tutta raccolta lì, nell’orecchio, tutta “schiacciata al suolo”? Il desiderio eroico di Lorenzo di librarsi in volo, di liberarsi dalla vita come un poeta eletto, come un santo disincarnato, si era accartocciata lì, in quell’orecchio “schiacciato al suolo” – oscuro presagio della fine fu tura, realizzata nel 1995 con l’ultimo, definitivo salto nel vuoto.
Quando Lorenzo ha voluto fuggire dalla sua vita presente e dagli inevitabili fardelli futuri della sofferenza psichica – ricoveri protratti, abusi farmacologici, episodi confusionali – non lo ha fatto in modo sommesso ma con un ultimo scatto, un tuffo gioioso nell’ignoto – di una gioia non dissimile da quella con cui mi raccontava di essere posseduto dall’esaltazione di essere un santo. Ecco il suo messaggio: la vita non è mai solo la vita, ma la metafora della vita. “L’uomo è una metafora” – scriveva Novalis.
E Pittaluga esemplifica, con la sua vita ormai assente, una simile affermazione assoluta: un poeta non può che pensare l’oltre. «Io non resisto ai princìpi / senza vera sostanza, pre sento un resto, un ritardo tra gli uomini» (Seno). Lorenzo non ha avuto il tempo di articolare quell’assoluto fuori di sé, di raggiungere, fra il sé e il non sé, quella quiete in cui avrebbe potuto riformulare in termini meno drammatici la sua personale scommessa contro “il mondo così come è.” Lorenzo si è perduto. Ma forse, per noi, a distanza di quasi trent’anni dalla scomparsa, è ancora, il suo, benché tragico, un modo di dire che la vita è straordinaria e va vissuta oltre la vita invivibile. Vengono alla mente i versi di Georg Trakl prediletti da Lorenzo: «Nube lunare! Nerastri cadono / selvatici frutti di notte dall’albero / e lo spazio si fa tomba / e sogno questa via terrena» (da Abbandono alla notte). Osip Mandel’stam, in un testo frammentario dedicato a Puskin e a Skrjabin, scrive: “La morte dell’artista, a mio parere, non deve escludersi dalla catena ininterrotta della sua opera, ne è al contrario l’anello finale, la conclusione. Notevole non solo per le dimensioni favolose che l’artista assume agli occhi del mondo nella vita postuma, ma perché costituisce in qualche modo la stessa sorgente della sua opera, il suo principio teleologico. Strappate dalla vita di questo creatore il sudario, e la vita scaturirà libera mente dal suo principio…”.
Pittaluga potrebbe trovare qui, in queste parole, quella pace che non trovò in vita: “Diverrò vocale tersa, / sillaba alabastrina, parola / che giunge all’inganno dell’amore… […] Disse delle parole ad arco teso. / Più presto rinvigorisce: / Controvento”. Perché ogni autentico poeta, come osserva Milo de Angelis (Niebo, 1, 1977), “non accetta di morire cancellato e non accetta di morire insensato”.
5.
Oggi, però, non importa sapere nessuna “verità” sulla sua avventura terrena. Invece, del suo sforzo di rendere le parole vere e vive, occorre ancora parlare: Lorenzo ci lascia una scia definita, le sue poesie, che oggi rileggiamo. Solo qui ci rivela come abbia potuto, in assenza di una vita sintonica, scrivere una poesia distonica e spigolosa, infelice ma decisiva, posseduta dal sogno di una euforica trascendenza, nutrita dalla complicità con la morte, sì, ma immersa nella vita, con ostinazione, anche quando la vita, per lui, si riduceva a essere soltanto un gruppo di parole. Ma quelle parole – la forma, l’intrico, il loro addensarsi e respingersi – erano il suo modo di rappresentare/nascondere un nodo biografico troppo doloroso, che con altre parole – quelle della terapia, della possibile guarigione – non avrebbe saputo o potuto sciogliere. Nell’ultimo frammento dei suoi Diari del transito Alfonso Guida scrive: “Lorenzo era, in ogni verso, lo scalino di una strada costruita con le corde”. Con queste parole Guida si inoltra dentro quello che è il viaggio vero del poeta: essere scalino di una scala che oscilla, tesa a un crocevia mancato. Ecco la voce di Lorenzo: “Rifabbrichi un tuo pensiero rallentato – aperto al prodigio / che ieri te la tenne – minuta e ardente – accanto. Un pensiero / aperto all’odissea del tuo / vivere solcando giorni già / interiti – riscattati dal suo canto”.
Lorenzo non ha riscattato i suoi conflitti: li ha troncati. Lo testimonia la sua morte, tragica ma non imprevista: un tuffo nel vuoto dal decimo piano dell’Ospedale di San Martino, a Genova, pochi giorni dopo il Natale del 1995: di questo precipitare – volo magnifico dell’Albatro che rifiuta di marciare goffamente sul ponte della nave – Pittaluga ha testimoniato realmente, sentendosi “fantasma vero d’ogni inamovibile realtà”, essere umano affaticato dal peso dell’esistente, pervaso dal desiderio di una metamorfosi liberatoria che sciogliesse per sempre i nodi del suo malessere.
Diceva, in vita: «La mia poesia si regge su pertiche di parole» e la sua esagerata volontà di scrivere versi rispecchiava la volontà eccessiva di cancellarsi dal “numero opprimente dei vivi”, ma non dal gioco ritmico del linguaggio. Alcuni suoi versi parlano di “colline” che non “collimano”: sembra un gioco di parole ma è un modo molto preciso per definire il suo stato interiore. Oppure scrive: «Mi fermo alla mente». Quella mente che non ha mai potuto o saputo controllare: ogni idea di armonia era per lui maldestra “trave di inciampo”. Quando Lorenzo parla di “guinzagli-fazzoletti” per descrivere una scena di addio, non potrebbe essere più esatto: i segni convenzionali dell’addio sono anche i simboli della cattività, guinzagli che legano per sempre. L’opera di un autore non è né la sua follia né il suo suicidio: considerata nella sua interezza, è la resistenza della tensione creativa a un dolore in tollerabile.
Oggi, nel 2024, da una distanza temporale così lunga da avvicinarci ancora di più alla classicità anomala di Pittaluga, possiamo rileggere le sue poesie, edite e inedite, testimoniando l’enigma della sua voce con i commenti di vecchi e nuovi amici; ritrovando nostro un poeta tragico, beffardo, surreale, inclassificabile, incollocabile anche in una provvisoria storia della letteratura poetica contemporanea; un poeta sempre giovane, la cui inattualità coincide con la risonanza delle “anime strane”, estranee a ogni progetto razionale, esposte alla nuda e dolente vita, quindi potentemente reali, e la cui voce, come suggerisce Dario Capello, è sospesa “fra canto e sbarramento”. Scrisse Lorenzo in vita (ma lo scrisse per noi superstiti): “Per te avvolgo pensieri postumi”. (M.E.)
