IL VOLTO DI MARLENE. Marco Ercolani

Nel 1968 Joseph Von Sternberg, intervistato sul cinema espressionista, si sofferma con attenzione su quello che per lui ha significato, nel tempo, il volto di Marlene. Così si esprime il regista: “Il volto dell’attore è unico. Lui lo possiede solo per gli altri. Lo trucca, lo mostra, lo usa, ma non gli appartiene”. Von Sternberg considera fondamentale, per il suo cinema, una folla di immagini racchiuse dentro la cornice dello schermo.

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L’esercizio di un’arte richiede l’uso di strumenti obbedienti che seguano il disegno dell’artista e non lo ostacolino. Ma nel cinema lo strumento è vivo, restìo, trema d’emozione. Ho davanti a me un oggetto che respira, che non ho mai visto e che forse non rivedrò mai. Un violinista potebbe suonare un violino che rischia di esplodergli fra le mani? Uno scultore servirsi di uno scalpello la cui punta è rivolta contro di lui?

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Ho sempre esitato a esprimermi con un mezzo che non si serve di colori o di parole ma di creature umane che bisogna correggere, costringere, persuadere, possedere – materiali ostici, non malleabili. Senza contare i tempi massacranti, l’idiozia dei produttori, la vanità delle star, le sceneggiature ridicole e una censura da preti. Alle soglie della vecchiaia, quando la fatica di dirigere diventa insostenibile, è più facile parlare delle proprie idee che controllare la macchina di un film. Il cinema è un’arte così complessa che può essere facile fare un film cattivo come uno buono. Io, forse, ne ho fatti di buoni. Ma troppi cretini hanno il potere di mutilare e deformare film d’autore in sede di montaggio: i registi sono ancora in attesa di leggi che proteggano il loro processo creativo.

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Si è detto che umiliavo i miei attori come fecero i nazisti, ma io non sapevo neppure, quando diressi l’Angelo azzurro, che cosa fosse un nazista. L’accusa di Kracauer è ridicola. Lo stesso Hitler distrusse le copie originali del mio film. Io, quando dirigevo Marlène, pensavo a Toulouse Lautrec, che con il nazismo non ha proprio niente a che fare.

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Liberi di giudicare i miei film anche post mortem e di blaterare quello che volete: ma l’Angelo azzurro è e resta la storia d’amore dell’ingenuo Unrat per una canzonettista. Appiccicate pure dei simboli alla storia, al tragico chicchiricchì del professore ridotto a misero clown, alla sua morte melodrammatica aggrappato alla cattedra della classe perduta. Accomodatevi: decadenza dell’io borghese, allegoria della vecchia Germania. Io resto indifferente. Io ho idee realistiche. Come ogni vero regista, io racconto. Le dissolvenze incrociate non erano un vezzo estetico ma un mezzo perché il film scorresse in modo naturale, senza gli impacci simbolici che appesantivano i film tedeschi della mia generazione.

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Non c’è mai stato un mito Marlene. Io la usavo, e basta. Io facevo vedere Marlène in modo appropriato. Forse è così che si costruisce un mito. Nessun essere umano, nel mio cinema, vale più di un altro. Di fronte all’obiettivo sono tutti corpi opachi che illumino. Nei miei film Marlene non è Marlene. Marlene sono io.

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Lavorai a lungo al primo piano di Shangai Lili, in contrasto con la folla dei soldati. Non volevo una soggettiva lunghissima: Marlene non era Greta Garbo. Da lei non esigevo la distanza gelida ma l’enigma della visione. Nero sulle mani e luce nel volto: una coincidenza perfetta fra limiti dello schermo e confini del viso. Sullo sfondo, il frastuono del treno. Nuvole di fumo, vacche, fucili, folle di mercanti e di soldati. Avrei voluto che le altre voci fossero registrate o molto veloci o molto lente, in modo da risultare incompensibili. Ciò che contava era il volto di Marlene. Avevo orrore che qualche altro dettaglio potesse distrarre l’attenzione dello spettatore. Per questo scelsi un soggetto fatuo e mi concentrai solo sulla luce e sull’ombra: le nuvole di fumo lasciate dalle sigarette erano parti essenziali del mascheramento e dello smascheramento dei volti.

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In una scena tagliata dalla Paramount la mdp inquadra lo scompartimento dove Shangai Lili si rifuia in silenzio, la notte in cui il capo dei ribelli decide di accecare il capitano Harvey. Lili accosta le tendine nere. Poi tutto lo schermo è invaso dal biancore delle sue mani per un tempo lungo, oltre dieci secondi. Si sente il rumore di alcuni passi. In dissolvenza, appare la cella dove Harvey è legato. Primo piano sulle corde che gli stringono i polsi. La macchina da presa, lentamente, ritorna alle mani di Lili. Poi la luce le abbandona, con una dissolvenza lentissima, e scopre, nell’oscurità, il volto di Marlene. Lili, inginocchiata, gli occhi aperti, la testa piegata verso l’alto. Un volto immobile, da cui è scomparsa l’ironia e il disincanto. Gli occhi si chiudono ma il volto resta illuminato, come se ricordasse tutti i particolari dell’amore per Harvey. Il rumore si tronca di colpo. Gli occhi si spalancano rapidi e allarmati. Harvey è stato accecato? Il volto di Marlene sparisce dalla scena. Lo schermo diventa nero.

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È difficile creare la visione sul set: lo sguardo del regista deve coincidere con lo sguardo dello spettatore. Il regista è operatore, attore, sceneggiatore, fotografo, produttore. Sa cosa lo spettatore vedrà o udrà. Mentalmente monta, taglia, inquadra. Mentre gli altri vedono un set confuso lui immagina il film. Lo sa tutto scena per scena. È ostinato, scrupoloso, incontentabile. La regia è la resa del massimo effetto all’interno di una cornice. Un regista al lavoro può sembrare ridicolo ma il suo occhio non vede la realtà così come scorre per occhi normali ma come, a film concluso, apparirà nel rettangolo dello schermo. Il suo sguardo è una lente concentrata sull’immagine futura. Il suo occhio è sempre espressionista.

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Per tutti i piani-sequenza del volto di Marlene usai una tecnica particolare. Non muovevo mai la macchina, la lasciavo immobile davanti al volto; lo spettatore doveva sentirsi chiuso nei pori della sua pelle e nella bianchezza della sua fronte, prigioniero di un rapporto indissolubile con quella faccia misteriosa creata dalla luce e dall’ombra. Guardando lei, il volto umano appariva simultaneamente erotico e impossibile da amare. Guardando Marlene, la storia stessa del film spariva – paradossale come un fumetto, ridicola come un melodramma. Ma era un sacrificio che imponevo al film, perché fosse interamente dedicato a lei. No, niente di misterioso e di ineffabile: ogni essere umano porta con sé le tracce di una folla di uomini e di donne vissuti prima di lui in luoghi e anni diversi, e io con l’obiettivo risvegliavo quelle tracce, vedendo alcune cose e tacendone altre. Non potevo ignorare quanto di tragico era nascosto nel personaggio di Shangai Lili. Il volto di Marlene era sempre rilassato e gelido, al punto da apparire vuoto di sentimenti. L’espressione vi scaturiva da sola, sprezzante o infelice. Niente è più osceno delle smorfie dell’attore. Il volto è una superficie non umana, priva di parole. Solo il regista è ammesso a venerarlo.

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Spesso le prove mi deludevano. Gli attori non erano mai all’altezza. Marlene stentava ad entrare nella parte, nonostante la vestaglia nera e gonfia, il vestito traboccante di piume, i gioielli, i guanti neri, la misteriosa veletta. Io non la chiamavo più Marlene ma Shangai Lili, sebbene anche chiamarla così servisse a poco. Il suo volto ironico e magnifico non esprimeva adeguatamente la distanza tragica che pretendevo. Cosa dovevo fare perché mostrasse un dolore? Ricordai di avere letto che, durante le riprese di Giovanna d’Arco, una strana coincidenza volle che il padre di Renée Falconetti, l’interprete di Giovanna, morisse durante le riprese. Quando lei seppe la notizia, scoppiò in lacrime. Dreyer, senza dirle nulla, approfittò di quel dolore girando diversi piani del suo volto quando piangeva o si teneva la faccia fra le mani. Io chiesi a Marlene di pensare a cosa significasse la mia morte per lei. Glielo ripetei mille volte, come una cantilena. Alla fine, singhiozzò appena. Ma era il momento giusto: dovevo girare. Presto, senza perdere un attimo. Afferrare quel dolore irripetibile. La regia è anche la prodigiosa velocità di cogliere l’occasione propizia.

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Hanno accusato Dreyer di lentezza ma lui girava con forsennata velocità, senza cambiare l’oggetto della visione, come un vortice si muove attorno al suo centro. Nessun trucco per Renée Falconetti. I capelli tagliati a zero. L’ovale della faccia e la curva del cranio, nella loro realtà totale. Attraverso la forma chiusa del volto Dreyer rivelò i mille pensieri di libertà o di morte che si affollavano nella mente di Giovanna. Ma il volto, come lo schermo, è una superficie. E la cinepresa è il solo strumento che attraverso gli artifici della vista può suggerire il miracolo della penetrazione e creare, sulla guancia, un’ombra che prima non c’era; oscurare la bocca o gli occhi; evocare una pelle vellutata o arida; seguire la curva delle labbra, secche per la sete; inquadrare solo la fronte; spiare gli occhi dal basso; dominare il cranio dall’alto. Vedendo Il processo di Giovanna d’Arco in moviola migliaia di volte, mentre i produttori mi seccavano chiedendomi di completare Shangai Express, scoprii come la sensazione del dolore non fosse provocata dall’urlo o dalla smorfia, assenti in tutte le scene del processo, ma dalla fissità dello sguardo, dalla rigidità delle mascelle, dal modo con cui le labbra rabbrividivano facendo luccicare i denti. La disperazione non è un’espressione ma una qualità dello sguardo, una caratteristica della pelle. Quando Giovanna ritratta il suo pentimento e si dichiara disposta a morire, Dreyer non la forza a nessuna espressione: gli basta sfruttare l’ombra del crocefisso sulla pelle chiara.

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Osai fare qualcosa di simile per Marlene, ma con minore audacia. Attenendomi alle regole tradizionali del mélo, usai campo e controcampo. Nel mio caso il campo era il volto di Marlene e il controcampo il resto del film. Tutto doveva essere docile al mio disegno. Lei era lo strumento, la voce che avevo, l’unica. La voce non può ribellarsi alla gola da cui scaturisce. Qualcuno, nella troupe, diceva che io ero un carnefice, che mi deliziavo a soggiogare e dominare, pur di realizzare l’effetto voluto. Non piaceva a nessuno la mia volontà di perfezione, ma non potevo farci niente. Tutti dovevamo servire il film: e se il mio occhio era quello che più lucidamente prevedeva la sua forma futura, tutti dovevano obbedire a me. Il piede di Marlene, chiuso in una babbuccia lussuosa che ritma il tempo di un ballabile al suono dl grammofono Victrola, per me vale più di settemila ideologie marxiste. Il cinema è un’arte della fuga, un complesso cotnrappunto di temi, e se non c’è il burattinaio che regge i fili della storia, i burattini si ribellano e lasciano le tracce informi dei loro piedi.

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Ho letto che, per Giovanna, Dreyer fece erigere un castello ottagonale copiandolo minuziosamente dal Libro delle meraviglie, dove era raffigurato in miniatura. Ricordo la finestrella incassata, la torre, la cella attigua al tribunale, il cortile con il rogo. Il ritmo della cinepresa era il ritmo della mano che schizza figure sul foglio. Dreyer disegnava, e non posso che essere d’accordo con lui. Lo schermo non è dissimile dalla pagina: è solo appena più grande, e ha bisogno di creature vive.

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Odio chi odia gli attori – questi animali essenziali per il cinema. La mdp perderebbe senso se non potesse mostrarmi, giungendo vicinissima alla pelle, ciò che uno sguardo normale non potrebbe mai cogliere del volto umano: i segni visibili della passione in un battito di ciglia, in un tremito della bocca. Avrebbe senso il cinema espressionista, il cinema tout court, se non fosse una sonda gettata nella carne per scavarvi i sentimenti assoluti? Il volto non può esistere in una società che lo cancella, lo deforma, lo riduce a cosa fra le cose. Quando un regista decide di vederlo per noi, accade un miracolo del quale non gli saremo mai abbastanza grati: ricordate gli occhi di Lya de Putti in Varietè? Il volto dell’attore è unico. Lui, lo possiede solo per gli altri. Lo trucca, lo mostra, lo usa, ma non gli appartiene. Esprime certe emozioni: sdegno, stupore, indifferenza, brutalità. È maschera di quelle emozioni. E che la maschera sia particolarmente espressiva, nella giovinezza o nella vecchiaia, nell’infanzia o nella maturità, dipende dai diversi tipi di volti, dalla forma del naso, del mento, delle orecchie, dalla linea degli occhi. Sapienza del regista è cogliere quell’unica emozione attrraverso le ombre e le luci che traccia nella pelle. Vedere e rivedere il volto di Marlene in Shangai Express sarà godere per sempre della rituale apparizione di un idolo.

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La regia non è intuizione o poesia. È un massacrante lavoro di messinscena, un caos di luci e di voci coordinato da una persona sola. Il regista può muovere la mdp in mezzo a una folla di migliaia di persone o lasciarla fissa sul’inquadratura di un volto: giudice o padre, egli sceglie per tutti. Il set è come un grande cimitero di macchine da animare, corpi da dirigere, scene da tagliare. Io, immerso nel caos, dovevo costantemente concentrare l’attenzione sulla mia idea: il volto di Marlene. Il suo enigma era il punto di fuga del film. Per far scaturire questo enigma avrei provocato, in attori, costumisti scenografi, in tutto il bailamme che mi circondava, offese, rancori umiliazioni. Non potevo essere puro. Dovevo agire come si agisce per ottenere qualcosa. Essere senza scrupoli. È un’arte dannata, il cinema. Arte senza intimità. Ha sempre bisogno d’altro. Soldi, scene, trucchi, fotografia, musica, attori. Un materiale indocile, che non obbedisce subito, come la carta obbedisce alla parola. E allora devi avere un pensiero dominante: essere solo, con il tuo pensiero, in un set chiassoso e confuso, traversato da mille idee: essere tu il silenzio necessario, l’occhio che taglia la scena, l’inquadratura che risolve il pensiero. La scrittura impressa sullo schermo non conosce indugi.

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Considero fondamentale, per il mio cinema, la visione. Ogni film è una complessa macchinazione, condotta dalla troupe e padroneggiata dal regista perché, dai nodi della trama, emerga la scena-chiave: in Shangai Express il volto in preghiera di Marlene, in Angelo azzurro la mano contratta di Jannings morente. Bisogna che lo spetttatore sia folgorato, in pieno film, mentre lo blandiscono intrecci d’amore o suoni piacevoli, dalla visione imprevista, dall’immagine decisiva. Accusatemi, se volete, di onnipotenza, ma o il regista controlla ogni dettaglio o non dirà mai niente di nuovo: tutti i particolari preparano la scena-chiave e non ci sono approssimazioni. Guardate le pretenziose sciocchezze del nuovo cinema europeo: chiacchiere tante, ma film zero. Nel cinema, la democrazia è un’ilusione. Io ero – e sono – un tiranno presuntuoso.

*Il testo è tratto da: Marco Ercolani, Lezioni di eresia, Graphos, Genova 1996.

Marlène Dietrich in Shangai Express

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