NOTE PER “VERSO LA GIOIA”. Ettore Frani

Nota biobibliografica

Ettore Frani nasce a Termoli (CB) nel 1978. Vive e lavora a Lido di Ostia. Nel 2013 realizza la personale e l’omonima monografia Attrazione Celeste (Casa Raffaello/Bottega Giovanni Santi, Urbino – L’Arca, Teramo). Nel 2014 la personale Respiri al Museo Nazionale (Ravenna). È del 2016 la personale Requiem (L’Ariete). Nel 2017 progetta le personali Ricucire il cielo (NGM, Milano) e L’ombra e la grazia (Spazio Aperto San Fedele, Milano). Apre il 2019 con la personale La pietà della luce (PAN, Napoli), per Selvatico (14) realizza l’installazione Piccola apocalisse (Ex-Ospedale Testi, Cotignola)e la grande personale Le dimore del pittore | Cap. I-II-III – Un’esposizione in fieri che prosegue anche nel corso del 2020. Conclude l’anno con la doppia personale Nigrum nigrius nigro | Ettore Frani Luca Pianella (Galleria Paolo Maria Deanesi, Trento) e la collettiva La Ferita tra umano e divino. Arte antica e contemporanea da Francesco da Rimini a Lucio Fontana con un’opera commissionata per l’occasione. Nel 2020 inaugura la personale Nel lucido buio (Fondazione La Verde La Malfa, Catania) ed esce la seconda monografia Lo splendore del nero (the painter’s room | Vanillaedizioni). Nel 2023 inaugura due importanti mostre personali: Salvifica. Il Sassoferrato ed Ettore Frani. Tra luce e silenzio (Palazzo degli Scalzi a Sassoferrato) e Di polvere e luce. Ettore Frani in dialogo Cattaneo, Ferroni, Kiarostami e Morandi (Galleria San Fedele, Milano). Nel 2024 partecipa alla collettiva “Timelessness” (Frascione Gallery in collaborazione con Aria art Gallery, Palm Beach Florida) e inaugura la mostra personale Luminosa (Cappella dello Spirito Santo, Monastero di Camaldoli).

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La mostra Ettore Frani. Verso la gioia, a cura di Paola Feraiorni e Massimo Pulini (14.09>10.11.2024) si svolge all’interno delle antiche sale dell’Ex Convento di San Francesco a Bagnacavallo. L’esposizione, promossa dal Comune di Bagnacavallo e organizzata dal Museo Civico delle Cappuccine, rappresenta l’esito ultimo di una riflessione, urgente quanto strutturata, maturata negli ultimi tre anni di ricerca di Ettore Frani. L’artista, oltre a riprendere in maniera più approfondita alcuni temi e soggetti emblematici della sua poetica, presenta una serie di opere inedite, molte delle quali realizzate appositamente per i suggestivi spazi dell’ex convento di San Francesco.

La mostra vede esposti ottanta lavori su carta, oltre quaranta dipinti e, per la prima volta, cinque installazioni pittoriche. Opere che vanno dal disegno, realizzato a grafite su molteplici e sovrapposti strati di carta, alla pittura ad olio su tavola laccata e, tra queste, cinque installazioni dal suggestivo titolo Offerta, dove l’artista si appropria anche di materiali atipici all’interno del suo percorso artistico, ma dal significativo valore simbolico: sassi, polvere, cenere, vetro, quaderni d’appunti, stracci e pennelli.

Il titolo della mostra prende avvio da una serie di opere che Frani ha realizzato negli ultimi anni e mette a tema, non tanto uno stato d’essere, quanto invece il senso di un procedere, di una tensione, di uno sguardo atto rivelare ciò che potrebbe essere indicata come una meta, in cui disciogliere la sofferenza nella gioia e l’ombra stessa nella luce.

L’esposizione è presentata attraverso un vero e proprio percorso che parte dalla grande composizione Di polvere e luce, composta da sessantaquattro disegni, fino a giungere al polittico ad olio Verso la gioia, che dà il titolo alla mostra – già esposto presso il Museo delle Cappuccine nel 2022 ma rielaborato per l’occasione dall’artista. Nelle otto sale e nei due corridoi dell’Ex-Convento Frani orchestra in maniera corale molti dei soggetti presenti nella sua poetica – la figura umana, il paesaggio, la natura morta – e ne fa un mezzo potente attraverso il quale indagare ed interrogare l’indicibile Oltre. Il percorso, concepito come una sorta di partitura polifonica, è stato suddiviso in quattro “paesaggi” dagli evocativi titoli Di polvere e luceNello sguardoNel silenzio e Verso la gioia, dove lo spettatore è chiamato ad un ascolto attivo e contemplativo.

Le opere presenti in ogni singolo ambiente non si pongono mai in maniera isolata ed autonoma, ma sempre in relazione con tutte le altre in esposizione e, attraverso rimandi e risonanze, reiterazioni e assonanze, conducono lo sguardo – e il sentimento – del visitatore verso una riflessione personale e originale sulla vita, sull’essenza e sull’identità dell’uomo nel cosmo, argomento nodale della poetica di Frani. La mostra, realizzata con il prezioso supporto di Gruppo Hera, è accompagnata da un catalogo che include le fotografie di tutte le opere esposte. Una sezione della mostra, intitolata Luminosa, è allestita negli spazi del Museo Diocesano di Faenza.

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Sommario del catalogo

Presentazione di Matteo Giacomoni e Lucilla Danesi

Oltre il visibile, di Davide Caroli

Dalle rovine, di Massimo Pulini

Apparire e svanire, di Marco Ercolani

Verso la gioia, di Paola Feraiorni e Ettore Frani

Luminosa, di Giovanni Gardini

Luminosa, di Marco Vannini

Elenco delle opere

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Qualcosa di noi resta, di Ettore Frani

Non tutto è votato al silenzio e alla perdita. Qualcosa di noi resta e ci testimonia.

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Di polvere e luce è l’amaro e silenzioso canto verso tutto il nostroi apparire e svanire. Un tentativo, nonostante tuto, di tenere assieme i viventi e chi si è già vestito di invisibilità.

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Cancellare significa qui evidenziare, sostenere e custodire ciò che resiste nonostante tutto.

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Tutto il visibile e l’invisibile, dal nero più profondo all’abbagliante assenza di colori, è luce espressa nelle diverse e infinite gradazioni. Così anche la mia pittura, quando va incontro all’ombra più densa o cede alla polvere più sorda, non fa altro, ancora, che rievocare e ragionare sulla luce. La mia pittura è nero-luce che risponde a luce.

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I tavolini del pittore, soggetto ritratto molte volte negli anni del passato, sono come altari laici su cui offrire la propria muta preghiera.

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Quste opere rappresentanno il luogo più intimo della mostra, in cui la pittura si mostra come autentico spazio di riflessione e di interrogazione. Come in un processo alchemico qui è trasfigurata la materia di cui si compone la pittura, e con lei il pittore sesso: servitore e viandante tra le rovine di un tempio pittorico.

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L’uomo è intimamente visitato e abitato da un’alterità che oltrepassa il suo modo d’essere e che al contempo risplende alll’interno di ogni cosa. E luminoso è allora l’apparire del corpo stesso di ogni manifestazione, che riluce di una materia sacra in cui tutto si è trasfigurato.

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Apparire e svanire, di Marco Ercolani

Scrive Alberto Giacometti «Nessuna scultura ne detronizza un’altra. Una scultura non è un oggetto, è un interrogativo, un problema, una risposta. Non può essere né finita né perfetta. La questione non si pone nemmeno. Per Michelangelo, con la Pietà Rondanini, la sua ultima scultura, ricomincia tutto. E per mille anni Michelangelo avrebbe potuto continuare a scolpire delle Pietà senza ripetersi, senza tornare indietro, senza finire nulla, andando sempre più lontano. E anche Rodin».

Andando sempre più lontano, osserva Giacometti. Ascoltando l’indicibile. Ettore Frani, sull’indicibile, ci lavora da pittore, creando un’opera che getta le sue radici, reali e surreali, proprio verso l’invisibile: l’apparenza del mondo, per lui, è un arcaico fantasma orientato dal lavoro tattile sulle cose o sui resti delle cose. La polvere crea e nasconde figure. Chi vede i disegni di Frani è chi sa per primo ascoltare, dentro quella scena pittorica “di polvere e luce”. Il pensiero che sottende il lavoro del pittore fa capire come vuoto e silenzio non possano fare a meno del proprio oggetto, anche se questo è “infinito”: l’arte pittorica, come la poesia, è una archeologia senza memoria dove le cose disperdono i loro significati e nessun senso è tangibile. L’idea che il pittore sia come un vasaio della luce o un pittore di misteriosi affreschi pompeiani, è un’idea che mi afferra come una fantasia onirica mentre osservo queste opere. Osservandole, si va oltre l’opacità dei limiti terreni. Ci si orienta nella e verso la luce, pur essendo consapevoli del nero che ci avvolge. Si è, come Rothko, sempre sulla soglia. Ma l’arte di Frani non cesella un nulla privato da esporre allo sguardo degli altri: sfuma la luce, come accade in certi Capricci per violino di Sciarrino, e la dissemina, fitta di polvere e figure. “Non c’è alcuna profondità in poesia. C’è, tremenda, l’insonnia della superficie”. Frani indaga questa superficie insonne di cui scrive il poeta Nanni Cagnone. Non crea un’arte allusiva o simbolica. Inventa un’opera composta di immagini remote sostanziate di gesti materici ardenti e sottili, che scavano dalla polvere forme sempre cangianti. La materia, nella memoria, diventa prensile allo sguardo, al limite del visibile, e riconoscere una forma, nel bianco, è già un atto di conoscenza. Nel loro diventare possibili le cose vivono in luoghi interdetti, al limite del visibile, estranei a segni rassicuranti. Frani ci mostra uno spazio reale ma mitico, dove le cose continuano ad accadere come in un sonno cosciente; crea schizzi, disegni, trasparenze, nuove aperture di senso. “Mi colmerò di une terra celeste”, scrive René Char: questo è l’atto del pittore. Il simbolo, in Ettore Frani, non ha nulla di teoretico: allude a ciò che non c’è con cenni che vengono da un altrove tangibile. Il problema non è l’apertura del discorso (ogni discorso è uno scrigno chiuso) ma l’apertura del senso. Quando inizi una cosa, un disegno o una pittura, la prima cosa a cui pensare non è come la fai ma la prima idea che hai avuto: quella che apre al senso di te, come il bisturi che affonda nella carne.

Alcuni disegni, come partiture, non evocano nessuna ulteriorità ma solo un’ossessione musicale capace di penetrare le forme e scavarne la polvere di un dialogo. L’immaginazione attiva dell’artista percorre la memoria senza tempo dello sguardo come una sola forma fluens. Da alchimista, mette le mani nella materia, attualizza il simbolo, reinventa il passato remoto con segni nuovi e antichi. Sentinella insonne della sua opera mai conclusa, Frani dipinge dalla sua soglia, sospesa fra terra e cosmo. Segni, ombre, luccichii, scalfitture, crepe, vuoti, voli. Segni visibili, dunque. Quelli invisibili sono custoditi gelosamente come origine della forma in atto. Li percorre un presagio di luce, una felicità di disseminazione: le trame del vivente sono immerse in una memoria senza codici, in una nuova luce. Anche la polvere contiene alfabeti nascosti, come un sogno. Scrive Peter Handke: “Un sogno nel quale camminando senza sosta attraversavo tutte le fasi della mia esistenza; questo camminare divenne un vagabondaggio, il vagabondaggio una traversata del mondo (essere così addentro nei sogni da non poterne più uscire: splendida pazzia)”.

Ettore Frani è scrittore della sua opera, nei ritratti che emergono fra polvere e luce, semivisibili ma non spettrali. Viene alla mente Henri Michaux, con la sua spavalda indipendenza di pensiero, che avvicina alla verità errabonda dell’immagine e della parola: “Uno scrittore è un uomo che sa mantenere il contatto, che sa restare unito al proprio turbamento, alla zona viziata e mai placata di se stesso. È lei a portarlo”. Quando dice “scrittore” Michaux si riferisce all’artista tout court che lui stesso è stato – poeta, incisore, pittore, utilizzando scrittura e pittura come nervoso journal interiore, inarrestabile navigazione all’interno di se stessi a stento contenuta nella forma del libro o nei segni del quadro. “Scrivo per percorrermi. Dipingere, comporre, scrivere: percorrermi. In ciò sta l’avventura dell’essere vivi” commenta. Io aggiungerei: vivi verso l’origine, attenti alla nascita della luce. William Blake osserva che, per essere veramente folle, occorre difendere le proprie idee e fare durare a lungo la vita proprio per difenderle. I disegni, di Ettore Frani possiedono questa naturale follia: essere linea incessante che non può interrompersi, nella veglia e nel sonno, perché immersa nella realtà del Sogno, quella a cui tutta l’opera di Frani, fedele allo spirito di una luce a venire, alla necessità di non arrendersi al nero, è votata. Un artista ha delle visioni, chi non lo sa? Ma non saprebbe dire quali, non lo ricorda neppure, sa che non si fermano, che sono tutto un susseguirsi di punti che creano e intrecciano forme e colmano di figure un libro interiore destinato a crearsi e a dissolversi. La lingua scritta, il segno dipinto, hanno ancora un senso?

Verso la gioia rappresenta l’esito ultimo di una riflessione, urgente quanto strutturata, maturata negli ultimi anni della ricerca dell’artista. Il titolo della mostra non indica non tanto uno stato dell’essere quanto il senso di una tensione creativa orientata verso la vera mèta, in cui la sofferenza si scioglierà nella gioia e l’ombra nella luce. L’esposizione parte dalla grande composizione “Di polvere e luce”,composta da sessantaquattro disegni, fino a giungere al polittico ad olio “Verso la gioia”, che dà il titolo alla mostra – già esposto presso il Museo delle Cappuccine nel 2022 ma rielaborato per l’occasione dall’artista. Nelle otto sale e nei due corridoi dell’Ex-Convento di San Francesco di Bagnacavallo, Frani orchestra una partitura polifonica di molti dei soggetti presenti nella sua poetica – la figura umana, il paesaggio, la natura morta – con ii quali indaga e interroga l’indicibile “Oltre”, che mai si raggiungerà ma che sempre innerva di sé ogni atto creativo. Quattro “paesaggi”, dagli evocativi titoli “Di polvere e luce”, “Nello sguardo”, “Nel silenzio” e “Verso la gioia”, guidano lo spettatore a un ascolto attivo e contemplativo. Le opere presenti in ogni singolo ambiente non si pongono in maniera isolata ed autonoma ma sempre in relazione con le altre in esposizione e, attraverso rimandi e risonanze reiterazioni e assonanze, conducono lo spettatore a una riflessione originale sulla vita, l’essenza, l’identità dell’uomo nel cosmo, argomento nodale e radicale della poetica di Frani.

Torno, con un ultimo appunto, alla sezione Di polvere e luce, che ha un preciso significato: preparare lo spettatore a un’estasi futura, in cui non saprà distinguere fra la forma tangibile e sognata, perché tutto sarà semivisibile, immerso in una nebbia che, come è facile intuire, sarà la nebbia della non-conoscenza. Nulla sappiamo di una verità rivelata se non il sentimento che ne provava Kafka, quasi di fastidio. La verità è la fine delle visioni: e solo attraverso le visioni, in perenne mutamento, l’uomo si percepisce vivo, in quella che Coleridge chiamava “la sospensione dell’incredulità”: credere alla propria estasi e non alla propria ragione, immaginare le “figure segrete” che solo lui intravede, e per un attimo soltanto. Si può giudicare l’artista come un uomo che si sottrae al mondo per inseguire le sue personali fantasie? Io penso di no, restando fedele alle parole di René Char: “Obbedite ai vostri porci esistenti. Io mi sottometto ai miei dèi inesistenti”. Ma è come sempre l’autore, “ultimo a parlare”, che ci parla di sé, della sua “gentile rivolta” all’ordine delle cose, e le sue parole ci offrono una delle chiavi: “Dopotutto l’intera esistenza, come tutto il visibile che possiamo percepire, dal nero più profondo all’abbagliante assenza di colore, non è altro che luce espressa nei diversi ed infiniti gradi. Così anche la mia pittura, quando si avvicina alle ombre o tenta di radicarsi nella polvere più sorda, non fa altro, ancora, che rimandare alla luce. Anche l’apparente assenza di luce è un discorso a lato sulla luce. Anche il nero più denso e compatto, che permea di sé gli oggetti nella loro totalità, è lì per indicare un certo tipo di luce: altra, certo, e non visibile/sensibile se non nella forzatura-distorsione che il pittore le imprime (mi riferisco in particolar modo alle opere del ciclo Lo splendore del nero)”. E ancora, entrando nell’intimo dettaglio dei disegni (ogni artista sa quanto il disegno, più della pittura, lo accosti involontariamente alle parti più arcaiche del suo inconscio): “Di polvere e luce è l’amaro e silenzioso canto verso tutto il nostro apparire e svanire. Un tentativo, nonostante tutto, di tenere assieme i viventi e chi si è vestito di invisibilità. I disegni, esprimono forse meglio della mia pittura, quella che è la loro e nostra mancanza ad essere. Il loro essere rarefatti, e come osservati non dalla parte dell’essere, ma da quella del nulla, mi indica qualcosa di essenziale legato alla nostra condizione di viandanti. Non tutto è votato al silenzio e alla perdita. Qualcosa di noi resta e ci testimonia”. Ettore Frani pensa e ripensa la sua opera. Non si limita ad attuarla ma la ragiona dentro di sé, dimostrando che l’estasi sonnambula dell’atto creativo non deve separarsi dalla sua razionale e rigorosa realizzazione: “In entrambi i casi, sia nella pittura come nel disegno, si tratta di un’esecuzione che impegna ad attraversare un tempo sospeso, meditativo, nella ripetizione assidua di un gesto, che si fa scavo – mai impaziente – nella pelle della pittura. Una sorta di stenografia minuziosa, in punta di grafite, o di bulino – se si tratta di dipinti – che diviene tempo, ritmo e danza. Alfabeto arcano per una lingua dal messaggio indiscernibile…Il tempo, infine, come tema sommerso, con il suo trascorrere circolare, è presente in molti degli ultimi lavori, in quanto sono molte le opere il cui esito è il risultato di varie velature, stratificazioni, seppellimenti, scavi, avvenuti ripetutamente nel corso degli ultimi anni (le doppie date testimoniano proprio questo). Qualcosa è stato coperto, sottratto, poi nuovamente velato e ri-velato con nuova luce”. Che cosa può significare il lavoro archeologico e di dissodamento di Frani? Una scontentezza dell’atto artistico, che esige sempre nuove prove, alla ricerca di una Luce sempre sfuggente?

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