“Occupa una stasi dell’ispirazione con l’ordinata ricopiatura del già scritto. L’intuizione ne verrà risvegliata”. Letto il suggerimento di Benjamin, si fa strada immediatamente il timore di vedersi condannati a ricopiare all’infinito.
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Un libro fatto di sole citazioni costituirebbe, per dirla con Bnejamin, “La tecnica di mosaico più folle che si possa concepire”, anche se per giungere a un simile risultato egli reputa necessaria l’applicazione di quella che la retorica antica chiamava dispositio, vale a dire la costruizone e la messa in opera del materiale in modo che tutto risulti in un equiibrio perfetto come quei massi che, da milioni di anni, formano i terreni rocciosi.
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Il carisma che Baudelaire attribuisce agli “scrittori in ritardo” può avere indotto Benjamin ad occuparsi di un autore come Bachofen, il quale vede la propria notorietà preclusa al grande pubblico della sua epoca e limitata, anche per quanto riguarda le generazioni successive, ad una cerchia specialistica di studiosi. A tale proposito, dunque, il critico berlinese afferma che quelli come Bachofen “raramente e tardi arrivano alla gloria”.
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La scrittura frammentaria dovrebbe avere quella che Benjamin, in una nota dei suoi passages di Parigi, definisce come “la tipica irresolutezza del flâneur”. Il compito di procedere sarà quindi affidato, ancor più che alle parole, agli spazi vuoti che intercorrono tra un frammento e l’altro.
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I cambiamenti esteriori non possono pretendere neppure di scalfire la predisposizione interiore, se questa è improntata alla malinconia. “I miei ricordi più cari sono grevi come rocce”, recita un verso di Baudelaire, e se un giorno qualcuno riuscisse a sollevarle, “l’impronta che egli vi ha lasciato – chiosa Benjamin – deve emergere chiara ed intatta come quella di una pietra che sia stata un bel giorno capovolta e sollevata dal posto in cui era rimasta a giacere per decenni”.
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Un’opera articolata e complessa può anche scaturire da episodi curiosi, come quello al quale Benjamin fa riferimento a proposito del saggio Il dramma barocco tedesco, nato, a suo dire, quando egli assistette ad una rappresentazione di marionette e precisamente nell’attimo in cui vide comparire sulla scena un re con la corona sbilenca sulla testa. Il filosofo fa ancora appello alla sorpresa seppure in un contesto diverso, quello che ha come sfondo un racconto di Erodoto, dove campeggia il sentimento del dolore, “che non sopravviene mai quando dovrebbe; è un coperchio o un cappello che non è mai della misura giusta”.
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In una lettera da Ibiza all’amico Gershom Scholem, Benjamin confida di aver ridotto le proprie esigenze materiali “a un minimo praticamente non più ribassabile”. Da ciò si potrebbe dedurre che i processi più profondi che danno vita alla scrittura siano legati ad una drastica rarefazione degli elementi che compongono la vita quotidiana. Soltanto così, protetta dalla solitudine e dal silenzio, essa potrà forse concedere qualcuno dei suoi segreti.
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“Figlio della (mano) destra” è il significato letterale del suo cognome. “Figlio della fortuna”, proprio lui che questa non degnò mai nemmeno di uno sguardo?
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Quando si fa visita a quella che un tempo fu la casa di un uomo illustre è necessario avere un atteggiamento che non sia quello del visitatore curioso, benché disposto a rendergli il giusto omaggio. Bisogna prendere esempio da Benjamin che, quando si trovò insieme al vecchio Goethe, si offrì umilmente di aiutarlo ad alzarsi da tavola una volta terminato il pranzo. Che ciò sia stato frutto di un sogno non ha alcuna importanza.
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Come scrive Benjamin, quando si visita un planetario si ha l’impressione che “il corteggiamento del cosmo si sia compiuto nello spirito della tecnica”.
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Ispirandosi a una massima di Jean Paul, Benjamin scrisse che “di tutte le maniere per procurarsi libri, la più degna di lode è quella di scriverli da sé”.
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Il carteggio tra Benjamin e Scholem si sviluppa ad altezze siderali; ogni stella che appare è una lettera ricevuta oppure inviata.
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In una foto scattata da Gisèle Freund nei pressi dell’abbazia di Pontigny, Benjamin è intento a fissare un piccolo fiore giallo che tiene tra le dita. “Raccolgo fiori al margine del minimo esistenziale”, ebbe a scrivere in una lettera ad una parente e andata poi perduta.
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Sollecitato da un editore a dare vita a una rivista, Benjamin decise di intitolarla Angelus Novus. Tale nome alludeva all’effimero destino degli angeli talmudici, ma essa sarebbe stata una farfalla mai pronta per uscire dal bozzolo.
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Quando l’omino gobbo prende di mira qualcuno per lui sono guai, soprattutto se si tratta di un bambino. Con il suo sguardo puntato addosso, gli oggetti gli cascano dalle mani e vanno in pezzi, ma ciò è solo l’inizio di tutta una serie di sciagure: “le cose si ritraevano, sino a che, passato un anno, il giardino divenne un giardinetto, la mia camera una cameretta, la panca una panchetta”. L’omino si impossessa a poco a poco di ciò che appartiene alla sua vittima, soffoca le sue aspirazioni e i suoi progetti senza che essa possa fare nulla per opporglisi, divenendo infine il proprietario delle immagini di una vita intera, che si dice scorrano davanti agli occhi del morente. A quel punto, chiosa Benjamin, L’omino con la gobba “ha concluso il suo lavoro”.
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L’impressione che si ha leggendo il saggio di Benjamin su Kafka è quella di attraversare le sale di una galleria di dipinti. Nella prima campeggia il ritratto del cancelliere imperiale Potemkin, rinchiuso nella sua stanza da letto “a rosicchiarsi le unghie, in una vestaglia consunta”; esponente perfetto del mondo kafkiano, fatto di “cancellerie, uffici, camere buie, logore e muffite”. Proseguendo nella visita troviamo il Ritratto di un bambino, non altri che lo scrittore stesso raffigurato in un dittico; da un lato, nello studio fotografico ingombro di “tendaggi ed arazzi”, il gracile corpo rinchiuso “in un abitino stretto, quasi umiliante, sovraccarico di trine”, dall’altro, invece, preso dal desiderio irrefrenabile di “essere un indiano, sul cavallo in corsa”, quando però il cavallo “è già senza il collo e senza la testa”. Di seguito ci si trova faccia a faccia con quello che può essere indicato come il nume di Benjamin, che non ha mai distolto lo sguardo da lui, “questo ometto che è l’inquilino della vita distorta”, l’Omino gobbo. L’ultimo, Sancho Panza, mette a disposizione del suo padrone “nelle ore serali e notturne una quantità di storie di cavalleria e di brigantaggio” tanto folli quanto innocue, mentre egli “ne trasse un grande e utile svago fino alla fine dei suoi giorni”.
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Quando Benjamin ci parla della sua passione nel collezionare libri, la mente corre al perfetto borghese ritirato nella quiete dell’ambiente domestico. Sappiamo invece che niente è più lontano da questa immagine rispetto alla vita che lo scrittore condusse costantemente in preda alle ristrettezze e ai bisogni più elementari. I mattoni della casa che egli non ebbe mai erano fatti di libri, le pagine più ingiallite erano i ricordi più remoti.
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Benjamin scrive che “il carattere distruttivo non vede alcunché di duraturo. Riduce l’esistente in macerie non per amor delle macerie ma della via d’uscita che le attraversa”. Simili scorciatoie hanno in serbo un unico destino, racchiuso in questo verso di Brecht: “Di queste città resterà solo chi le attraversa ora: il vento!”.
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Uno degli elementi che emerge con più forza nel saggio su Karl Kraus è la devozione che il direttore della “Fackel” ha per il linguaggio. “Nella proposizione dipendente, nella particella, persino nella virgola vede palpitare muti brandelli e filamenti di nervi” e ciò al netto dell’importanza che può avere la notizia giornalistica, se poco oltre si afferma che “anche al fatto più remoto e più arido stia attaccato un pezzo della carne dilaniata”. Del resto, il legame così intimo con la lingua che Benjamin pone qui in evidenza era già al centro delle sue preoccupazioni a partire dal saggio del 1916 Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, ove la caduta dal Paradiso terrestre ha, come conseguenza ancora più fatale, quella “nell’abisso della ciarla”.
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Passages è il titolo dell’installazione che lo scultore ebreo Dani Karavan ha eretto sulla spiaggia di Port Bou in Catalogna al confine iberico con la Francia meridionale, il luogo dove Benjamin decise di togliersi la vita nella notte tra il 25 e il 26 settembre 1940. E passage è proprio il lungo corridoio in ferro, un pozzo di scale che si getta nel vuoto del mare, metafora del sentiero ultimo intrapreso dal filosofo braccato dai nazisti e forse ancor più dai suoi fantasmi. Al fondo di quei gradini si scorge una minuscola uscita, poco più di un foro rievocante quell’enorme abbozzo di saggio che sono i Passagen-werk, gli stretti corridoi della Parigi ottocentesca, tortuosi e malfamati ma brulicanti di vita, demoliti per fare spazio agli eleganti boulevards rettilinei e asettici, espressione della modernità borghese. Un modo questo, seppure estremo, di “passare” come quello nei versi del suo amico Brecht: “spinto alla fine a un’invalicabile frontiera hai valicato, dicono, una frontiera valicabile”, nonostante la sinistra presenza di un uomo armato di fucile che incombe sul suo capo assorto nella serigrafia di Valerio Adami.
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Di un “culto barocco della rovina” parla Benjamin nel suo Dramma barocco tedesco ed essa appare “come frammento insigne”. “La rovina è l’esperienza stessa”, gli fa eco Derrida.
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Benjamin e Wittgenstein scrivono l’uno su Bachofen e l’altro su Frazer: con la mirra il primo, con il curaro il secondo.
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Benjamin annota che Brecht ha scritto il suo Breviario tedesco in uno stile “lapidario”, lo stesso delle epigrafi incise sulla pietra.
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Sul muro c’era scritto col gesso: / vogliono la guerra. / Chi l’ha scritto / è già caduto. Benjamin individua in questi versi del Breviario la chiave del commento nell’epoca attuale. Non più incisi sulla pietra, “come all’epoca dei romani”, fatti per attraversare le generazioni e i secoli, ma buttati giù in fretta da “combattenti illegali” in fuga dagli “agenti della Gestapo”. Pur rimanendo fedele ai suoi presupposti di adesione alla classicità dei testi, il commento deve fronteggiare una minaccia prima d’ora inusitata che, privatolo delle movenze arcaiche e felpate, lo costringe in scarpe sporche di fango che presto finiranno nei piedi di un altro.
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In Esperienza e povertà Benjamin pone la domanda su chi sia ancora in grado di “raccontare qualcosa come si deve”. Ci sono eventi la cui tragedia è il mantice che soffia su questa particolare forma di afasia, come quella che si abbatte su tutta quanta la generazione del 1914-18, che “aveva fatto una delle più mostruose esperienze della storia mondiale” e che “se ne tornava muta dai campi di battaglia, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile”. La “fiumana dei libri di guerra” apparsa negli anni successivi non riuscirà in alcun modo a ridare voce a chi pure era partito per il fronte al suono delle fanfare patriottiche.
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Nell’autoritratto della pittrice olandese ‘Toet’ ten Cate si può cogliere la passione che Benjamin provò per lei, che fu l’ispiratrice del testo esoterico Agesilaus Santander e alla quale dedicò due poesie, dove i tratti delicati e severi del suo viso emergono dal silenzio della tela per ricomporre il più antico connubio, “come la prima donna fu per il primo uomo”.
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Uomini tedeschi pubblicato da Benjamin nel 1936 sotto lo pseudonimo di Detlef Holz è un’antologia commentata di lettere di “uomini tedeschi”, alcuni illustri – da Lichtenberg a Holderlin, da Buchner a Brentano e a Goethe – accanto ad altri pressoché ignoti, con l’intento di testimoniare una linea di civiltà, di costume e di cultura che la barbarie nazista era sul punto di cancellare. “Un’arca da me costruita quando il diluvio fascista cominciava a salire”.
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“Il respiro di Benjamin è il periodo, o addirittura la frase”, avverte Renato Solmi nel suo saggio introduttivo ad una raccolta di scritti del Berlinese. Sorprende, in effetti, la cura che pone nel prelevare singole frasi di altri per poi incastonarle nella tela del discorso con un effetto, il più delle volte, di totale sorpresa nel lettore. Egli stesso ne è consapevole, se in un aforisma di Strada a senso unico arriva a dire che “le citazioni, nel mio lavoro, sono come briganti ai bordi della strada, che balzano fuori armati e strappano l’assenso all’ozioso viandante”.
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Conferire al progresso l’impronta di una teologia negativa è quanto fa Benjamin allorché scrive che “occorre fondare il progresso nell’idea della catastrofe”, e su ciò si deve essere d’accordo se si è consapevoli che l’accettare supini il dispiegarsi quotidiano degli avvenimenti “è la catastrofe”.
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In una nota del suo lavoro su Baudelaire, Benjamin fa presente che a Parigi “intorno al 1840 fu per qualche tempo di moda condurre tartarughe al guinzaglio nelle ‘gallerie’” e che “il flâneur si faceva volentieri dettare il ritmo da loro”. Nel suo ambiente naturale egli è padrone di sé stesso, agisce negli spazi che gli sono familiari estraneo alla febbrile attività della massa, costretta a dover “tenere dietro alle sue faccende”. Questi movimenti lenti e divergenti, che vedono il loro compimento naturale in una paziente meditazione hanno in qualche modo a che fare con la forma del romanzo, della quale la “prima cosa che balza agli occhi […] è la sua apparente libertà e mancanza di regole”.
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La folla che compare nel racconto di Poe è quella della Citydi Londra che, “all’imbrunire […] cresceva da un minuto all’altro; e quando si accesero le luci a gas, due fitte, compatte fiumane di passanti s’incrociavano davanti al caffè”. Il protagonista, “un vecchio di sessantacinque o settant’anni”, ne è l’epitome al punto che sembra nutrirsi di essa e, quando nel suo frenetico girovagare viene a trovarsi nei punti dove si dirada, egli perde slancio e si smarrisce, per poi riacquistare nuova lena quando la folla torna a infittirsi. Se Baudelaire, che tradusse L’uomo della folla, vuole prendere questo tizio e catapultarlo nei vicoli parigini per farne un flâneur, Benjamin non ritiene la cosa opportuna. “L’uomo della folla non è un flâneur. In lui l’abito tranquillo ha lasciato il posto a un tenore maniaco”; questo perché, rispetto alla Londra descritta da Poe, “la Parigi di Baudelaire conserva alcuni tratti del buon tempo antico”, dove “erano ancora in voga le gallerie”, e lì “il flâneur era sottratto alla vista dei veicoli, che non tollerano la concorrenza del pedone”.Oggi, dal momento che si è ben lungi dall’avere uno sguardo acuto come il loro, si fa prima a dire che è tutto uguale.
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Tra le numerose fotografie dei passages di Parigi scattate da Charles Marville, poco prima che essi venissero smantellati per lasciare spazio ai boulevards voluti da Haussmann, vi è uno scorcio strettissimo che, sul lato sinistro, vede un basso colonnato con delle scritte che potrebbero essere le insegne del negozio lì accanto, mentre, esposti sul muro del medesimo lato, alcuni logori manifesti sembra vogliano restituire vita al tempo trascorso. Le tre finestre poste in verticale del caseggiato sullo sfondo hanno le tendine semiaperte e sormontano un piccolo ingresso ad arco, dal quale ci si aspetta di riuscire a scorgere, da un momento all’altro, la figura di Benjamin.
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Perché Parigi e non Roma ha creato il tipo del flâneur? Quest’ultima è “troppo piena di templi, piazze recintate e santuari nazionali”; città fatta per turisti che hanno sempre lo sguardo rivolto intorno a sé o verso l’alto e mai sui “selciati, le insegne, gli scalini.” A Parigi, invece, “la terra promessa del flâneur”, la città si fa “paesaggio”.
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Il flâneur paragonato a quell’”ozioso che Socrate sceglieva come interlocutore sull’agora di Atene”. La borghesia ha tolto di mezzo il filosofo e l’ha sostituito con una figura collocabile ai suoi antipodi, che assume le fattezze dell’Uomo della folla di Poe, “un licantropo inquieto che vaga nella selva sociale”.
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Il passage è una casa proiettata all’esterno. Di quanto vi si vede esiste un corrispettivo tra le mura domestiche: “la fuga dei cortili, che conduce all’aria aperta, è il lungo corridoio che spaventa il borghese e rappresenta la sua via d’accesso alle camere della città”, il tutto come quei vecchi soprabiti double-face.
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“Il ferro […] lo si impiega nei passages […]. Nello stesso tempo si estende il campo di applicazione architettonica del vetro”. L’utopia di Scheerbart, nella sua Architettura di vetro, ancora non è altro che un puntino all’orizzonte.
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Il dominio della borghesia doveva trovare la sua “apoteosi nella cornice delle grandi arterie stradali”. L’attività di Haussmann è tutta incentrata in questa direzione, mentre Parigi assiste a una fioritura del capitale finanziario e “il gioco in borsa soppianta le forme del gioco d’azzardo ereditate dalla società feudale”. A tutto ciò assiste impotente il flâneur, finché i contorni della sua sagoma si perdono confondendosi con il grigio dei muri e degli acciottolati.
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I fogli di appunti sui passages che Benjamin è intento a riempire nella sala di lettura della Biblioteca Nazionale di Parigi non sono, a differenza di quanto si possa immaginare, l’atto iniziale di un lavoro che deve ancora prendere forma, bensì ciò che “è stato incominciato sotto un cielo libero, di un azzurro senza nubi” da forze primigenie che egli ha inteso rievocare con i poteri di Malambruno, un mago dal volto perennemente imbronciato.
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Come ricorda in un suo scritto Jean Selz, la permanenza di Benjamin a Ibiza avvenne in due momenti distinti; il primo a partire dalla primavera del 1932 fino all’inverno dello stesso anno, mentre il secondo vide il suo ritorno sull’isola l’estate successiva, ma in un’atmosfera completamente cambiata rispetto a quella del periodo precedente. Selz parla apertamente di infiltrati della Gestapo, il cui compito era quello di sorvegliare il numero sempre crescente di rifugiati politici; dal conto suo Benjamin si rivolge a Gretel Adorno nelle righe di una lettera, e lì quella minaccia sembra non dare adito ad alcuna possibilità di scampo quando allude alla comparsa di “’villeggianti estivi’, rispetto ai quali non è sempre facile fare una distinzione precisa tra stagione estiva e ultima stagione della vita”.
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Se per Aristotele la natura è una strada (‘odos’) in cammino verso sé stessa, a ciò si può paragonare il libro che Benjamin scrisse su Baudelaire, mentre gli altri lavori prodotti nello stesso periodo sono soltanto la sua “armatura teorica”.
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“Allo spirito non si può conferire la libera docenza”. L’ infame e sfrontata battuta con la quale il mondo accademico chiuse le porte in faccia a Benjamin non è che il prodromo di ciò che accadrà poco tempo dopo, allorché lo spirito abbandonerà la Germania per non assistere alla sua rovina.
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Hofmannsthal, che nel 1924 pubblicò nella sua rivista il saggio di Benjamin sulle Affinità elettive di Goethe, lo definì “assolutamente incomparabile” e ciò può dirsi vero alla lettera, nel senso che niente di simile era stato prodotto fino ad allora nell’ambito della critica letteraria. ‘Insolito’, ‘fuori posto’ si traduce in greco con ‘atopia’ oppure, e in special modo nel caso di Benjamin, con sui generis.
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Nella biblioteca di Benjamin esistevano, accanto ai libri di lettura e di consultazione, due raccolte distinte: una di volumi rari per bambini, l’altra di libri scritti da malati di mente. Cosa insolita per uno che non aveva interessi specifici né per la psichiatria, né per la pedagogia, meno se le si vede come i due argini che, malgrado siano sconnessi e insicuri, contengono nel proprio alveo le acque del possesso, il quale è “fra tutti, il rapporto più profondo che sia possibile stabilire con le cose”.
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“Io tocco un estremo. Un naufrago alla deriva su un relitto, che si arrampica sulla cima dell’albero ormai fradicio. Ma di lassù egli ha la possibilità di dare un segnale che lo può salvare”. Spinto sull’orlo dell’abisso dagli eventi di un’epoca nefasta, Benjamin scorge nondimeno la possibilità di una salvezza. Quale che sia questa salvezza, essa non sarà mai immanente ma sempre in avvenire e colma di speranza che, però, come dice Kafka, “non è per noi”.
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Ai funerali di Hannah Arendt, Hans Jonas disse di lei che “aveva il genio dell’amicizia”. E così doveva essere se si leggono i versi che per titolo hanno un laconico W.B., uno di quella schiera di amici “che noi mandammo avanti come messaggeri a farci da guida”, guidati a loro volta dal messaggero talmudico “che possiede artigli e ali affilate come lame”.

Paul Klee, Angelus novus
