*I testi sono tratti da: Luigi Sasso, A fondo perduto, I Libri dell’Arca, Joker Edizioni, Novi Ligure 2024.


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Nervature e filamenti
Che cosa sono la poesia, la letteratura, se non modi per stabilire nessi inconsueti tra le cose, tentativi di scorgere delle trame segrete, a un primo sguardo inavvertibili, nella realtà? Sul foglio tutto è davvero possibile: gli oggetti prendono qualità e funzioni umane, un destino si trasforma in un organismo vegetale, in una concrezione. Un verso di Dante ci mostra un ramo, d’autunno, da cui si staccano le foglie una dopo l’altra, finché esso alla fine «vede a terra tutte le sue spoglie». Quel ramo, come ha fatto notare Tibor Wlassics, acquista una fisionomia umana, ci sembra dotato di una sensibilità, di una dimensione individuale, forse addirittura di una psicologia. E una montagnola di sassi che su un sentiero interrompe l’erba mediana può assomigliare, scrive René Char, a un’ombra, un risvolto oscuro che «mette fine al pensiero».
La scrittura disfa e ricompone la realtà, turba e cerca di sovvertire l’ordine del mondo. S’insinua sotto la pelle del reale per cogliere l’intrico di nervature e di filamenti, per rendere più sensibili i nostri sistemi di ricezione. Per ottenere questo scopo fa leva sugli aspetti solitamente trascurati o rimossi del linguaggio, vale a dire non solo la dimensione sonora, il lato del significante, ma tutte quelle deviazioni che una volta codificate hanno preso il nome di figure retoriche. Le quali sono appunto un insieme di inciampi, di dilazioni, ripetizioni, fratture, inedite congiunzioni, ambiguità che finiscono col presentarci una nuova fisionomia delle cose.
Il fatto singolare è che questo nuovo volto, nato da una originale struttura del discorso, da un ripensamento e da una ricostruzione dell’architettura della frase, verbale, ma anche plastica ‒ perché un quadro, per esempio, è composto da sequenze cromatico-formali, o da impasti informi di materia, da una grana espressiva che lo rende leggibile al pari di una pagina – o musicale che sia, questo volto insomma nato da percorsi inconsueti e rischiosi ci appare, nel momento in cui si presenta a noi lettori, quale l’unico possibile, vero, credibile. Non potremmo spostare o modificare nulla all’interno di quel verso, di quella frase, di quella sequenza musicale, di quella superficie di colori, ogni minima variazione farebbe crollare l’insieme, lo trasformerebbe in un organismo di tutt’altra natura. Dai vuoti, dai silenzi, dalle sconnessioni del discorso, dai nuovi accostamenti delle sue parti scaturisce, con l’imprevedibilità di un gesto, qualcosa destinato a farsi presenza costante, incancellabile, a fissarsi nella nostra memoria, a rendere più ampio e profondo il nostro rapporto con la realtà. Il risultato è una forma, un ordine, una struttura: una fisionomia che tenta di sottrarsi al comune destino di precarietà.
Gli occhiali di Kounellis
Ciò che si vede, in fondo al pozzo, è un numero incalcolabile di occhiali. È il pozzo di S. Caterina, a Montalcino. Si tratta di un elemento piuttosto consueto del paesaggio urbanistico di queste zone. Un pozzo in pietra si trova nella piazza principale di Pienza, un altro di fronte alla chiesa di S. Agostino, a Montepulciano. Questo elemento dell’arredo urbano che, nella vecchia Montalcino, forniva l’acqua a un intero quartiere, si è trasformato in un’installazione di Jannis Kounellis. Il pozzo ha quattro imboccature sovrastate da una struttura di ferro su cui sono ancorate altrettante carrucole. I quattro fori sono aperti, i coperchi di ferro sono sollevati. Quello che l’artista ci chiede di fare è rovesciare la direzione del nostro sguardo, abbandonare la dimensione orizzontale o quella, che in alto, porta a contemplare la facciata e il campanile del duomo ‒ una costruzione neoclassica, in contrasto con l’aspetto medievale del resto della città ‒ per volgere gli occhi all’ingiù, immergerci nell’oscurità del pozzo. Per infilare la testa in uno dei quattro fori, dei quattro occhi del pozzo. Fino alla sorgente di ogni sguardo. Qui riusciamo a scorgere una catasta di montature e di lenti, tutte più o meno dello stesso tipo, ma di diversa forma: sono gli strumenti del nostro vedere, o meglio gli strumenti per correggere l’insufficienza del nostro vedere.
Resta poco da aggiungere per descrivere il gesto compiuto da Kounellis. Il quale tuttavia comunica un senso di inquietudine che impone di essere affrontato, in una certa misura spiegato. Dobbiamo partire dalla nostra condizione di osservatori, dai gesti che siamo noi ora invitati a compiere. Una visione verso il basso, in profondità, in direzione dell’origine, là dove ci aspetteremmo di trovare l’acqua, l’elemento primario e fondamentale della vita. E invece riusciamo a scorgere soltanto una catasta di occhiali. Oggetti che lasciano supporre di essere appartenuti a uomini, donne, bambini, oggetti che raccontano di vite e di destini finiti chissà dove, di cui non sappiamo, né potremo mai sapere niente. Il pozzo trasforma la natura del nostro sguardo, ci offre una visione del tempo, più che dello spazio, una visione che si sposta a ritroso negli anni, che ci separa sempre di più dalla dolcezza delle colline toscane, dalla luminosità del giorno. Nell’oscurità, quasi come un ricordo che lentamente riaffiora, il mucchio di occhiali si delinea, prende consistenza. È tutto ciò che riusciamo a scorgere, là in fondo. Non il riflesso della luce del cielo, né i lineamenti della nostra immagine, ma ciò che costituisce un’identità meno esteriore: il vuoto, un distacco definitivo, oggetti che ci parlano di un passato quasi sepolto, ma che, tra le ombre della memoria, si ostina a ritornare.
La malattia e la cura
Forse un giorno potremo davvero comprendere se scrivere sia una cura o una malattia. Se possa guarire una ferita, ricomporre un’immagine dandole un senso, una fisionomia riconoscibile, un volto persino familiare. Sarebbe importante sapere se una crepa, un errore, una ruga possano alla fine cancellarsi, o perlomeno ridursi a un’ombra, un velo quasi invisibile. Ci sono pagine che lasciano supporre che la scrittura sia proprio questo: un farmaco. Ce ne fornisce esempi Danilo Kiš. In Homo poeticus si sofferma più volte sulle qualità terapeutiche della scrittura: «La letteratura, la scrittura» annota «sono una sorta di medicina, quanto meno un rimedio embrionale… ai mali di questo mondo».
Se in questa affermazione la letteratura viene proposta come uno strumento capace persino di raddrizzare le storture della realtà in cui viviamo, con uno slancio che potrebbe sembrare generoso quanto un po’ ingenuo, altrove Kiš sembra cogliere il valore terapeutico dell’atto di scrivere in una dimensione più privata. Dedicarsi alla letteratura diventa un modo di crescere, di liberarsi dai vincoli e dalle angosce dell’infanzia: «Ho vissuto durante la guerra in Ungheria, ero un bambino ossessionato dal peccato perché i coetanei mi perseguitavano. Vivevo nell’incubo e nella paura […] E la scrittura per me è proprio un modo di liberarmi da queste ossessioni».
Kiš individua anche il tipo di terapia, il protocollo che la letteratura riesce a mettere in pratica. È l’ironia, strumento capace di evitare il rischio di uno scivolamento nel patetico e nel contempo di circoscrivere e di combattere il male secreto da ogni vita: «L’ironia è l’unico modo per lottare contro l’orrore dell’esistenza. E nella scrittura è un ingrediente indispensabile. Altrimenti tutto ciò che scriviamo diventa sentimentale, piagnucoloso. Nei miei libri utilizzo l’ironia e cambio le prospettive; in un dato momento osservo gli eventi in modo oggettivo, come il narratore onnisciente dei romantici, poi distruggo volontariamente l’illusione e rivolgendomi al lettore in veste di autore gli dico: qui abbiamo a che fare con la letteratura, e la letteratura è solo il riflesso della realtà».
Che la letteratura, al contrario, possa essere una malattia, molte pagine, soprattutto della prima metà del Novecento, sono lì a ricordarcelo. Gozzano, Svevo, Thomas Mann, ci forniscono adeguata documentazione: e non solo tra le righe di un romanzo, nei versi di una poesia, ma anche in annotazioni diaristiche, in dichiarazioni di poetica. Il divorzio tra letteratura e vita trasforma la prima in un esangue simulacro, in una proiezione fantasmatica, e l’attività che la genera in una patologia spesso letale. Dobbiamo concludere che la prospettiva cambia a seconda del momento storico? Che ogni epoca si distingue nel modo – tossico o balsamico ‒ di concepire l’attività di scrivere? O che questa scelta sia affidata a ogni singolo autore?
Per restare a Kiš, intanto, vale la pena notare come in lui questa dialettica sia portata sino alle estreme conseguenze. La letteratura diventa da un lato la terapia non solo di forme patologiche, ma anche una risposta alla morte: «Sì, la morte è uno dei miei temi ricorrenti. D’altra parte, la morte occupa un posto centrale in ogni interrogazione filosofica, in ogni domanda religiosa, anche se poi le filosofie e le religioni di questa nostra epoca di decadenza non sviluppano la riflessione sulla morte e tanto meno danno una soluzione. Allora spetta alla letteratura dar conto della morte e riflettere sulla sua presenza nella vita degli uomini»; dall’altro la letteratura stessa diventa una malattia, grave proprio perché si manifesta come ricerca di qualcosa di irraggiungibile, e tale dunque da rifiutare ogni forma di intervento terapeutico, da non rispondere a qualsiasi farmaco o lenimento, da tornare, col ritmo di una pulsazione o di un respiro, a imporre la sua dolorosa presenza: «…la mia malattia è la ricerca dell’assoluto attraverso la letteratura. La letteratura in quanto desiderio di un’altra vita, la letteratura scritta con il corpo, la letteratura che inizia a condurre una vita propria, la letteratura come malattia». Ogni pagina di Kiš oscilla tra questa due condizioni, sottopone questo nodo alla logica dell’interpretazione, chiede, ostinatamente: scrivere è una cura o una malattia?
Dialoghi
Leggere un libro è una forma di dialogo. Movendoci all’interno di una pagina entriamo in rapporto con un’altra persona, ne seguiamo le riflessioni, ne possiamo cogliere le emozioni, scorrere le immagini. È un gesto che consente di ridare vita ai segni alfabetici, di trasformarli in voce, di tradurli in idee o in un racconto, di sottoporli a un processo di metamorfosi. È un’operazione che ci mette completamente in gioco, che ci chiede di far appello ai nostri ricordi, alle nostre conoscenze, che ci costringe a prendere posizione. Quel libro, dopo averci incontrato, non è più lo stesso, nemmeno noi possiamo dire di essere identici a prima. Il dialogo ci ha resi diversi.
Leggere è intrecciare un nodo che lega tra loro vite, tempi differenti. Che mette in relazione uomini che appartengono a epoche lontane, consentendo un movimento a ritroso che trova il suo archetipo e la sua esemplificazione più esplicita nella Commedia dantesca: un percorso tra le ombre, a cominciare da quelle che l’inchiostro disegna sulla pagina. Ogni opera letteraria diventa simile a una lettera, un messaggio che ci giunge da una persona assente, che forse nemmeno vive più, ma che attende da noi, con urgenza, una risposta.
Questa condizione è comune a ogni fatto artistico. Ciò spiega come mai sia possibile, e nel medesimo tempo assai proficuo, un altro tipo di dialogo, il confronto tra differenti forme espressive. Non allo scopo di fonderle nel sogno di un’arte totale, ma per provocare una sorta di attrito, un contatto, scintille. Cosa legge uno scrittore in un tema musicale? E un pittore in un racconto, in un aforisma? È possibile che questi approcci abbiano come risultato una prospettiva straniata, una frase dissonante, che aprano varchi, soluzioni nuove? Così un poeta come Yves Bonnefoy riesce a cogliere, in alcune tele di Hopper, non solo la profondità di temi come la solitudine o la sopravvivenza della speranza – richiamata da un inatteso splendore del sole ‒ ma anche la trasformazione, il mutamento di segno di un motivo che ha accompagnato la storia della pittura occidentale, come se la vita di un anonimo impiegato, di una giovane donna del tutto simile a milioni di altre, fosse rischiarata, per un attimo, dall’epifania del sacro: «Sì, sono come Annunciazioni senza teologia e senza promessa, ma non prive di un residuo di speranza; e questo fatto ha, ai miei occhi, un grande significato, per Hopper e per il suo rapporto con se stesso, perché la nostalgia che si avverte nei suoi personaggi non può essere che la sua…».
Ma c’è un ulteriore livello di dialogo. C’è una struttura binaria, duale, doppia, in ogni fatto artistico, in ogni pagina letteraria. C’è un’articolazione che si sviluppa in due tempi, una tensione dialettica, un movimento di implosione e di espansione. Lo chiarisce bene la musica: tutto può partire da una frase, o da un’unità ancora più piccola, due note, un intervallo di terza, e crescere e svilupparsi, e formare una costruzione, un’armonia. E quando la pagina è scritta, quel punto iniziale quasi non si vede più, sembra disperso, come un grano di polvere… volato via. Questo respiro, che si apre e si chiude, questo battito è l’arte, è la scrittura.
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Luigi Sasso (1954) vive a Genova. Ha pubblicato una monografia su Antonio Porta (La Nuova Italia, Firenze 1980), Il nome nella letteratura (Marietti, Genova 1990), Il sogno del pavone (Liber, Pavia 1994), Nomi di cenere (Pisa, ETS 2003), Fuori dal paradiso (Novi Ligure, I Libri dell’Arca, Joker 2005), Tutti i nomi del mondo (ivi, 2009), Vocazioni (ivi, 2017). Ha curato l’edizione di opere di Giovanni Boccaccio, Vittorio Imbriani, Carlo Dossi, Paolo Valera e tradotto testi di Jean Dubuffet, Francis Bacon, André Masson.
