I taccuini di Marco Ercolani (dai testi editi, Sentinella, Nottario, Essere e non essere, L’altro dentro di noi, a quelli inediti, Sindrome del ritorno, Anticira, Eclissi), hanno una risonanza comune: esigono che l’io non molesti il flusso del pensiero e delle immagini, che si celi e finga di sparire. Solo nella sua consapevole eclisse il pensiero-immagine ha libero modo di sviluppare le sue variazioni. Dove l’eco autobiografica è necessaria, va elusa o trasfigurata. Occorre che il lettore, come se leggesse pagine dello Zibaldone o di Mon coeur mis a nu, si affidi alla parola dello scrittore, alla sua inevitabile erranza: non cerchi edifici sicuri o logiche precise, ma una sospensione nel cavo della mente, in quel luogo non ancora occupato dai pensieri o dalle immagini ma solo dall’inattesa pulsazione lirica che li accompagna, dalla sua percezione allarmata. In tutto questo la forma del taccuino è risolutiva: ogni frase, invece che incidersi nel foglio come aforisma, lo apre a nuove domande, smuove la carta come un sisma, impedisce alla pagina di essere recinto, la trasforma in ipotesi di volo. Se alla fine del volo ci sarà lo schianto, autore e lettore ne saranno complici: se non ci sarà, ne nasceranno nuovi frammenti, di resistenza e di pensiero. La voce dell’autore resta interminabile: neppure i libri in cui si mostra ne sanciranno la fine, che è e resterà un’eco.



