SCHEGGIA. Ilaria Palomba

Talvolta è necessario scrivere l’indicibile. Ilaria Palomba con Scisma (Les Flâneurs, 2024) scrive questo nodo con chirurgica esattezza, mai rinunciando alla chiarezza di una parola che ha smesso di nascondere il dolore e al contrario lo mette al centro del libro come una stele abbagliante, in modo che tutti lo guardino e, dopo averlo guardato, non siano più quelli di prima. Leggere le parole di chi torna dall’esperienza più estrema (aver desiderato togliersi la vita) non è leggere qualcosa di eccezionale ma scoprire familiare il ritorno dell’io scrivente da un luogo dove scrittura e vita sarebbero dovuti sparire. Come scrive Giorgio Galli:« Palomba ha spalancato il ricordo e lo ha sezionato chirurgicamente. Leggerla fa male, perché chi legge non ha la lucidità spaventosa di chi scrive: non si resiste a quello che ha scritto, bisogna prendere aria, fermarsi, pensare, e solo poi tornare alla lettura». Scisma non è un libro terapeutico: è una scheggia d’inferno che si mostra nella sua natura di scheggia: «Perdona l’impeto, perdona il corpo. / Scissa, guarda l’altra, guardami». Questo libro vuole essere guardato, ancora prima che essere letto. Le parole, spesso, nascondono delle abbacinanti non-parole con le quali dobbiamo confrontarci sempre. Qui, in questa breve antologia, scegliamo i versi dell’ultima sezione: ci sembrano il giusto preludio agli altri, possibili libri di Ilaria, sconfinato “sussurro di otto confini”. (M.E.)

Ilaria Palomba

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Da SCISMA

Salve, o vita! potenza misteriosa

fiume selvaggio, poderoso eterno

ragione e forza a tutto l’universo

salve o superba!

Carlo Michelstaedter, “Alba, il canto del gallo”

Giorno 75

Di bianco è segnata

la strada su cui mai

camminasti. Distesa

sul fondo guarda e

dimentica il colore

dei tuoi occhi, il

fragore muto di un

nome senza volto.

Giorno 76

Amo il riflesso di una luce estinta:

non ho molto da cercare,

vivo conficcata nelle maree, prima

dell’alba, per un verso in

terra, se rinnego ogni lingua, ancora

il silenzio. Non muoverti,

sei nelle nostalgie e non ritorni mai.

Giorno 77

Andammo alla foce di ogni fiume

a ritrovare smarrimenti.

Nessuna linea tra il prima e l’ora,

nessun ardimento.

Il serto, tutta l’acqua in gola,

l’inizio di un corpo.

Trascinammo piccoli rami

nella terra, nel bosco.

Tornammo alla fonte senza

voce. Non tornammo.

Giorno 78

Devi recidere ogni ramo,

non lasciare scoperto

neanche un lembo.

Resta nella ferita,

creatura d’acqua

oltre i regni,

nella tenebra accecante.

Giorno 79

Sia questo mese scrigno

di silenzi. Lo sguardo

cieco, in risonanze

celesti. Non sapremo

perché fummo scartati.

Sapremo solo la condanna

di noi stessi.

Giorno 80

Non conosco rifugio,

la vita mi ha tradito

illudendomi. È rimasto

l’amore, il miracolo del

sentire. Il sole abbacinante

dell’ospedale. Non chiedermi

nulla. È tutto bucato dal

ricordo. Non resta

che uno sguardo.

Giorno 81

Cosa se non il margine?

Nessuna presenza.

Voce gracile dall’altra parete.

Non son degna del mondo,

ma prendo l’amore sognato,

ne faccio una culla

e non chiedo

di svegliarmi.

La veglia è guardare

in fondo al corpo,

riconoscersi insaturi,

rivelarsi orrori.

Preferisco nascondermi

e non lasciar essere

l’assenza, mia gemella.

Giorno 82

Nella stanza di mio padre

ho desiderato morire,

ho annientato il ricordo:

il volto di Marx sulla parete,

gli anni Settanta, le Marlboro,

avere in odio i vincenti.

La sua presenza mi lacera,

avermi così amata,

dove sarebbe bastato un amante.

Fraintendiamo la colpa,

trasfiguriamo in vuoto.

Sceglierà più il tempo

un corso interiore?

Sceglierà mai il vuoto

di risparmiarci? Siamo vivi e cavi,

solitudini nella casa

dagli occhi ciechi.

Giorno 83

Si è ridotta ai minimi termini la scrittura, per essere arrivata al confine, all’estremo da cui non si torna, non posso crescere, è rimasta la non scrittura, non era questo, solo lo sguardo, ritorto nel grido, avevo paura di tutto, e adesso, anche, ma cerco una protezione, non più il vocabolo impossibile, ma l’analfabetismo, i primordi, la decomposizione, quando potrò ricomporre – non so se potrò – voglio la quiete, cerco la quiete, è stato troppo, tutto, il fuoco si estingue, brucia, vuole l’addio, il labirinto, cerco, nulla, la mia ombra, non cerco più, se rabbrividisco nel vedere l’altro fuggo, a volte mi manca l’ospedale, ritorno con la mente, e dimentico, dimentico, non riesco a ricordare, tutto mi chiede illusione, distanza, saltare altrove, concludere percorsi iniziati, sono nella metà di niente, non voglio più ammalarmi, il rispetto, l’abiura, lasciarmi cadere, lasciare il corpo.

Giorno 84

Di una vita non resta che il

suono, questo sole del mattino.

Voler dividere orchidee e

cielo, snodarsi nel

velo del giorno, caligine densa e

coltre di ruggine. Non ho

raccolto la grana vermiglia

della sabbia addormentata

nelle mie stanze interiori.

Tutto il dire è un mentire,

resterà il silenzio sulla

battigia, nudo desiderio

che non muore.

Giorno 85

È finita la pazzia, ho nostalgia

degli atti estremi, della libertà

di uno sbaglio. Io, prigioniera,

nella densità del ricordo sono

nulla. La cosa qualunque vive

nel rintoccare dei campanili e

tace il sussurro di otto confini

serrati a ordire il mare cupreo

dove il tuo gemito si allontana.

Giorno 86

Fuori dall’ospedale, la carne piena di squarci.

Torna nella casa del salto, torna all’uomo.

Il dolore verrà, lo senti nei muri.

Perdona l’impeto, perdona il corpo.

Scissa, guarda l’altra, guardami.

Centottantesimo giorno

Questo dovrebbe portarci alla resa

il silenzio delle basiliche, lo spazio

aperto dei chiostri. Solo questa

prima luce dovrebbe incidersi

nella volontà e disincarnarla.

Non la legge di un insieme

senza verità. Solo questo

giardino capace di fiorire

nel dimenticarsi.

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Scisma è stato scritto e riscritto nel corso di un paio d’anni a partire dal diario poetico che condividevo in ospedale durante la lunga degenza nell’unità spinale del CTO di Garbatella dal 25 maggio al 28 ottobre 2022, dopo un mese di rianimazione all’ospedale San Giovanni Addolorata; ma questo poemetto non è solo un modo per resistere alla degenza, è anche un testo brulicante, una voce alla ricerca delle sue origini letterarie, dal momento che per me scrivere è un costante confronto con i maestri. Perciò, i miei versi sono intrisi di citazioni occulte, dalla Pizarnik alla Rosselli, poetesse su cui torno, e le cui parole sono scolpite nella mente, o forse incise, proprio come lo è il muro dell’ospedale. Le mie stelle polari viventi della poesia sono Luigia Sorrentino e Alfonso Guida, nell’ultimo anno di quasi isolamento fuori dall’ospedale il confronto con Luigia è stato costante, ha letto il poemetto fin dal momento in cui si chiamava Rinuncia al tuo nome. Ne ha letto ogni stesura. Quando ero in ospedale e pubblicavo in rete il diario della mia degenza in versi fu la prima a farmi notare che sarebbe stato bello se fosse diventato un libro. Per questo devo ringraziare anche Sara De Simone, Alessandra Bava e Andrea Pedicini, che hanno letto tutte le stesure. La Pizarnik e la Rosselli sono presenti in ritornelli ormai incisi nel sangue: Dissipa il filo, il tumulto dei bruciati, il nemico armato, la casa dei nomi, la scissione dei soli in piccoli soli neri, in tutte le mie morti, la mania dell’angelo. La scissione della psicosi ha un senso solo se la psicosi diventa deleuzianamente schizoanalisi, corpo senza organi, deterritorializzazione, vita in sé e, lacanianamente, un incontro con il reale. La psicosi assume un senso se quel dolore si trasforma nella capacità di farne qualcosa. E se a scindersi fosse il corpo dalla sua radice – la mia è stata una separazione in mille corpi, un corpo che perde delle parti, che si paralizzano, non sono più percepibili, vengono cancellate – ciò sarebbe per certi versi paragonabile all’esperienza della psicosi, anche se in una lesione spinale tutto avviene sul piano della materia, e per tornare vivi bisogna rinunciare all’idea di sé costruita negli anni, prima della malattia. Si è effettivamente un corpo senza organi, un corpo i cui organi non rispondono più alla loro funzione biologica. Ogni sezione inizia con una citazione e dà un senso al poemetto che cerca di squarciare la letteratura dell’esperienza – che sarebbe per lo più superflua, e scevra da ogni interesse di superare la soglia tra privato e pubblico – per farsi invece coro.

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Ilaria Palomba, scrittrice, poetessa, studiosa di filosofia, ha pubblicato i romanzi: Fatti male (Gaffi; tradotto in tedesco per Aufbau-Verlag), Homo homini virus (Meridiano Zero), Una volta l’estate (Meridiano Zero), Disturbi di luminosità (Gaffi), Brama (Perrone), Vuoto (Les Flâneurs); le sillogi poetiche: Mancanza, Deserto, Microcosmi; il saggio: Io Sono un’opera d’arte, viaggio nel mondo della performance art. Ha scritto per “La Gazzetta del Mezzogiorno”, “Minima et Moralia”, “Pangea”, “Il Foglio”, “Succedeoggi”. Ha fondato il blog letterario “Suite italiana”; collabora con le riviste “La Fionda”, “La città delle donne”, “Inverso”, “Verso-libero”.

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