WOLS. Marco Ercolani

La Parigi delle sue foto – barboni, scalini, ponti, tavoli, sedie, tende del bar – e il groviglio microscopico e fluttuante delle sue tele, si corrispondono. Wols è il disperato voyeur di un manifesto a brandelli, di un acciottolato umido di pioggia nella Parigi svuotata dal temporale; e fa vorticare l’insensata lucidità del segno in un reale dissolto, inafferrabile. Come può, la desolata visibilità di una città deserta, accordarsi a una scena esplosa, che nega lo sguardo umano? Come possono quei frammenti inspiegabili, evocare Parigi? Eppure certi scalini sopra la Senna sono l’ultima àncora visiva della sua provvisorietà delirante. Certi scalini fotografati sopra il fiume – punti di un nero totale nella luminosità del cielo – sono l’imprescindibile ricordo di un inferno mai sottomesso alla logica dei raggi solari ma sempre magmatico, coinvolto nelle curve dei corpi e nelle linee della terra. Wols condivide l’affermazione di Klee secondo cui «La forza della luce è, in natura, oltre modo offensiva». In alcune sue tele, popolate di misteriosi e brulicanti microrganismi, dipinge un nero lucente contro un nero opaco: per lui l’arte è sempre il quasi-nero e i colori, sostanzialmente, sono illusioni. In questo è rigorosamente fedele alle parole di Matisse: «Da molto tempo mi sono accontentato di disegnare a occhi chiusi. I disegni che scopro in seguito sono frequentemente linee più decise, più energiche, che quelle eseguite a occhi aperti». Wols segue alla lettera l’interpretazione di Sartre che vede, nella sua arte, non l’Altro perturbante che si oppone alla Bellezza armoniosa ma “la sostanza stessa della Cosa, la sua grana, la coesione dell’essere”. «Non posso morire – io, cristallo!» – diceva Klee. Wols analizza i cuori plurali e verminosi di quel cristallo. Insiste, si sporge, cerca un varco. L’utopia nata dall’arte con la sovversione del sogno è barbara, accidentale, ma rigorosa: è vera eresia, canto nel buio.

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“Qui si rivelano le qualità di un’era”, “qui vi sono tutte le sue tensioni”. Così scrisse il critico d’arte Carl Jakob Burckhardt nel 1947 dopo avere assistito alla mostra di Wolfgang Schulze, in arte Wols, presso la Galerie Drouin di Parigi. A distanza di più di mezzo secolo non si può che dare ragione al suo giudizio. Ancora oggi le opere di Wols sono cariche di un’angoscia interiore comune al suo autore, artista tanto geniale quanto dalla vita irregolare, vittima tanto di sé stesso che di un’epoca, quella degli anni ‘30 e ‘40, che schiacciò la sua sensibilità, rendendolo grande come fotografo solo a posteriori grazie alle Documenta di Kassel (1955, 1959, 1964) della Biennale di Venezia del 1958. Quest’ansia generale è ben riscontrabile al Martin Gropius Bau di Berlino dove dal 15 marzo al 22 giugno del 2014 è di scena la mostra Wols Photographer – The Guarded Look (Lo sguardo salvato), raccolta di più di un centinaio di suoi lavori solo fotografici (niente quindi della sua produzione da pittore). Inizialmente allestita l’anno scorso a Dresda in occasione del centesimo anniversario della nascita dell’artista che nella città sassone passò l’infanzia (ma i suoi natali furono a Berlino), il titolo dell’esposizione ha una sua giustificazione prima di tutto storica: quasi tutte le opere mostrate al Martin Gropius Bau fanno parte dell’archivio messo a disposizione dalla sorella di Wols, Elfriede Schulze-Battmann che fin dalla morte del fratello si preoccupò di raccoglierne e preservarne tutto il materiale prodotto durante la sua breve, ma variegata, vita in giro per l’Europa.Il percorso dell’esposizione è ordinato cronologicamente. A seconda del periodo della sua vita, Wols fotografò soggetti e con tecniche differenti, senza mai tornare indietro. Ecco quindi, in successione, i primi ritratti in bianco e nero a modelle ed attrici, le foto di strada sia tedesche che francesi (si trasferì a Parigi nel 1932 dove fu coinvolto nel movimento surrealista senza mai davvero abbracciarlo), le varie nature morte e quell’astrattismo sempre più protagonista degli scatti della sua ultima parte di vita quando, parallelamente, Wols si affermava come uno dei maggiori rappresentanti della cosiddetta Arte Informale. Purtroppo erano già gli anni in cui la sua salute veniva debilitata dall’alcolismo, una progressivo decadimento fisico che lo avrebbe portato alla prematura morte a 38 anni, a Parigi, per avvelenamento da cibo. Così lo ricordò successivamente Jean Paul Sartre, colui che assieme a Simone de Beauvoir all’epoca lo avevano avvicinato al pensiero esistenzialista. “Ho incontrato Wols nel ‘45, calvo, con una bottiglia e una borsa da mendicante. In quella borsa c’era il mondo, c’erano le sue preoccupazioni. Nella bottiglia c’era la sua morte. Era stato bello un tempo, ma non lo era più. Aveva 33 anni, ma guardandolo nessuno lo avrebbe potuto immaginare senza quella giovanile tristezza nei suoi occhi. Tutti, lui per prima, pensavano che non avrebbe più potuto tornare indietro da quella situazione”. (Andrea d’Addio)

Fotografie di Wols

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