SENTIPENSIERO ANAGOGICO. Massimo Morasso

RE-VISIONE DELLA POESIA

Prefazione
Di che cosa parliamo quando parliamo di poesia?
La situazione e la scelta
Trattato sull’anagogia
Lettera a una giovane poetessa
AAAA poeta autentico cercasi
Perorazione a un amico accademico, ovvero Difesa della Poesia
Appendice
Compendio storico della poesia italiana dal Novecento ai giorni nostri
Indice dei nomi

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Industria&Letteratura

Autore Massimo Morasso

Direzione e coordinamento Gabriel Del Sarto

Impaginazione e progetto grafico Michele Del Sarto

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Non commenterò Massimo Morasso nell’intero viaggio critico del suo libro Re-visione della poesia né svelerò se sono d’accordo con le sue conclusioni. Da anomalo viaggiatore nella psiche poetica mi limiterò a citare, in due pause di questo viaggio (Trattato sull’anagogia e AAAA poeta autentico cercasi), il critico-poeta che espone il suo pensiero senza indulgenza, dimostrando che ogni poeta non deve, in questi tempi, limitarsi a comporre dei versi ma esprimere l“intra-vedere” il sovrasenso del vivente nell’intelligenza della forma poetica. In futuro proverò ad esplorare altri punti suggestivi di questo libro rizomatico e ustorio, sarcastico e visionario, aggressivo e indagatore, che pensa e ripensa la “Cosa chiamata poesia” (Ortèn).

«A che pro scrivere, se questa fin troppo facile azione di spingere una penna su un foglio non è resa rischiosa come
una corrida e se non affrontiamo argomenti che siano insieme pericolosi, agili e bicorni?» José Ortega y Gasset

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Da Trattato anagogico

«Si può pensare all’anagogia come a un livello di significato in cui traspare il sovrasenso spirituale che inerisce a una data realtà. Se letta in questa accezione, l’anagogica è una via utile al ri-orientamento della parola poetica, che può darsi come un luogo di accoglienza destinale del senso nel punto della mente del poeta dove turbamento esistenziale, ricerca intellettuale e tensione spirituale coincidono, partecipando a uno stesso slancio e disegnando una stessa curva. Ma un poeta non scrive sempre a partire da quel punto? Direi proprio di no. Direi anzi: quasi mai. L’anagogia non è un sinonimo dello spirito, ma la via che porta alla sua intelligenza. Non è, perciò, una via intellettuale, ma una via spirituale della nostra facoltà conoscitiva».

«La via anagogica non dev’essere una via di fuga: qualcosa che si sa, e si possiede come un contenuto fra gli altri, sorta di dispositivo di protezione dalla nostra stessa angoscia da sistemazione rispetto all’evidenza delle malepratiche del verso. E neanche può essere una “poetica”, perché le poetiche di per se stesse non garantiscono nulla. Anche per questo è molto importante distinguere con chiarezza fra “sentimento anagogico” e “forme anagogiche”. Cos’è il “sentimento anagogico”? Un apriori della coscienza, una determinazione trascendentale di natura mistica che filtra (o meglio: che sarebbe bene filtrasse) di sé tutti gli ambiti del pensiero umano, e che esprimendosi in poesia, nel gesto poetante di un singolo uomo concreto, crea sempre nuove forme retoriche, nuovi “modi” linguistici nei quali oggettivarsi e circoscriversi.

«Quanto di anagogico si manifesta nei testi è il risultato di combinazioni che non sono circoscrivibili in nessuna maniera – le opzioni stilistiche di un poeta anagogico possono andare dall’estremo della riesumazione dei metri chiusi a un approdo alla prosa vera e propria, secondo accenti tragico-sublimi o, all’opposto, secondo pronunce ironiche e perfino anti-liriche – perché rispondono prima di tutto alla fedeltà di ogni singolo poeta a se stesso».

L’anagogia è una delle chiavi per l’interpretazione delle poesie che più delle altre meritano di essere lette. Una delle qualità essenziali degli autori davvero memorabili è precisamente l’aver forza anagogica. Un antidoto al nullismo e alla sua presupponenza scettica: il sentipensiero anagogico, e il suo esercizio formale. Sempre ascendente, e sempre al contempo discendente; sempre in movimento: dalla creazione agli invisibilia e viceversa. Tutto il sensibile compreso come un sacramento che non chiede di essere organizzato o fondato, ma che, piuttosto, si offre per essere attraversato.

Il poeta anagogico perfetto è Dante Alighieri, il sommo poeta dell’estasi umano-divina della parola, il cantore della “diafania” nell’accezione mistica riesumata qualche decennio fa da Pierre Teilhard de Chardin, che esprime il manifesto dimorare dello spirito nel suo rendersi trasparente nella realtà sensibile – massimamente nel dramma agito dalla parola originaria, anche in grazia della sua intimità con l’ineffabile. Chiunque ancora si dedichi a scrivere poesia, se non può essere Dante, può comunque provare a farsi a sua somiglianza, e osare fino in fondo il proprio desiderio. Dopotutto, è la parola poetica che porta il peso quasi insopportabile dell’Essere, ed è la parola divina in quanto poetica a sostenere il mondo

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Da AAAA poeta cercasi

«Quando penso a un poeta penso immediatamente a Rilke, all’attitudine che aveva a starsene fuori dal mondo, in un suo doppio ideale, per arrivare a nominarlo, nella sua verità, in una verità estetica. Ma poi mi viene subito in mente Rimbaud, che si scaglia oltre il suo tempo, perdendosi in una torrida giornata di traffici ad Harar. E come ovvio Dante, il più grande di tutti, il quale, nell’esilio di Verona, scrivendo a Cangrande della Scala annette alle parole della Commedia la qualità di segno e profezia spirituale della realtà. E ancora, mi trovo in compagnia di certi barocchi intrappolati in un mirabolante sogno metafisico, e anche di Pascoli e D’Annunzio, prede di tanatofobiche ossessioni.

Penso a un giapponese meditante mentre osserva una rana. A Saffo nel suo tiaso che si aggira fra le allieve. A Ovidio, il malinconico, che insegue l’al di là dell’orizzonte su una spiaggia del Mar Nero. A Saenz, alticcio, stregonesco e aparapita. Ai tragedi attici e ai loro eredi on stage, Shakespeare, Marlowe e gli spagnoli del ’600. Agli sciamani e ai cantori del Rgveda. Agli chansonniers de geste. Alla donnina ebrea in arte Jussuf Principe di Tebe. Ai bardi e ai Dada, quegli estremisti finto-scemi. A Tasso, il matto tutto matto, che si autoaccusa con l’Inquisizione. Al filiforme Belyj, intento a un passo di foxtrot in un caffè a Berlino. Al savio Li Bai, con una brocca fra le mani sotto al perlaceo riflesso della luna. Al Nazanzieno, a certi sufi e, come ovvio, all’angelo-talpa Fritz von Hardenberg, Novalis. A Holan, autosegregatosi sull’isola di Kampa. A Radnóti, nel 122 lager, che scrive le sue ultime parole su un taccuino. Ad Annette von Droste-Hülshoff, che, tutta intabarrata, osserva la brughiera nel tramonto. A Yeats, in piedi, a voce alta, mentre scandisce i suoi versi dalla torre di Gort. A Hölderlin, che in una torre, invece, ci nidifica. Ai mitici salmisti, tutti insieme, come se fossero un sol uomo. A Campanella, lacero e ferino, accovacciato in un buco nel fondo di una cella. A Skovoroda, il cugino di Solov’ëv, mentre cammina, pala in spalla, per andare a scavare la sua tomba. A Goethe, appesantito e in posa eternizzante, con il pastrano e il cappellaccio a tesa larga, comme il faut. A Keats, quel quasi-nano, e anche a Leopardi, pallido, ingobbito, con la sua smunta faccia da infelice che intravedo, per un attimo, sbucare da una tenda del “paterno ostello”. A Ritsos, Barbu e a Coleridge, in poltrona, in compagnia delle sue immancabili gocce di laudano, dei morti-in-vita e i vivi-in-morte. Emily Dickinson può valere, forse, come una specie di riassunto esemplare di queste figure, un quasi tutto-spirituale paradigma, qualcosa (qualcuno) a metà strada tra la terra e i cieli. Il poeta è una metafora dell’uomo concentrato, raccolto in sé, a tentare di far cadere l’inessenziale, cioè a scavare nei recessi dell’anima, alla luce di un’avventurosa dottrina introspettiva».

«Il poeta autentico vive d’immaginazione. Il piano della cosiddetta realtà, il piano della storia e della cronaca, è quasi sempre un non-luogo per la mente creativa, che si annoia del si chiacchiera da “media” o da “social” e della parola romanzesca, fantasiosa, senza peso di verità. Le visioni interiori di cui il poeta autentico è strumento lo costringono alla sua missione scrittoria. Sono visioni che precipitano sulla pagina dal mondo astratto dell’Idea grazie all’enigmatica qualità speculare di una parola che risponde all’appello di una vocazione generativa. Visioni come i frutti del Giardino delle Esperidi, da raccogliere e custodire nella casa della Lingua».

«Il poeta autentico non scrive tanto per scrivere: è l’uomo che scrive per avvicinarsi quanto più possibile alla libertà. Libertà che è, in primo luogo, libertà dalle meccaniche proiettive che mette in atto a difesa del suo io di superficie. E libertà, dunque, anche dall’obbligo di fedeltà al proprio mandato. Scrivere, per lui, è dare un corpo fisico a un’utopia. È tentare di capire egli stesso qualcosa di ciò a cui mira (nella mitologia greca, Ananke era la personificazione del destino, della necessità inalterabile e del fato. Per il poeta autentico, fare poesia non è scrivere qualcosa che si ricorda, o si pensa, andando a capo, con l’illusione di gettarsi con un profitto estetico sull’abisso del senso, ma è dare requie momentanea alla sua inquietudine metafisica, tramite un gesto per molti aspetti affine a quello degli ossessivi, che la psicopatologia definisce con il termine anancasmo)».

«Una creatura della soglia come il poeta autentico – radicale e inappagabile – esaudisce i propri pochi desideri mondani tramite la potenza trasfigurante del lavoro artistico. Non fa battaglia al suo tempo, ma gli oppone un’intima resistenza, e guerreggia contro il piccolo io che parla tanto per parlare, senza vero legame d’amore per l’altro, in lui, che lo chiama dal profondo a dire anche la sua, ed è simile allo “squillante cembalo” dei quali ci dice la Lettera ai Corinzi. Mancandogli tutto, non avverte mancanze minori. Per cui, dell’infinito campo dell’immaginario è chiamato a inseguire qualche ossessione dominante, sulla quale tende a fissare l’attenzione, sacrificandole il resto. Per sua natura, non può smettere di ritornare col pensiero su ciò che lo turba. Prova un senso d’impazienza e quasi di nausea di fronte alla prospettiva di fare della poesia ancillare di quell’io minore di superficie, così invadente, e così spesso pieno di sé: davanti a tante poesie d’occasione, a tante poesie didascaliche, a tante poesie astutamente arroganti, quando, dopo aver squalificato la lirica, gli apostoli dell’arte analitica danno voce al loro desiderio di appiattire anche la parola poetica al livello d’espressione di quell’io, c’è qualcosa in lui che non potrebbe trattenere un fremito di disgusto, quand’anche ne ammettesse l’ingegnosità e la scaltrezza artigianale».

«Il poeta autentico si muove all’instabile incrocio fra mondo e oltremondo, con l’anima esposta all’accoglienza di una verità sensibile, fatta d’intrecci fra immagini e parole. Vive in un luogo “ricco e strano”, in uno spazio della mente in cui a legiferare sono i miti e le metafore, e in cui il pensiero è esposto in modo produttivo alle visioni, e alle potenze del demonico. Se vogliamo capire gli ossessivi dobbiamo capirli anche nel loro mondo. Se vogliamo capire gli inquieti “padroni dello spirito” di cui ha parlato Hölderlin, dobbiamo capirli nell’arduo, misterioso mondo di mezzo che è loro peculiare».

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