Mauro Germani, Prima del sempre. Antologia poetica 1995-2022, con postfazione di Giovanni Nuscis, Puntoacapo, Pasturana 2024.

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La scrittura di Mauro Germani, qui selezionata e raccolta per dare l’attenta ricognizione di un percorso trentennale, parco ma densissimo, si pone per più versi in una zona di confine: innanzitutto fra l’esperienza immanente del mondo e un senso di trascendenza che permea ogni testo; poi, a livello testuale, non solo attraverso una semplice bipartizione fra testi in prosa (nelle prime due raccolte) e in poesia (da Livorno, 2008 fino agli inediti). Mauro Germani è infatti poeta anche nei passaggi apparentemente prosastici, mai descrittivi o narrativi, sempre concentrati sul farci percepire, appunto, i due piani di cui è composta la nostra vita.
La continua tensione che attraversa queste scritture attesta un’idea di poesia come ricerca, come ponte fra ciò che siamo e percepiamo e ciò che, pur senza percepirlo attraverso sensi o ragione, speriamo dia senso alla nostra esistenza. Siamo prima del sempre, infatti, ci dice Germani da un punto di vista che possiamo senza dubbio definire “religioso”; giustamente Nuscis, nella centratissima Postfazione, sottolinea la modernità di questo sentimento di assenza e mancanza, questo vuoto che la fede ha l’incarico di riempire di speranza. Tengo a precisare (da un punto di vista assolutamente laico) come la tensione di Germani vada oltre e si nutra di un senso di insoddisfazione verso la realtà che tutti noi avvertiamo: per la nostra limitata comprensione del mondo (di cui parla nella splendida nota finale); per un senso di ingiustizia generale per la pratica umana; per ciò che il tempo (si veda Livorno) porta via in modo irredimibile, per dirla con l’Eliot dei Quattro quartetti. Insomma, si parla qui (citando lo stesso poeta), di “qualcosa che è di più dell’esistenza stessa e le parole non bastano mai per dirlo” (p. 152).
È uno smarrimento che esige una riparazione, per dirla con Heaney. Ma, allora, diventa dirimente la capacità di rendere in scrittura questa tensione, la compresenza di corpo che vive nel presente, il quale avrà fine ma per il credente ha un fine, e l’anima, la cui vera vita è il dopo, il sempre. Oltre un punto “dove tutto finisce / oppure comincia” (p. 101), come leggiamo in uno dei testi più fulminanti del libro. E quell’“oppure”, attenzione, non è certo dettato dal dubbio, bensì dall’apertura a una duplice interpretazione che è compresente in noi, su due punti di vista: quello dell’immanenza, che appunto ha fine, e quello della fede in una trascendenza che da quel punto di sviluppa oltre l’ambiguità della vita corporea.
Certo, sussiste se non un dubbio almeno una incertezza: “Non so quale risorta carne / quale vita eterna” (p. 105) ma riferita alle modalità, ai limiti della nostra conoscenza di ciò su cui, comunque, non abbiamo prove. Per un credente non si tratta soltanto di due tempi, ma della compresenza di uno nell’altro, quasi una vita sottotraccia, una ricerca di segni. Quei segni che (ritorno a Eliot) gli uomini vorrebbero (Gerontion) ma la modernità teme (The Waste Land) perché costituiscono sempre lo stigma di una solitudine (di una ricerca solitaria): lo smarrimento e la sconfitta di cui parla ancora Germani.
La parola che sceglie il poeta per definire questa esigenza di precisione ed efficacia è allora “rigore”: e non si tratterà solo della scelta di parole parche, adeguate, ma di una vera ecologia del linguaggio, che ovviamente deve partire da una eticità intrinseca in chi sceglie di assumersi la responsabilità della parola (della parola poetica e non dell’abulia che ci sovrasta e condiziona), la quale diventa allora ponte fra quell’immanenza che è limite ma anche soglia e una trascendenza che si situa oltre “l’abisso oscuro / del tempo” per vedere il volto di Gesù, la trascendenza fattasi immanenza.

Mauro Germani
