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Il nuovo libro di Serena Dibiase, Erbario da bocca (MC, 2024), si suddivide in quattro sezioni: I, Tilia platyphillos (o la storia della pietra e dell’acqua); II Galanthus nivalis (o la storia del cervo); III Asphodelus (più verso il chiaro); IV Pancratius maritimum (o la storia del veleno e del latte). Il preludio è amoroso: “a punta di bocca / ti avrei detto ti amo / senza covare guarigione / accanto alla tua alba / riversata e sulla porta / nel sonno più chiuso ora / l’aria è un corpo che sbrina / ed è sempre nudo / sempre più nudo / fino alle palpebre / che vanno annerendo / nel pensiero di me / che sono nata / che sono viva”. Ma, da questo preludio in poi, il libro procede per sommersioni e per estasi, immerso in un mondo organico e vegetale a cui l’umano si avvicina per movimenti leggeri (“la pietra / stordita di linguaggio / si secca si contrae come / se essendo pietra / non potesse lacrimare”) e tutto pare affondare nei meandri di una psiche (“La mente è un pugno // le tue mani / dicono alle mie / come muoversi // la luce laterale improvvisamente salta // corpi estranei / nuotano in tutto / ciò che è lattiginoso / all’inizio / una goccia / che alla fine / buca il cranio”) insidiata da metamorfosi impensabili. Questa poesia nega le ragioni del discorso per tessere partiture all’interno del corpo vivo, cercando una voce fluida che apra fessure fra le pietre. I versi scaturiscono come da cripte sommerse (“l’aria qui / ha una memoria eterna / che ha sempre fame o / la mansuetudine dell’animale”). La poesia di Serena Dibiase scivola via come l’acqua dalla roccia, come il senso dalla mente: ci abbandona a un microcosmo naturale come stupefatti osservatori che trovano un “erbario da bocca”, ancora da assaporare con il gusto, il gesto, la voce, dentro un misterioso grappolo di parabole. Serena ci lascia un libro incompiuto, fitto di versi frantumati e fluidi, dove ogni lettore-interprete potrebbe trovare una nuova, insondabile alea, una gentile “musica slogata” dove le pietre si aprono all’infinito, gli asfodeli bruciano, e l’universo è la fessura dove i corpi dissolti scivolano senza perdersi. Come scrive Pasquale di Palmo nella bandella di copertina: “Il coinvolgimento mimetico con il mondo vegetale si scontra con la cognizione della precarietà linguistica che presuppone continui fraintendimenti e slittamenti di senso, sulla falsariga della lezione di Amelia Rosselli”.
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rosso in tutte le creature
e nel gran fuoco
si sa
lo splendore è immobile
le pietre si aprono all’infinito
quel rumore di trapassato
e rose all’entrata
un profumo già
sanguina
cerca di esistere
precede il pensiero
sistema slogato
odore accanto al mio
nulla si perde
sassi urtano contro sassi
forte
poi in frantumi
cadono
dalle ciglia
fluidi
in gola tutt’uno
tosse occhi mattino
musica che ci pietrifica
pietra fantasma
sempre asfodeli dai terreni incendiati
in ognuna di queste fessure
nulla si perde
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Serena Dibiase (Bologna) si dedica allo studio del teatro di ricerca e performativo: è poeta, cantante e compositrice elettronica. Partecipa a festival di poesia e drammaturgia fino a sviluppare la sua personale interpretazione del testo poetico in un progetto performativo e musicale. Ha pubblicato: Nelle vene (Manni, 2010), Amnesia dei vivi (Italic Pequod 2015), La bambina lo sa (La Gru, 2019).

Serena Dibiase
