I testi sono tratti da: Marco Ercolani, Il ritardo della caduta, Ripostes, Roma-Salerno 1990. Il racconto è quello, eponimo, dedicato a Ingeborg Bachmann, Il ritardo della caduta.

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Da Pagine sparse (1972) di Ingeborg Bachmann
Il poeta lancia la pietra nel buio e attende. Se non tornerà, sa che avrà trovato la gioia delle onde, la felicità dell’acqua. Ma, se tornerà, come boomerang, sa che tornerà insanguinata, perché ha colpito una tempia o un braccio. Il poeta la guarderà con attenzione. Immaginerà la traiettoria del sasso, cercherà di capire. Ma non capirà e allora dovrà ripartire dalla striscia di sangue e iniziare un verso, cercare una storia, creare.
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Lavoro nella mia lingua madre come se traducessi i taccuini di un poeta straniero, di cui ignoro l’anno di nascita e l’anno di morte. La sua vita è disperata, ignota, incompiuta. La postillo, la annoto, la muto. Trascrivo la sua poesia come una traduttrice lucida e appassionata, non mi faccio sopraffare dalla disperazione. Io non sono lui. La mia parola, anonima, scarna, metricamente omofona, contiene la sua follia in una forma adeguata. La mia sorte è la certezza di non provare la sua febbre. Io sono il suo doppio freddo. Non ha senso il suicidio. Come posso morire, se esisto solo in quanto traduttrice di un altro, custode gelosa di manoscritti che devo assolutamente divulgare, che senza di me non sarebbero mai conosciuti.
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Quando l’uccello sfreccia mento rapidamente, l’informe massa nera che sorvola si rivela pianeta verde, inondato dalla luce lunare, colmo di profumi; così, se distolgo gli occhi dallo schermo, divento più attenta, ascolto il visibile e l’invisibile. Alla visione certa delle immagini si aggiunge la percezione confusa dei suoni. Sì, certo. La pagina è pagina, il foglio foglio, lo schermo schermo: gli strumenti, immutabili, resistono. Ma non dimentichiamo i rumori di fondo, i silenzi di fondo. Io non sono sola. Non c’è soltanto pagina e carta, penna e verso. Il mio corpo è in allarme. Scrivo fuori di me, circondata da voci. Il fuoco svetta, crepita, brilla. E io, cosciente della mia lunga, silenziosa salita, scavalco mura e crepacci, entro lentamente in mezzo alle fiamme, spero l’insperabile, e metà del mare diventa terra, l’altra metà soffio infuocato.
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Ma io so di essere viva. Di ascoltare voci. Il poeta è un medium posseduto da voci.
So che scriverò ancora.
Il poeta è Wakefield (come nel racconto di Hawthorne), che scompare per anni agli occhi della moglie e del mondo e viene creduto morto mentre, invece, vive nascosto nel palazzo di fronte, nella stessa strada; e spia, nel dolore e nella vecchiaia della moglie, gli effetti della propria scomparsa.
Narrare gli effetti della scomparsa: ecco il compito.
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La poesia è quella parola di pietà pronunciata sottovoce per accompagnare una carezza che la ragione presuppone impossibile. Ma è di questa carezza rivolta a un uomo ferito, invisibile, che bisogna parlare. Usando le parole per dire di quella ferita, per guarirci dal dolore. All’origine della poesia non c’è niente di divino ma solo un luogo terreno dove un uomo sta morendo. Balbetta, supplice aiuto, non ricorda chi lo ha ucciso. Noi siamo arrivati ora. Non abbiamo visto niente. L’uomo, forse morirà. Noi, però, gli staremo accato. Lo veglieremo.

Ingeborg Bachmann

Giovanni Castiglia
