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Credo che non ci sia migliore viatico alla poesia di Marco Ercolani degli aforismi che ha raccolto in Sentinella. «Appunti non come confessioni ma come cosmografie». I passi con cui incede sono brevi enunciati “vinti al silenzio”, per dirla con Celan. Ma tra un pronunciamento e l’altro si percepisce già lo scatto della poesia, il salto nel vuoto dell’ellissi: «Sentinella di un tempio che potrebbe essere luminoso, smisurato, incandescente, ma che sarà sempre elevato sulle rovine dell’io, in un campo disseminato di macerie». Microracconti in poche righe, indizi di una storia, ma anche riflessioni critiche: tutti i generi sono convocati, galleggiano come brandelli di un relitto sul non-detto, sull’indicibile, a cui non si arrendono. Ma qual è il discorso perduto, sotteso a questi frammenti? «Se metto dei segni sul muro, comincio a credere al muro». Tra un’affermazione e l’altra, si raccoglie l’assenza, ciò che manca al dire; e tuttavia in questo spazio in cui ogni pronunciamento è anche un ascolto avviene un dialogo, con i molti altri poeti chiamati in causa, numi esplicitati per stabilire la costellazione di riferimento e orientarsi, mentre si resiste al naufragio. Diario dunque tragico, in cui la prosa evita il tono oracolare di chi si risarcisce, idealmente, attribuendosi un destino. Qui invece «non ci sono disperazioni necessarie. Solo inevitabili».
La poesia di Ercolani porta a frutto queste premesse. Nel passaggio al verso, la ragione, già messa sotto scacco, cede posto all’immagine, al rapimento delle parole, a un lucido abbandono di quel discorso solo evocabile che, in questo caso, diventa scena, spazio agito da un soggetto dominato dalla lucidità del sogno: la ragione c’è, è vigile, ma incantata.
Dunque qui si arriva alla poesia non attraverso la forma, ma il pensiero fulmineo: «Ogni poesia reale è una fulminea distruzione/ricreazione del mondo».
