FIGURE DI DANZA. Marco Ercolani

Marco Ercolani, Fuoricanto. Note di lettura per alcuni poeti contemporanei, , Campanotto, 2000

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Il “grande cristallo del mondo interiore” – come lo chiama Celan – è il nascondersi della psiche al mondo che la circonda. Hortus conclusus a cui approdare, ma non paradisein tranquillizzante, non eden autistico, semmai “luogo estremo” in cui calarsi per procedere verso la cancellazione progressiva del “fuori”. Qui nasce la scrittura anche come atto di sovversione totale, atto di “resistenza” che respinge il mondo e lo tiene ben fermo ai confini del proprio universo interiore. Lo testimonia Cesare Greppi, in questi versi che citiamo da Supplementi del giorno e della notte (Guanda, 1989).

“Erano caffè che mettevano

in bocca figure, volanti

grazie, e i piedi pestavano

tracce dell’elmo perduto,

erano notti che dormivamo

bene, erbe, stelle erano

alti moti del capo per chiamare

(così girano e s’intrecciano)”

Un imprevedibile magnetismo lessicale guida le parola a radunarsi in questi versi, che mimano uno stato di incantesimo, di ipnosi, dove il senso è destinato a restare sospeso in un puntillismo metafisico, in un sopore sonnambolico.

“Quanta avversione alle cose

chiarissime!

La debolezza due case

non terrà, anch’essa

accoccolata pure,

oscurità amando,

ogni bel nome dipinto

rimetterà al suo peso”.

Greppi ci invita a non entrare nelle sue poesie, a non scoprire nessuna realtà se non quella delle parole che ci cercano per comporre, tra di loro, una sorta di textus acromatico, come se tessuti diversi fossero cuciti insieme per rituali e cerimonie di cui abbiamo dimenticato il senso. Questa poesia risuona “perfetta”, istoriata nella sua perfezione come un graffito: e perfette si snodano le vie del labirinto che sembrano condurre – ma non conducono – al suo segreto. Questo armonioso ‘concento’ assume una spigolosa atmosfera da recitativo. La perfezione del recitativo, vissuta nell’imminenza dell’aria, non approderà mai al pieno canto – anzi a questo si opporrà con ostinata, determinata risolutezza. Greppi delinea un mistero che non può essere ridotto ad enigma. La sua opera assomiglia al “Libro” che Mallarmé non ha mai potuto cocnludere, lasciandone uno schizzo informe, quasi un “diario di bordo” verso il naufragio della parola: l’opera di Greppi appare come il commento postumo e disincantato a questo desiderio fallito. Il desiderio si è prosciugato in una musica puntillista, in un cammeo squisitamente verbale, che evoca i virtuosismi del prediletto Gòngora. Il precipizio si riduce a guscio, conchiglia, ventaglio: e le forme del ventaglio sono le cesure dei versi, che fermano il linguaggio in configurazioni astratte, come passi di danza immobilizzati nello spazio:

“Nessuna voce,

corre l’immenso suono,

come chi da un risveglio si muove

come staccato da solido buio,

tutto va in porto,

incrociandomi”.

La necessità di questa poesia è mantenere a distanza i sensi del discorso: impegnata in una schermaglia elegante e mai struggente con le parole, vuole ridurre al minimo i poteri del senso. Li assottiglia, lasciandone intatta la musicalità: nel “concertato” delle frasi poetiche si annida il pathos segreto di una poesia inconciliata e immutabile, che tende a produrre i suoi versi come un velo da cui nessun mistero trapeli più, come per una sorta di amnesia.

“intero è diventato ormai

ciò che si rabbuia; addio,

dunque, spalle, cranio, abbiate

cura del vostro risveglio”.

Ma queste “spalle” e questo “cranio” sono solo delle parole che hanno il “suono” delle spalle e del cranio, ma non corrispondono in nulla a quello che potrebbero significare, cioè all’angosciosa frammentazione di un corpo unitario: al contrario, sembra impossibile, leggendole, che l’uomo sia qualcosa di più di un piccolo ed elegante burattino, di un Pierrot in balia delle parole. Lingua falsamente misteriosa e ostentatamente difficile, quella di Greppi, che nasconde un suo irresistibile impulso a evocare suoni rituali, cantilene ed antifone di una liturgia laica, che solo casualmente corrispondono a parole mondane e comuni. Sotto la superficie delle parole c’è l’enigma di questa danza impossibile, ci sono le scene di un sogno da guardare più che un’azione di capire. Viene alla mente l’inafferrabile ironia di Jules Laforgue, giustiziera di ogni abbandono lirico – sigillata, come la parola di Greppi, nella sua apparenza misteriosa:

“Dissolta è la mia mente,

immagino, se una starna

nell’aria molle è tutta,

nel suo sensibile raggio,

sconsiderato spicco di me”.

Cesare Greppi

In un celebre affresco del Palais des Papes, ad Avignone, domina una scena: la caccia al cervo, con raffigurata la foresta, i cacciatori, gli alberi, e una grande macchia bianca, al centro, non voluta dall’autore dell’affresco ma prodotta dalle erosioni del tempo. Questa poesia disincarnata e inattuale mi rammenta quella parete dipinta ma semicancellata, dove il protagonista – il cervo inseguito – è, per un caso fortuito e imprevedibile, una macchia bianca fra i corpi dei cacciatori. Le poesie di Greppi sono proprio questo: oggetti remoti, reperti fragili, maschere di un rituale scomparso, che evoca figurazioni mitiche ormai incomprensibili. Polvere di parole, impalpabile e finissima, trattenuta con difficoltà nei margini del foglio, questi versi ricordano le enigmatiche sculture, in oro e in vetro, di antichi e muti strumenti musicali, così come le ha evocate un artista contemporaneo: Piergiorgio Colombara.

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Piergiorgio Colombara, Neroro

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