PALLAKSCH. Marco Ercolani

Pallaksch

Taccuini di Friedrich Hölderlin (1806-1841) sotterrati sotto un gradino della torre di Tubinga

Chi sospetterebbe che il tragico poeta degli inni è diventato un povero vecchio che racconta menzogne a se stesso nella torre di Tubinga? Eppure la leggenda della mia pazzia è stata utile all’estasi poetica. La torre è sempre il migliore rifugio per il signor Bibliotecario. Qui posso non parlare di dèi. Qui sono calmo. Ho annunciato epifanie ma non è apparso nessuno: forse, ma per pochi secondi, si è appannato lo specchio. La poesia è una statua di pietra. Una debole lingua di sensi e di suoni esprime appena la natura di quella pietra. Qui, dentro la torre, dentro il corpo, faccio l’animale e il matto. Custodisco il vaso. I limiti della lingua sono l’ombra dell’illimitato. Un vomito e un delirio non sconvolgono nessuno. Per questo sono qui, a fare il folle. Tiro il fiato. Non sopportavo più il peso dell’esistente.

Non so quando e come accadde. Mi trovai di fronte al dio. E’ semplice dirlo, quasi naturale. Era lontano e vicino, indefinibile. Era una specie di nebbia. Niente di clamoroso. Chiunque fosse passato di lì avrebbe pensato a dei vapori della terra, provocati dal caldo. Osservai come fosse temibile narrare tutto questo. E allora dimenticai la nebbia, mi finsi pazzo, aiutai il falegname a piallare le assi, mi accordai al ritmo del suo lavoro. Non fu per viltà che tacqui ma per timore che parlare fosse svendere il dio. Lo avrei lasciato lì, nella lingua mozzata, nella nebbia, a dire di sé. Era meglio così. Stare con Zimmer, il brav’uomo.

Cosa sono le chiacchiere degli uomini se non un terrorizzato rituale di atti in attesa del congedo definitivo? Ho pena di loro. E’ più semplice la maschera-follia della vita-sciocchezza.

Amore, solo amore. Ecco, Diotima. Avremmo potuto fuggire. Ma, se lo avessimo fatto, ci saremmo bruciati uno nell’altra. E poi, chi avrebbe fatto racconto di noi?

Friedrich…

Qui, ha scritto una donna. Quando è accaduto? Ieri notte? Cosa sono i miei quaderni, adesso, se non esempi di come anche l’intimo atto della scrittura non sia una confessione volontaria ma un documento stregato, un manoscritto traversato da miniature di annegati, demoni, occhi, liocorni? Noi tutti, ovviamente, seguiamo traiettorie eccentriche.

Friedrich.

Vieni.

Amore.

Alle cinque.

E’ la settima notte: ricordati di me.

Diotima.

Perché mi parli ancora? Cosa vuoi da me? Avevo scelto la torre per non avere più interlocutori. Avevo scelto la faccia del falegname e non le tue labbra. Ho voluto che il tempo umano si riducesse a un debole incantesimo. Perché mi vuoi togliere questo spazio in cui sono immune dal mondo? Con quale presunzione vieni dall’altro regno per tormentarmi con questioni di vita e di morte? Le tue parole sono in codice. Perché vuoi che siano decifrate dal pazzo di Tubinga? Di cosa mi stai parlando realmente? Lasciami essere chi sono. Da cosa devo ancora salvarmi?

Una sala vasta, costruita per dèi felici. Uno spazio ampio e magnifico. Su questo pianeta è la torre di cui sono volontariamente esule. La mia forza è splendidamente rinchiusa. La mia poesia paurosa sigillata nella pietra. Misura e dismisura si fronteggiano, pacificate. Finalmente so. Avere un corpo umano è già possedere le pareti dell’urna. Ma allora perché, qui, queste righe di Diotima? Perché non tace? Perché non impara? Io amo l’assenza: amo Penìa, madre di tutte le cose. Ma Poros, il suo sposo, è ancora più amabile. Poros è l’espediente, la scaltrezza, l’enigma. E’ colui che dorme nel sonno. Farsi mendicante a causa della propria ricchezza, e stare lì, in cima al vulcano, senza il fuoco che ti divora, povero Empedocle. La distrazione è tutto. Una volta scrissi: «Il destino ci spinge davanti e in cerchio. Io taccio, ma s’accumula in me un peso che alla fine dovrà schiacciarmi o per lo meno oscurarmi la mente in modo irreversibile».

Scrivevo per annunziare la follia. Lucidamente, come chi scrive un articolo per essere letto. Non volevo impazzire ma proteggermi dal turbine che avevo sfiorato. Dare qualche segno di escandescenza mi sembrava un prezzo abbastanza leggero da pagare.

Dire l’oltre della gioia: essere di nuovo qui, vaso sacro ma senza dèi, colmo di polvere. Essere folle, al minimo della vita cosciente, per realizzare la migliore prossimità al dio. Gli scrittori stampano libri – che atto feroce! I poeti sono clandestini, scrivono per l’aria.

Mia madre potrà lamentarsi a piacere del suo orribile destino: avere un figlio demente. Io, però, non sono più suo figlio e non sono tenuto ad ascoltare le sue chiacchiere di nobildonna offesa. Solo i morti sono con me. I vivi, così spero, consumino altrove il loro destino.

Tutto era troppo lento per te, Friedrich…

Una volta, Diotima. Ora non più. Ora il tempo è giusto e il riparo perfetto. Se fossi ancora viva potresti venirmi a trovare, in qualche piovoso pomeriggio domenicale, senza destare sospetti: a quale cattolica e virtuosa donna tedesca non sarebbe lecito esercitare la carità e rendere visita al celebre pazzo di Tubinga?

Per tutto ciò che non risuona più ho un vero culto: essere poeti davanti a una cascata è facile come vagire. Ma quando siamo annientati da un muro ammuffito, da un tavolo freddo, essere poeti è una vittoria.

Andiamo via dal regno dei viventi in perfetta immobilità, chiusi in stretti contenitori. Se una lama sottile ci entra nella pelle mentre respiriamo, non siamo più nulla. Se un cuscino leggero ci tura le narici, soffochiamo. Se un centimetro di piombo ci penetra la carne, moriamo all’istante. Poi, alla fine di tutto, il risultato: polvere che ha provato passioni. E Fichte osa parlare di un Io…

La mia follia è un teorema kantiano. Come sempre, quando non si vuole soffrire, si diventa kantiani, fino alla ferocia. Almeno, così, tutto appartiene a una logica, non a noi. I terremoti si sono fermati. La terra smette di girare, è un sasso sospeso nell’aria. Un attimo di quiete. Me la appendo qui, sopra il cuore. I pesci nuotano nella mia stanza alla ricerca dell’acqua. Io ho una penna che scricchiola piano nel liquido, che genera carta – documenti, note, taccuini. Lettere, Diotima. Non posso tornare da nessuna parte. Per questo sono qui. Il vaso ha pareti che non sono io a decidere: è la torre del pazzo. Niente di più neutro. È stata la scelta più sobria che potessi compiere: essere povero, privo di tutto. Quale maggiore povertà che perdere il comune senso della ragione e mandare in rovina le colonne della logica umana?

La linea definita si unifica a quella indefinita solo in un’approssimazione infinita. Approssimati, imperfetti, ma sempre più vicini al centro – più affilati. Resta il corpo – una miseria da affidare agli eredi, alle tombe, ai piccoli animali della terra, ai grandi uccelli del cielo.

Mi troverai davanti al paesaggio. Diotima.

No, Diotima, non ho nessuna intenzione di opporre nulla a nulla. C’era un essere al mondo con il quale sarei vissuto per millenni, se fosse stato possibile. Quell’essere eri tu. Ma tu sei morta, sei lontana da me. Qualche idiota ha detto che, dopo la tua morte, io avevo la barba lunga, vestivo da mendicante e nei miei occhi si notava una certa assenza spirituale. Quell’idiota aveva perfettamente ragione. Potevo essere diverso alla notizia della tua morte? Potevo essere nobilmente curvo sotto il peso del dolore, come una statua di Fidia? Ci sono imbecilli, al mondo, che non ci si sazierebbe di odiare.

Il tempo di Jena, ricordi? Quando volli mettermi alla prova e saggiare la mia vocazione. Quel tempo è morto e i miei sentimenti si sono polverizzati con quella fine. E’ rimasta, del mondo, solo questa imbarazzante volgarità. Il mio stile tardo-sublime avrà solo figli: nessuna madre da uccidere e nessun padre di cui sbarazzarsi. Non ho più voglia di niente. C’e un mezzo per liberarsi dal proprio stile?

Nessuno ha mai parlato, per la mia poesia, di un’invenzione che si immerge nella fonte stessa della lingua e canta, più che la formazione delle parole, la loro stessa materia, facendo scaturire una parola densa, sonnambolica, in bilico fra rigore ed esperienza? A tutti è bastato definirmi estraneo alla terra. Ma sono loro, i miei squallidi contemporanei, a non conoscere le grandi forze della terra.

Tra giorno e notte deve apparire una verità

ricopiala tre volte

anche se non sarà parlata

deve rimanere…

«Le donne, qui, mi lasciano di ghiaccio. Non so che fare. Sono impresentabile agli uomini. Sento che è una miseria provare visioni. Il cielo è di ferro come il mio cuore di pietra». Così scrivevo a Jena. Adesso non più. Adesso io sono Scardanelli. Che nome suggestivo! Un pianeta distorto dalla sua sfera. Un cerchio sacro rotto da uno sputo. Scardare, pettinare lana, spezzare anelli. Tessere e spezzare. Scarnare. Come il macellaio, scarnire fino all’osso. Scardinare, sradicare, svitare dal perno, strappare dalla radice! O Scardanelli! O Scamandro! Folle Aiace! Aias! Aiai! Non è scandaloso Scardanelli? Non sono io a scandire, scarnire, scarnare la trama dei miei versi, coprendo fogli e fogli dei poemi che Zimmer brucia ogni notte, fedele al mio ordine?

Ascoltami, caro. Vieni fra le mie braccia. Dobbiamo partire.

Diotima

Cosa volete da me? Lasciatemi zitto. Taci anche tu. Il carnevale della follia è così dolce. Scalda i piedi come un bicchiere di acquavite. C’è forse qualcuno che mi chiede ancora qualcosa? che da me esige la struttura di un’opera? Va bene così. Entrasse qui il re delle lettere, gli farei il latrato del cane, e le génial artiste impallidirebbe, come un qualsiasi funzionario imperiale. Sono proprio il padrone del mondo. Si spezzino gli altri, le ossa. Sono stato lirico abbastanza perché spolpino il teschio della mia poesia, anche in mia assenza. Come potevo non cedere al fuoco, Diotima? Empedocle mi catturò subito: il gorgo, la tragedia. Da sciocco e sublime poeta, lo amai. Volevo perdermi. Anche ora non ho smesso di amarlo, però ho smesso di perdermi. Questa torre è la cenere che continua a covare. Io resto qui, come brace muta. Più che uno sconfitto, mi sento uno scudo. In certi affreschi di Paolo Uccello, che ho sfogliato in alcune riviste di Francoforte, lance fitte ed aguzze delimitano il furore della lotta, lo alludono ma non lo dicono. La mia follia è questa selva di lance, Diotima. Perché avete tutti commesso lo stupido errore di confondere la mania che smarrisce col furore che nutre? Perché sei morta nell’estasi del nostro amore? Perché ti sei smarrita? Avresti dovuto capire che il nostro era un magnifico gioco, una maschera del desiderio, un balletto soave. Non si smette mai di danzare, Diotima. Il piede batte sul suolo, all’ultimo suono, e si leva.

«La sua lingua era un miscuglio di greco e di latino, era incomprensibile, non potevo scambiare con Hölderlin una parola sensata!».

Müller: povero dottore spaventato! Un uomo semplice e infantile: razza d’idiota. Ma raggirabile alla perfezione. Esseri come Müller hanno perfezionato il mio scherzo. Si diceva allora, fra medici, amici, nemici, parenti, poeti: «Hölderlin è tornato ed è folle». La frase era perfetta: completava il mio disegno come la mano completa la forma del braccio.

Quando il grande funzionario imperiale delle lettere Johann Wolfgang Goethe venne a trovare me, il misero signor Bibliotecario, provai un senso di malcelata contentezza. Egli mi salutò affabilmente, composto come sempre, attorniato da due giovani studenti di Jena. Mi pregò di scrivergli una poesia: si raccontava, in giro, che io scrivessi poesie solo su richiesta dei miei visitatori. «Come vuole Santità Vostra. Scriverò della Grazia, della Primavera o dello Spirito del Mondo?». Goethe sorrise, benevolo. Per lui non faceva differenza. Io mi sedetti al tavolo, mite scrivano obbediente al comando del grande scrittore. Scrissi come sotto dettatura. Lui mi guardava, attendendo pazientemente i versi del folle, il bizzarro reperto che avrebbe annotato, descritto e catalogato nel suo erbario di rarità. Fu allora che la sua fronte mi diede un senso di raccapriccio e di nausea. Stracciai il foglietto con i versi appena scritti, ne feci una palla e la scagliai sulla fronte del vecchio. I due studenti, sbalorditi, fecero cerchio attorno al grande scrittore imperiale. Cominciai a grugnire come un maiale. Mi misi carponi. Guaii. Lanciai strida. Goethe sbiancò. I due studenti indietreggiarono con lui. Li vidi scappare a gambe levate dalla torre di Tubinga. Risi in modo sonoro e lacerante perche mi udissero bene. Avevo voglia di vendicarmi del patriarca. Che il mio riso gli risuonasse nelle orecchie per sempre come una sentenza di morte, ogni volta che una ballata armoniosa gli fosse venuta alle labbra con quell’irritante facilità.

Gioisco al pensiero che tutto, nel mondo dei suoni e delle cose, ha una connessione misteriosa: che le stoviglie sporche di cibo e il movimento delle sfere celesti hanno comunque una legge comune.

Parleranno, nei secoli, della notte che mi ha ottenebrato la mente. Io tratterrò a stento, dalla terra, una risata di scherno. Quella lunga risata, che sale anche oggi dal fondo della torre, in certe notti di plenilunio.

Qualcuno ha mai studiato veramente la mia calligrafia? Ogni parola, nella pagina, ha uno spazio esatto. Guardatela bene. È proprio la scrittura di un folle? Ne siete sicuri? Leggetemi:

24 maggio 1748

Quando la vita usata dell’uomo va lontana

dove splende lontano il tempo delle viti –

vi è anche il campo sgombro dell’estate

e il bosco appare nel suo volto oscuro.

Se la Natura integra l’immagine dei tempi,

se lei rimane e quelli sono labili,

è per sua perfezione. Il cielo alto riluce

per l’uomo come i fiori che incoronano l’albero.

Con umiltà

Scardanelli

E allora che ne dite della mia esitante e anomale calligrafia? Non notate che i dislivelli fra le lettere sono assenti, che tutti i margini sono occupati, che c’è armonia fra riga e riga? Non vi è nulla di realmente sbilenco o folle o deforme nella mia scrittura. Periti calligrafi avrebbero riso delle diagnosi di medici ottusi, turbati dall’orrore dell’incomprensibilità.

Dalla mia finestra vedo il Neckar, la valle, il bosco. Waiblinger si ricorda benissimo quando mi sono seduto accanto alla mia finestra e ho descritto il panorama con parole perfettamente comprensibili.

Mio Signore, Vostra Grazia, Sua Maestà. Il mio nome è cambiato, Eccellenza. Non sono più F.H. No, mio Signore. Non sono Holder, il triste sambuco. Non sono Helden, lo stupido eroe. Chiamatemi Killalusimeno, Buonarroti, Buarroti, Scaliger Rosa, Skardanelli, Scardarelli, Scarivari, Salvator Rosa. Llalusi: luce, illusione, signore. K (Chi?). Ma venir meno! Il mio nome, Signore, Eccellenza, Vostra Grazia, è un pasto per la specie umana. E’ il suono skar che voglio impastare nel mio nome. Voglio che gli uomini, chiamandomi, abbiano nella bocca questo suono feroce, ingiurioso, accusatorio, conclusivo: skar.

Buonarroti: scultore. Buarroti: l’artista deforme. Salvator Rosa: pittore. Scaliger: un dipintore di Verona. Scarivari. Stradivari. Trillo del diavolo. Sono il vostro umilissimo Scardanello. O Sganarello? E Don Giovanni, dov’è? Perché non avete mai immaginato che io fossi il servo di me stesso? Parlo italiano, signore. Ho diciassette anni, barone. A trentasei moriva mio padre. A trentasei sono impazzito. Fra trentasei morirò?

Ormai, Diotima, non sono che lì. Il Tu mi ha tradito. Non posso parlare ancora. La scordatura va curata in un altro modo. Questa spinetta non funziona più. Male. Malissimo. Precipitevolissimevolmente. Parola di Herrn Rossetti. L’uccellinmadrigale succhia la valle del Neckar da millenni. Un canto lussurioso. Mi sento, con i pensieri, così cerimoniale. Non ne avessi neppure uno, a frugarmi la mente…

Quando dissi che la sorgente della saggezza era avvelenata e che i frutti della conoscenza erano quelle prugne malcresciute che avevo schiacciato nel mio giardino, qualcuno sorrise. Ma io intendevo altre cose…

C’è un Dio cannibalico che mangia volentieri il mio ciarpame di carta: si sveglia alle undici del mattino, si stiracchia le membra, poi comincia ad affilarsi gli artigli (anch’io li affilai, un giorno, nella carrozza, contro la faccia di un imbecille). Io non sono un Magister: io sono il bibliotecario del Principe. E, soprattutto al mattino, mando un odore particolare. È l’odore dei pazzi: l’ho scelto accuratamente, a custode della mia pelle. Credo che il medico che studia la psiche e quello che studia la pelle siano due asini di ugual valore.

Voi, boschi soavi, dove a serena distanza brillano splendide immagini del paesaggio che inseguo assiduamente in questa mite atmosfera, voi, boschi belli e dolci, ho perso il ricordo delle forme grigie e inarcate delle nubi, ho dimenticato le vampe dei boschi e i rombi degli uragani. Scrivo in piedi. Batto il ritmo. Fingo di essere un ingenuo estensore di dolci strofette alcioniche. Mi va bene così: uso modelli semplici. Non turbatemi più. Non sono fra gli uomini che vogliono nuove mete, segni dal mondo, prodigi. Voglio la mia valle delimitata, il mio piccolo purgatorio, e le dolci, uguali, chiare stagioni… Quando scrissi l’Estate e la datai 9 marzo 1940, io avrei voluto, forse, dire che, ma no, ma sì, domani, certo, d’accordo, la pace, la salvezza, per tutti…

Passatempo burattinesco per tutti i Keller e i Fischer che vengono a spargere lacrime sulla follia dello sventurato poeta, io suono la spinetta e improvviso poesie con il cuore che mi batte della gioia, consapevole di ingannare tutti, anche me stesso.

Mentire è una nota leggera, un accento acuto, nel mio presente, che non sopporta i gravi e tragici accenti del passato, che non tollera i circonflessi e instabili accenti del futuro.

All’egregio signor di Le Bret che viene compunto a trovarmi auguro di évanouir nella valle del Neckar. Via da qui, bien loin d’ici. Versi metricamente esatti. Così come si deve. Il demone si libera dai parassiti. Avete mai sentito di quei nani greci che consegnano ai rari visitatori le maschere di se stessi e poi si sfrenano in una danza irripetibile?

Camminare. E poi camminare. E ancora camminare. Finché i pensieri escono dal naso e i versi dalle dita e tutto comincia a fluire: camminare per smuovere le pietre che si oppongono alla circolazione del sangue. Ciò che mi ha reso esausto è stato quel dovermi sempre comportare da ometto perbene, da umilissimo aio fra le linde pareti di una stanza borghese, da povero servo che nelle ore libere sognava troppo attentamente il suo sogno, le sue impoetabili lingue, tutte oscillanti sull’abisso.

Zimmer mi fornisce di molta carta. Io devo molta carta a Zimmer. Per quanti gulden cago poesia?

Zimmer. Mio dolce falegname. Mia camera dolce. Rifugio. Legno caldo. Qui. Stare, stare. Qui. A lui e solo a lui lascerò questi taccuini: in un cassetto a parte, ben distinti dalla carta che riempio di poesie d’occasione. Non ne dovrà mai parlare e solo un suo lontano discendente, nel ventesimo secolo, a prodigiosa distanza dalla mia morte fisica, potrà pubblicarli.

Riesco bene a mimare, nel viso che sta invecchiando, gli effetti devastanti della follia – lo sguardo obliquo, l’irriducibile magrezza, il fare cerimonioso e convulso, lo spasmo delle dita – tanto che potrei essere, per gli scrupolosi esegeti della mia malattia, una bellissima biblioteca sintomatologica.

Vorrei fare un Almanacco e con le poesie dell’Almanacco mettere tutti nel sacco, anche Apollo che aspetta le odi, anche Cerere che nutre i semi, e tutti gli altri dèi per i quali meditai rinunce e tragedie: ma gli dèi sono tutti in questo dito segato dalla forca del falegname – non sapete che i falegnami costruiscono forche per i condannati? -, in questo dito che si suppone appartenga al grande Hölderlin, che fu piccolo fra le tette della Nutrice, e con quel dito esplorava le orecchie e gli occhi di lei e piangeva quando non trovava nulla e doveva ricacciarsi il dito in tasca e piangere poesie e tremare poemi, da sciocco ragazzo qual era, pieno di desideri, traboccante di sogni. Gli dèi sono tutti in questo dito da forca – dito di merda, dito di porca.

Non aprirete il mio anfiteatro. Scardanelli-Turm: proprietà privata. L’intero corpo, l’intera psiche. Io sono gentile. Io suono e scrivo. Io cammino. State lontani. Fate visita a un monumento o al tarlo che lo rode? State lontani. Sii tu, o canto, il mio gentile asil. Sono robusto, vivo e cammino. Mi piacciono i valzer. Il mondo e bellissimo. Ohdindondan.

Pallaksch.

Né si né no.

P-a-l-l-a-k-s-c-h.

Non posso rispondere.

E’ lei che lo afferma.

Forse.

Vostra Grazia lo dice.

Io no.

Se lei comanda, certo.

Non saprei.

Gustav Schwab disse che nelle ultime poesie il mio genio appariva più integro. Fu il solo che, sebbene parzialmente, intuì la verita. Ma quella che lui supponeva integrità era solo pacificazione dello spirito.

«Assente dal mondo. Sconvolto nella mente. Capace solo fino a un certo punto di lavori letterari. Non è più possibile far rimanere ad Hamburg il mio infelice amico, la cui demenza ha raggiunto un grado molto alto».

«Vagava con i sensi in disordine, in un soliloquio confuso».

«Sono comuni ai suoi versi rigidità e affettazione, linguaggio lezioso, manierismi verbali, tono infantile, pleonasmi, stereotipie. La sensibilità stilistica è perduta. I concetti chiari sono sostituiti da parole vuote».

Da finto fool penso ai grandi uomini delle grandi epoche, che si propongono di raggiungere il fuoco sacro e trasformano il legno e la paglia del mondo in lingue di fuoco slanciate con loro verso il cielo. Gli uomini non sopportano che quanto pensano e fanno venga trasformato in fiamme dai poeti.

La mia vita più intima si ribella se penso che noi ci siamo perduti. Diotima

A fatica mi costringo a parlare. Credimi, Diotima: la parola si versa copiosa dalla bocca ma il meglio resta sempre in disparte e giace in profondità, come la perla nel mare.

Io? Nostro Signore Iddio.

Simile all’uomo che divora uomini

a colui che vive senza amore.

[…]

Un segno noi siamo

di nulla

discorde lucente

nulla chiaro

fuori dal pensiero

all’ira del mondo

senza nome vaso roccia giorno

[…]

l’ira del mondo

Grave la parola: un macigno. Ma fatta di suoni di incommensurabile leggerezza.

Mi chiese di te. Gli risposi con parole sconnesse, Diotima. Gli dissi che ci eravamo sposati, che avevamo tredici figli, di cui uno era imperatore di Spagna. Lo confusi, lo smarrii. Perché non ripetesse più il tuo nome: è la sola sofferenza che non posso tollerare.

Si deve sentire, tra i mortali, il sublime. Ma come?

L’artefice forma vasi. Ma, quando si arriva al giudizio finale, quando si posano le labbra sulla coppa, si sente solo l’aria.

«Solo di un folle voglio parlare, non posso vivere se non parlo di un folle!». Oh Waiblinger! Puro, povero, piccolo ragazzo! Il mio solo rimorso è avere ingannato anche lui, come gli altri. Ma questi teneri ed esaltati studenti, dopo aver visitato la torre di Tubinga, hanno scritto poesie più profonde e racconti più pensosi.

Ho sempre amato le montagne. Morbide e sacre, umane e celesti: cambiano secondo la luce o il vento. La poesia può nascere e morire mille volte, frantumata in mille lingue, ma la montagna resta, indifferente e luminosa, chiara e sacra. Vale per tutti. Non dà e non restituisce. È.

Alla fine, in certi momenti, non potevo realmente scrivere una parola di più. Solo esortato da sconosciuti, mi sedevo al tavolo e scrivevo. Ogni suono in più sarebbe stato un colpo alle spalle dell’uomo in bilico sul precipizio. Ma, se venivo pregato, se era l’occasione del momento, potevo obbedire, potevo salvarmi. Non scrivevo per me. Non ero in pericolo di vita.

Diotima, non possedere la gioia che potremmo darci merita le lacrime che piango da anni. Ma la cosa orribile è che tu sei morta con le nostre forze migliori, uccisa dalla nostra comune assenza. Ignorando se sia meglio tacere ciò che ci sta a cuore o tentare una parola, ho pensato stupidamente di risparmiarmi. Mi sono messo da parte. Ho fatto finta di accontentarmi, come se io fossi veramente il giocattolo degli uomini e delle circostanze. Ho rinnegato l’amore per te opponendogli l’estrema resistenza in me.

Quasi settantanni. Da ventisei sono folle. Quasi sessant’anni. Da ventisei sono folle. Ma le poesie, che firmo Scardanelli, non sono macchie d’ombra su un fiume lucente: sono semplicemente il mio porto finale.

Grande quiete. Tempo sereno. Fra poco mangerò. Se le poesie mi avessero bruciato, come potrei nutrirmi ancora? È bello nutrirsi e custodire, nel corpo buio, il cibo. Trasformarlo, dissolverlo e poi scaricarlo in merda. Zimmer dice che il troppo studio mi ha fatto esplodere. Rettifichiamo: avrebbe potuto. La torre di Tubinga non è forse l’emblema più solido del mio mancato traboccamento? (Oggi ho dimenticato di calpestare l’erba e i fiori che avevo raccolto – c’è il pericolo che mi giudichino sano?). Questo non deve accadere. Ci sono momenti in cui parlare è orribile e nessuno potrebbe capirmi. Così preferisco che nessuno possa realmente capirmi e che tutti si abituino al fatto che io sono completamente folle e dico terribili insensatezze. Soffocate nel fango, le perle non brillano più, non danno più scandalo. Una volta strappai al dio vittorie non insignificanti. Ma quel tempo è passato da un pezzo e non c’è più nulla, in me, dell’uomo di allora. Solo una piccola astuzia contadina, solo la scaltrezza di nascondere la mia ricerca d’assoluto in una dichiarazione di smarrimento totale. Riesco a far accettare il mio fuoco solo riducendolo a moneta corrente, a delirio comune.

Ora comprendo l’uomo perché vivo lontano da lui, in solitudine. La follia personale è una dolce ombra in quell’eterno rumore di stomaci e di voci che è la natura umana.

Dio ha stabilito il sonno, disgustato dall’orrore della veglia.

Non so se sia possibile arrestare la riproduzione degli uomini, questo nauseante rinnovarsi della specie. La pelle è sempre volgare quando diventa un abito di cera. La poesia è sine-cera. Sincera. Assoluta. Non si scioglie al calore delle fiamme. E poi gli specchi, i romanzi! Disastrosi.

A luce violenta: così avrei voluto la mia vita. Ma per chi poteva contare quella luce? Così l’ho interrata nel corpo mortale di un aio di provincia. La mia verità è un nodo segreto. Tale è stata e tale resterà. Fino al giorno in cui, se ci sarà ancora una terra da abitare e degli uomini che leggeranno poesia, questi miei appunti saranno contenuti in un libro, letti come testamento, commentati, tradotti, amati. Decido io il giorno. Sarà il 18 marzo 1993. No, non ingannatevi. Non è un numero delirato da Scardanelli. Questa è la data reale che, in piena lucidità di mente e di spirito, di logica e di passioni, alla fine di questi taccuini, io, il prigioniero della torre di Tubinga, il compagno di Zimmer il falegname – io, Friedrich Hölderlin, poeta – pongo.

(1996)

* Pallaksch è apparso in “Arca, prima serie” nel 1996, poi è stato pubblicato in volume, insieme ad altri racconti apocrifi, in Discorso contro la morte (I Libri dell’Arca, Joker, Novi Ligure 2008).

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