TRE TESTI PER ANGELO LUMELLI

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REFRAIN LUMELLI. Michelangelo Coviello

In principio era il terrore, lo stupore dei greci di vedere ciò che accade e quindi partecipare, un fare esperienza con gli occhi. Poi era la rivincita dei tedeschi nella fenomenologia. Infine era il negativo promosso a unico motore della storia.

Insomma da sempre la scrittura testimonia il suo essere patrimonio della negazione: per non ricordare, per cercare di dimenticare il trauma, scacciarlo da sé e confinarlo nella pagina. Ma lui insiste, ci abita, ci fa vergognare della caduta, della brutta esperienza, del peccato originario e di esserci cascati.

Questa è l”antifona” che ci canta da sempre il Lumelli. Un ritornello senza musica, senza paracadute: “nostra frase – porto in alto mare”. Così il primo verso dice subito l’indicibile, l’ossimoro della scrittura. Cioè della poesia ovvero negare la negazione non con l’affermazione ma con lo starci dentro, con la descrizione che la occupa. Non mi avrà del tutto, sembra dire il poeta, e nemmeno per sempre, non mi fa nemmeno più paura anzi mi tiene compagnia. E ragionando il verso si distende, l’ossimoro si placa “come uno spavento che ride”.

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LA CIRCOLAZIONE DEL DUENDE. Dario Capello

Note per: Angelo Lumelli, Le poesie, Edizioni del Verri, 2020

Questo è un libro di poesie ri-pronunciate. Quaranta e più anni gettati ad arco, ad arcobaleno direi, sopra la trama e il tempo di una vita. Il cammino di un’opera verso se stessa.

Non a caso, la cifra più incisiva, radicale, di questa poesia sembra quella di un dire che non si limita a dire ciò che dice, ma che interroga anche il fatto che lo sta dicendo. Una riflessione profonda sul senso primo, sulla potenza e l’impotenza della parola. Tra pronuncia e ripronuncia.

Qui, nello “spalancato vuoto”, nell’intercapedine è situata la voce di Lumelli, una voce che sillaba i nomi delle cose, pur sapendo che sono sempre nomi di incantamento, illeggibili, e che il senso compiuto “fa presto a finire”.

Detto in altro modo: il poeta intende consegnare la parola a una sua specie di unicità, e nel contempo avverte che la parola è quanto di più sfuggente e scivoloso ci sia al mondo.

Angelo Lumelli mi fa pensare a un nuovo Edipo, un Edipo novecentesco (quel “novecento che c’insegue”) che sa di non poter rispondere alla Sfinge, e quindi la interroga. Interroga la sfinge delle sfingi: la vita (che è enigma) attraverso una nominazione illuminata dei suoi punti di frattura, nei “ dintorni” della verità. Quest’ultima, come la morte, resta senza nome.

Nelle splendide pagine conclusive, quelle della “Porta girevole dell’Hotel Excelsior”, Lumelli parla del ”modo con cui è positivo un buco, luogo dove il linguaggio tesse la sua tela“. E mi fa pensare a una memoria di Emilio Cecchi, risalente a un suo viaggio in Messico nel 1920. Cecchi esprime la sua meraviglia per la determinazione delle tessitrici del luogo a lasciare nel tappeto sempre un foro, uno spiraglio aperto alla circolazione del duende, dello spirito folletto.

Un buco nell’ordito. E’ questa la pausa – madre? Quella pausa che incombe? Quel vuoto da ribaltare? E quel vuoto qui non è altro che consapevolezza linguistica (ancora siamo nell’enigma del senso e non senso, della potenza e impotenza della parola).

Enigma del linguaggio, evento “dove parole e cose si biforcano”, o anche “cosa bella cosa / nome senza cosa”, dal momento in cui si prende consapevolezza che ogni parola diretta non può che mancare il bersaglio, fino a rovesciare l’eccelso nel suo contrario, come ben sapevano i mistici…

Quanta tensione interna, qui, mobilitata per aprire dei fori, per sciogliere la morsa stessa delle parole. Lumelli sente come pochi altri che ogni parola che viene al linguaggio può far tremare tutto il linguaggio. E ce lo dice così: “come un eroe ti ho visto in mezzo al linguaggio in rovina mentre / cadeva in pezzi di qua e di là “.

Un soffio, un fiato (e siamo tornati al duende nella poesia di Lumelli) ciò che sfugge alla sorveglianza, ciò che sovente reclama una torsione della prospettiva consueta, Una parola “rigirata dagli spiriti”, per dirla con Kafka,

A esser più precisi, qui non è tanto la parola a venire rigirata dagli spiriti, quanto il fraseggio, l’andatura e il suo ironico “vocalizzo “. Tutta una trama di rovesciamenti, quasi sempre perentori, energici, fino a “capovolgere il rovescio – bella mossa “. (Sto pensando anche a SEELENBOULEVARD, che già dal titolo è esemplare…). Sono sintagmi sradicati dal terreno, guidati da una percezione e da una logica che non è quella gerarchica della sintassi con le sue subordinate.

E in generale, tutta la poesia di Lumelli diffida dal mostrarsi troppo consequenziale e sciolta. E’, la sua, una poesia di visioni che nascono da un attrito, da uno sfregamento che innesca la scintilla. Non sopporta troppe interpretazioni. Allo stesso modo, con qualche limite, vale quel che Freud dice dei sogni: sono gìà interpretazioni, non sono interpretabili.

Il registro linguistico insieme elevato (ma privo del peso solenne della gravitas ) e sobrio diventa timbro (grana della voce, direbbe Roland Barthes) grazie a una sotterranea, energica tensione. È quella che impone e detta un ritmo. Ritmo binario, un-due, un-due martellante, da marcia che incatena. Una marcia né funebre né trionfale. Forse quella del pellegrino del pensiero, del solitario camminatore, del viandante. Alles ist Weg, sentenziava Heidegger, tutto è via, cammino, Tao. Il senso del movimento e del procedere appare evidente nei versi di Lumelli, nonostante la certezza che venga a mancare il primo e l’ultimo gradino. Un movimento che non può essere rettilineo dunque, piuttosto una “finta partenza”, uno zig-zag, un rilancio oltre le linee, un contropiede. Comunque il ritorno di un’andata che forse non c’è neppure stata.

E a volte il ritmo binario prende figura nell’un-due del pugile. Dato e preso. Bruciante. Dato e preso fino alla richiesta di un break (ancora l’idea di una pausa, ma di altro genere ).

Infine, la donna. Altro enigma, quello della presenza femminile che attraversa tutta l’opera. Qui si riconosce l’archetipo di una Mater, dai tratti in parte mitici in parte realissimi e concreti. Il sacro e il terribile di una catabasi verso il grembo “dove affondo / come il rosso e il nero / che si addice”.

Detto tra parentesi, sono anche i colori della copertina del volume, il rosso e il nero, per curiosa sincronicità.

Sotto il “frufru di seta”, sotto le sottane scorrono figure potenti del Mito. Le immagini del femminile qui son subito agganciate da quelle dell’invisibile divinità. Alla lettera, donna divina, chiara e scura. Maria, la “colma di grazia“, può essere incarnata di sbieco nella forma terrestre di una maestra elementare, quella che passa tra i banchi e che “forse mi sfiora i capelli“. E poi la maestra a sua volta si confonde con l’iniziatrice: “le cosce sotto la cattedra”. Una donna, nel profondo, irraggiungibile, come ha ben rilevato Milo De Angelis, in quanto “ idea e creatura” insieme.

E proprio il tema nevralgico del femminile può essere elevato da mito personale in Angelo Lumelli a metafora grandiosa della poesia. Come l’ardente che dilaga nei sotterranei, nei pozzi, nelle ombre, e prova ad illuminare “quell’oscuro che ci ha salvato“.

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POTREBBE ESSERE QUELLA LA SCENA. Ignazio Romeo

Angelo Lumelli. Le poesie. A cura di Eugenio Gazzola. Edizioni del Verri, Milano 2020. I numeri, nel testo, corrispondono alle pagine citate del libro.

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Non solo Lumelli è un poeta autentico e, se una cosa del genere si può dire, “naturale”; ma nei suoi testi la poesia appare come indispensabile all’esistenza. Non è trattata come un “a parte” della vita, per quanto importante o significativo, ma come una sua porta cruciale. Ciò che leggiamo è dunque un frammento del discorso, idealmente ininterrotto, che Lumelli conduce con sé stesso o – si potrebbe anche dire – che la voce dentro Lumelli conduce attraverso di lui. La voce della poesia: intesa nel senso più laico e meno solenne che si riesca a immaginare, ma pur sempre luogo di manifestazione del senso del mondo e dell’esperienza umana.

Questo affioramento non ha però una espressione direttamente lirica. Lumelli appartiene a una tradizione poetica e filosofica che ha in sospetto l’io e le sue pretese di egemonia sulla realtà attraverso il linguaggio: “gemono sotto il linguaggio che li svergogna miei poemi!” (80); “dire è disdire” (91); “l’io che abdicò non abbia successori” (77).

Egli cerca perciò una “torsione” dell’espressione, in cui risultino presenti sia la volontà di dire, sia un dubbio radicale circa la possibilità di dire, e venga quindi messa in scena questa non sanabile contraddizione, che vuole contemporaneamente presenti la cosa (che è l’idealmente piano dettato poetico) e la messa in crisi della cosa – e quest’ultima tende anzi beffardamente a prevalere. Tale processo, esplicitato con chiarezza nelle pagine teoriche che concludono il volume, ha un’espressione ironica e giocosa in vocalises: “guardaroba con lo specchio – anta girata e rigirata / stanza capogiro – mente di continuo rovesciata” (43). Ne risultano quelli che l’autore per primo chiama relitti: resti di un naufragio del linguaggio, ripescati, sottratti al loro uso originario, forse passibili di un uso differente, forse pronti per l’inumazione: dall’acqua che li ha restituiti alla terra che li accolga e li seppellisca.

Il mezzo più evidente di cui Lumelli si serve per tali scopi è di natura sintattica: nelle sue Poesie la punteggiatura è assente. Ciò rende laboriosa e ambigua l’azione del lettore di collegare i membri del discorso, che potrebbero raggrumarsi in un modo o in un altro, con effetti di senso oscillanti, visto che l’autore – non usando virgole e limitando i punti alla fine delle strofe o addirittura alla fine dei componimenti – si rifiuta di dare istruzioni al riguardo.

Abbondano invece i punti interrogativi, le parentesi, i trattini: come se in luogo delle affermazioni si facessero avanti incerte domande (delle quali non sempre si capisce a che punto incomincino), e come se il corso spontaneo della parola venisse continuamente sospeso da incisi e sovrappensieri. Di questa natura dubbiosa e ipotetica del discorso testimonia un incipit esemplare come “potrebbe essere quella la scena” (111).

Prima di proseguire, è opportuno precisare che Le poesie riunisce versi da diverse raccolte precedenti di Lumelli: Vocalises (2008), Seelenboulevard (1999), Bambina teoria (1990), Trattatello incostante (1980), Cosa bella cosa (1977); e antepone ad essi la sezione oblivion del 2020. A conclusione pone invece la dichiarazione di poetica (in prosa) “La porta girevole dell’Hotel Excelsior”.

In questa sorta di summa, tuttavia, l’opera di un’intera vita è sottoposta – come dichiara l’autore – a un “lavoro di riscrittura e di ripronunciamento” e presentata in ordine inverso: dall’“inedito e recente poemetto oblivion” “alla prima raccolta pubblicata Cosa bella cosa”. Questa cronologia rovesciata non mi pare vada letta nel senso di una supremazia del presente sul passato, ma in quello della messa in crisi del carattere “finito” delle poesie, per così dire, storiche. Rimettendo mano ai testi, Lumelli prende posizione in favore della loro indefinitezza, si oppone a una loro versione ne varietur: “torna / l’inizio mai finito” (90).

D’altro lato, il testo così ricomposto – o le avesse in origine, o abbia acquisito tali proprietà nella rielaborazione – mostra coerenza e ricorrenza di immagini e di motivi. Prima di discutere di esempi singoli, vorrei mettere in evidenza due caratteri generali. Il primo riguarda il livello intenzionalmente quotidiano in cui si sviluppa l’esperienza poetica (per quanto carica di radicali significati esistenziali): l’autore rifugge dai motivi eccezionali, dagli stati d’animo squisiti, dai paragoni forbiti. Se la poesia deve prodursi, ciò deve avvenire nella comune vita giornaliera di Lumelli Angelo, nato nel 1943 alla Ramata, frazione del comune di Momperone in provincia di Alessandria. Egli aborrisce ogni enfatizzazione, fosse pure quella della grande impasse. Una piccola spia di questa scelta è il frequente riferimento, nel testo, a nomi di strade: luoghi fisici e prosastici, biografici e cronachistici.

L’altro aspetto è la persistenza del bambino che Lumelli è stato, con riferimenti alle scuole elementari, ai compiti, alle maestre; e in generale alla capacità propria dei bambini di ingigantire il mondo: “oh stile dell’anima disegni dei bambini!” (58); “un moccioso chiede di te / io disabitato” (67). Qui si registrano anche l’esteso uso di diminutivi (palloncini, perlina, collanina, nascondino, fialette, bollicine, nocciolini di ciliegia, trombette) e l’evocazione di circensi facitori di prodigi (prestigiatore, giocoliere, trapezista, lanciatore di coltelli, acrobata), che si potrebbero intendere come omologhi della figura del poeta.

Nella sua postfazione, l’autore respinge espressamente la glorificazione del tradizionale fanciullino pascoliano. Ma è difficile che la poesia possa fare a meno del grumo primario di esperienze che vengono dall’infanzia; e Lumelli, che questo lo sa, lo asseconda senza arroganza.

Un breve repertorio delle immagini vede in primo piano alcuni avverbi e aggettivi trasformati in nomi: il lontano, il distante, il simile e il dissimile, l’invano (“ottenessi almeno l’appoggio dell’invano”, 57), il mancante, il visto, l’improvviso, l’uguale, il manchevole, e – naturalmente – l’esistente, il vuoto, il nulla. Si avverte, in questa scelta linguistica e concettuale, una ripresa del linguaggio degli autori tedeschi letti, amati e tradotti da Lumelli (Novalis, Trakl, Hōlderlin). Il passaggio alla lingua italiana sembra tuttavia togliere a questi termini astratti ogni aspetto fatidico ed epifanico. Il poeta-artigiano lavora il legno delle parole per ottenere una traduzione prosastica e quotidiana delle massime questioni filosofiche.

Lontano e distante alludono a una possibile rivelazione o a una conoscenza profonda e completa, che è però costituzionalmente impossibile e rimane come tensione del pensiero e del linguaggio: “quando finisce il lontano è finito anche il viaggio” (27); “ora che il grande lontano è finito – smantellato in ogni luogo – qualcuno ti ha visto su un treno per Voghera” (55); “naviga verso di sé chi invece si allontana” (59).

Il simile mi sembra indicare invece il territorio proprio della poesia, che è fatta di analogie e di metafore; e anche qui Lumelli sabota l’operazione che vorrebbe far tornare i conti, istituire un mondo di corrispondenze armoniose, di paragoni che esauriscono la cosa rappresentata in quella a cui viene rassomigliata: “la bravura è mancare il bersaglio / come assicura il lanciatore di coltelli” (103).

Ma accanto a queste figurazioni astratte, se ne affollano altre più quotidiane, e in un certo senso più intime nella loro dimessa piccolezza: varie specie d’animaletti, in particolare uccellini; una scatola con vecchie fotografie; fogli da colorare; i chicchi che si ammucchiano (“chicco d’essere”, 61); dolci che vengono preparati; finestre, a volte concrete a volte metaforiche. La dialettica di assenza e presenza (“(la presenza intera / è pari alla mancanza)”, 100) va in scena fra le cose di tutti i giorni, e spesso anzi fra quelle ormai fuori corso, sopravvissute solo nel ricordo (la caffettiera napoletana, l’idrolitina, il lievito Bertolini, il borotalco), con un effetto di reciproco straniamento. E tuttavia accade sempre qualcosa di essenziale, come rammenta il frequente ripetersi di una immagine di parto.

Fra le figure che ritornano, ve ne sono anche che rimandano al sesso, ma in una chiave infantile, in particolare l’immagine di gambe nude e gonne sopra il ginocchio, cui si appoggia forse un bambino, o che un bambino spia. E insieme, anche se non descritta minutamente, una campagna del Nord Italia assai presente, con colline e vigne, assorta e sfumante: luoghi rivisti con gli occhi della memoria.

Nel suo appassionato lavoro, Lumelli mi ha riportato alla memoria un saggio di Roland Barthes, Il piacere del testo, in cui il plaisir finiva per comprendere il piacere dell’assenza e della mancanza. Se in qualche modo Le poesie alludono, nei loro vuoti, a un testo che non può darsi come compiuto, un testo intero tuttavia nel volume c’è, ed è l’eccellente prosa che lo conclude, “La porta girevole dell’Hotel Excelsior”. Qui Lumelli presenta in modo articolato e completo la propria poetica. Fortunatamente, non rinuncia al suo stile: e mette in ironia la condizione di chi deve pronunciare parole conclusive e definitive (egli pur sempre “raccoglie per la prima volta integralmente tutte le sue poesie”). Si rappresenta perciò nell’atto di tenere il discorso finale a un banchetto sociale; un discorso che spiazza gli ascoltatori distratti e non collima con le loro aspettative. La finzione introduce così un elemento di incongruo e di casuale in un testo che pure tocca punte alte, citando in modo puntuale e affascinante Barthes, Hōlderlin, Dante, Giovanni, Agostino, Trakl, Anassimandro, Arnaut Daniel. Particolarmente suggestivo il richiamo alla espressività, contrapposta all’espressione, sulla scia di una delle Operette morali, l’Elogio degli uccelli: “Giacomo Leopardi sostiene che in taluni casi, per esempio negli uccelli, si realizzi non un’espressione, quanto piuttosto un’espressività, svincolata dal controllo dei risultati, quindi un linguaggio anarchico e totalmente inventivo, di puro istinto e di pura liberazione”. Un’utopia, che per un istante sembra sedurre il poeta Lumelli.

Da lettore di poesia occasionale, né particolarmente competente né di orecchio troppo raffinato, vorrei concludere dicendo che a me pare che i processi compositivi di Lumelli trovino momenti di vivificazione nell’affiorare spontaneo di un dettato più semplice e diretto. Il poeta ha la saggezza di non contrastarli, ma di farne una parte della sua tecnica di montaggio. Ne vengono fuori brevi distici incantevoli: “ad alta voce vanno i vecchi dei ricoveri” (28); “secchi cardi / nella fiamma dei venti” (42); “lunghi giri fa l’amore / intatto il suo cuscino” (48); “minutissima infanzia e strana bellezza del gelo” (55); “fogliame che galoppa / senza mai fuggire” (95); “affiora il profondo / in divertenti bollicine / apericena / con tante tartine” (107).

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