
Vasilij Kandinskij
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E ora ritorno a un concetto che mi è caro: in ognuno di noi c’è, se così posso dire, l’impulso a una forma. Che questa sia astratta, mentale, corporea, caotica, geometrica, informale non conta. Ma questo impulso c’è. Ogni sapere che noi pensiamo sia dentro di noi. L’immagine che si realizza adesso nei nostri occhi è un’immagine che potrebbe esistere anche senza di noi ma che ci attraversa in quel momento e noi siamo come quelli che, affacciati a una finestra, vedono il lampo e lo trascrivono come possono. Ci sono innumerevoli lampi come innumerevoli sono i racconti del messaggero che ha assistito all’evento o di tutti i messaggeri che hanno assistito all’evento. Perché il lampo esiste, certo, senza di loro, ma si racconta attraverso di loro. Così io credo che noi tutti siamo le voci diverse di un unico racconto. E oggi questo racconto è aperto e possibile. Siamo noi i portatori sani di questo possibile. Qualcuno direbbe che vedere è chiudere gli occhi perché davanti a una via che porta al cielo i particolari non contano anche se sono meravigliosi. Io credo però che tutto questo ci porti a uno spiritualismo della visione e che si identifichi la figura dell’artista nella figura del palombaro impegnato a dragare le acque del suo inconscio. L’immagine è solo parzialmente vera. Il palombaro che si immerge presuppone un nuotatore che non si immergerà. In realtà siamo tutti già sommersi fin dal principio: il caso è la nostra sola guida. Vista e visione non abitano due pianeti diversi.
Tutto è visione che rifiuta di essere capita, come racconta Nicola Cusano. Mistero senza enigma, fonte di meraviglia e di domande. Noi vediamo non solo con gli occhi ma con tutto il corpo, a volte anche con la speranza. Ed è così che viviamo: con la speranza che domani nessuno ci riconsegnerà al mondo delle cose normali, lasciandoci vivere il nostro giusto delirio. Nessun paesaggio appartiene all’uomo se prima non l’ha calato bene in fondo nei luoghi della sua mente. In quei luoghi, dove parlare di inferno o di paradiso significa fare solo dei giochi di parole, niente può definirsi o astratto o figurativo. Tutto è un fluire di forme e queste forme hanno un solo privilegio: non essere né rigide né curve, né significative né bizzarre, solo per intento ideologico. Allora in quei luoghi ci può essere accordo o disaccordo, macchia e figura, immagine e buio, e tutto diventa realmente possibile. Pensateci bene. Queste non saranno lezioni di estetica ma di libertà, e io non sono un filosofo ma uno psichiatra. Non passerò più altre ore fra vecchie circolari e libri scuciti, fra coperte ruvide e finestre bloccate. Fine di vent’anni di soprassalti nel sonno. Fine degli eterni lavori in corso, fra tramezzi di legno e mattoni sudici. Fine delle facce morte di chi ha lavorato al mio fianco. Basta anamnesi e cartelle. Fine del timbro sulla prescrizione di una ricetta di Delorazepam. Ricordo R. che, a diciotto anni, mi consigliava di vedere i noir americani e leggere i formalisti russi. Fuori il vento è tagliente e, dopo lo squillo del cellulare, eccomi a camminare per l’ultima volta nel viale freddo e ventoso che porta al Pronto Soccorso traboccante, con letti impilati nei corridoi e nelle sale mediche. Tutte rovine di cattedrali, ma quali cattedrali? cerchi il malato, cerchi il dottore, le stanze sono vuote, non trovi nessuno: solo parenti, zii, madri, sorelle, spalancano gli occhi allarmati nello spazio, non osano chiedere niente a nessuno, fissano l’ago della flebo nella vena di un braccio malato; il corpo, intossicato, respira rauco, in attesa di diagnosi. “Fatica non nemica”, così chiamava B. il suo viaggio nella follia. Solo per un pomeriggio, nonostante il dolore che gli trafiggeva la schiena, riuscì a dargli voce, a Villa P. Tutte le persone intime – la vecchia madre, l’ex moglie, i due figli, la nuova compagna, la psicologa e lo psichiatra – ascoltarono e applaudirono il suo diario in versi. Poi per B. ritornò il buio – ricoveri, confusione, fine dei pensieri. Ecco il resoconto di quella fatica. Non nemica, certo, ma neppure amica. Però, grazie alle mie ore tormentose, alle sue, nulla mi spaventa più. Sono immune da chi vuole farsi del male. Non devo capirlo o guarirlo: lo guardo. lo aspetto. Non ho più doveri. O meglio, ho tutti i doveri. Essere sentinella in un campo di battaglia che non smette mai di essere tale.
Uno psichiatra, cosa insegna? La scienza discontinua e infelice della libertà. Ha il compito di vedere, nella voce, nei gesti dell’altro, che cosa lo abbia fermato in quel dolore, che cosa lo abbia ferito in quel punto esatto. Si accanisce a cercare il vero in ogni persona, e non sono fondamentali le parole che l’altro dice ma il modo in cui le dice o le tace. Quelle mi hanno permesso di essere qui a parlarvi perché sanno che io non istigo, non provoco, non faccio politica attiva: mi limito a osservazioni inattuali. Ma voi, di queste osservazioni, fate armi. E la vera arma è sentire la possibilità dell’aria nel tessuto delle cose. Non si può nulla, senza aria. Ti avvolge, è comune a tutti: ma per ognuno c’è la sua aria, nel tempo in cui vive la possiede e, quando sparirà dal mondo, la lascerà ad altri, traforata dai suoi segni. Qualcuno li vedrà, forse. Qualcuno no. Il destino è destino. Però è indegno non avere speranza. Ricordate che chiunque muove le mani su qualche superficie, foglio o muro o terra che sia, chiunque agita le dita cercando forme, lo fa perché cerca, nel suo tatto, la speranza della nostra metamorfosi. La materia non è mai quel certo numero di protoni ma l’energia che li rende pulviscolo».
