ESSERE NEL VENTO. Per Antonella Anedda

Antonella Anedda, Tutte le poesie (Garzanti, 2023)

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Non esiste un modo univoco di fare “ordine”. L’ordine è solo uno dei possibili orientamenti nelle tenebre. Il poeta insorge contro le immagini costituite dall’abitudine perché insegue una sua personale epifania, un suo preciso “ri-vedere il mondo” con la propria fermezza di sguardo. Anedda si coglie mentre percepisce l’io e le cose in stato di ipnosi, dentro il silenzio dell’io e delle cose, usando la parola come bisturi pietoso che scava sotto la pelle per trarne segreti, ma senza dimenticare né la carne né l’anima. Intona questa particolare ipnosi immergendo il lettore nell’aura della “sua” epifania, del suo non prevedibile ordine di parole. Senza cercarlo, questo suo ordine-disegno, il poeta lo ritrova in tutto il suo itinerario poetico, da Residenze invernali a Historiae, ora visibile in Tutte le poesie (Garzanti, 2023).

«Alle quattro, nei giorni di festa / hanno fine le visite. Lente / le fronti si voltano verso le pareti. / Nei corridoi vuoti scende una pace d’acquario. / Luci azzurre in alto e in basso / sulla cima delle porte / sul bordo degli scalini. / Luci notturne. I malati dormono gli uni / vicini agli altri posati / su letti uguali. / Solo diverso è il mondo / di piegare le ginocchia / se le ginocchia / possono piegare, diversa / l’onda delle loro coperte. / Pochi riescono ad alzarsi sulla schiena / come nelle malattie di casa / e ogni letto ha grandi ruote di metallo / dentato molle che di scatto / serrano il materasso / o di colpo lo innalzano. / Il letto stride, si placa» (Residenze invernali).

Quando “Il letto stride, si placa”, osserviamo l”ordine insorto” teorizzato da René Char. Sopraffatto dalla tempesta delle analogie e dalla potenza del lutto, il poeta non tace e non impazzisce, ammutolisce dentro la sua calma densa di parole-testimoni: «…una parola, con tutto il suo verde / cestisce, si trapianta, // tu seguila (Celan)». Alla fine, da ‘folle sano’, trasfigura le logore parole dell’alfabeto combinandole in accordi e disaccordi, dentro un aspro combattimento notturno: «Con calma, / ora che tra le zolle / sono un’orma leggera d’animale / (più in basso della notte, / dove il buio è lavoro) / chiudo d’acqua le crepe, i grandi vasi» (Residenze invernali). Da quel chiudere i grandi vasi nasce l’esigenza di un’armonia instabile e dolente che rimuova percezioni innocue e geometrie consentite, di una forza rifondante un linguaggio poetico che non si limiti a ripercorrere i canoni noti ma sia rinominazione magica nata da un atto di meraviglia, di creazione-distruzione del precedente e prevedibile aistanomai.

Elias Canetti invita il lettore a scrivere un libro di giorno e un libro di notte, senza mai confondere i testi: solo molti anni dopo, in tarda età, gli sarà consentito fare un confronto fra le due scritture. Un libro del giorno e un libro della notte, scritti simultaneamente come scambio continuo tra passato e presente, sonno e veglia, vita e morte, è ciò che il poeta progetta per il suo ipotetico lettore. Scrive Canetti: «Scambiare segreti con Marte, senza fantasticare, naturalmente, è un compito degno della poesia». È questo il compito del poeta: parlare con un astro remoto? Chi è il suo interlocutore? L’’interlocutore, come suggerisce Mandel’stam, è sempre il “lettore futuro”? Forse no. Futuro sì, ma presente. Il messaggio nella bottiglia arriva proprio dove è necessario che arrivi e il lettore prescelto arriverà a leggere un testo nato per lui. Nasce qui l’utopia di una “comunità senza comunità”, dove i lettori trovano i loro poeti e i poeti i loro lettori, in un fecondo stare insieme, tra vivi e morti, al di qua e al di là dello specchio e del mondo, compagni di illusioni diverse e di diverse forme di verità, come testimoniano i versi di Anedda, nati da un “cielo durissimo, / senza scudo di nuvola”.

Mandel’stam cercava, nell’ossatura dei versi, una “nuova fisica delle parole”. La parola poetica è sempre una ‘prova estrema’ dello scrivere umano, oltre i manierismi e le scaltrezze della tecnica. Il poiein trasforma il linguaggio comune in accordi di parole che obbligano il lettore a sospendere qualsiasi forma di giudizio. L’azzardo si consuma fra i nessi imprevedibili della sintassi piuttosto che nell’isolata potenza della parola: i primi irradiano vibrazioni, la seconda brilla isolata. Scrive Thomas Stearn Eliot: «Il significato è la trappola in cui il significante ti racchiude perché tu, placato dalla quiete del senso, ne assorba con orrore tutto il suono». In Historiae, nella poesia “Anatomia”, Anedda descrive il postmortem con la stessa pace severa e infelice con cui descriveva le creature malate in Residenze d’inverno: «Dice un proverbio sardo / che al diavolo non interessano le ossa / forse perché gli scheletri danno una grande pace, / composti nelle teche o dentro scenari di deserto. / Amo il loro sorriso fatto solo di denti, il loro cranio / la perfezione delle orbite, la mancanza di naso, / il vuoto intorno al sesso / e finalmente i peli, questi orpelli, volati dentro il nulla. / Non è gusto del macabro / ma il realismo glabro dell’anatomia / lode dell’esattezza e del nitore. / Pensarci senza pelle rende buoni / Per il paradiso forse non c’è strada migliore / che ritornare pietre, saperci senza cuore» (Historiae).

Perdere tutto, tornare ossa senza pelle, nudi sassi. In un suo libro di prose sull’arte, La vita nei dettagli, Anedda scrive: «Perdere: smettere di possedere, dare oltrepassando, dal lat. dare per, donare attraverso, scavalcare se stessi smarrendo, smarrendosi, perdere oggetti e beni perdere quanto è caro. Difficoltà del perdere…Perdita: nel paesaggio, paradossalmente, grande spazio “a perdita d’occhio”… Perdere, de-possedere, decrearsi…Perdere i confini di sé… Ognuna di queste possibilità mi appartiene. Credo di avere imparato quest’arte abbastanza ma mai fino in fondo. Qual è l’opposto di perdere: accumulare quanto di inutile si addensa sulle nostre vite. La p di perdita nell’alfabeto di Rabbi Zakiva è l’iniziale di “Pe”. Bocca. Cosa può perdere la bocca? La parola. Per chi scrive è un bene. Unisco perdere e perdono, perdere la memoria, parificare quanto si era addensato. Si piange una perdita, le lacrime colano via dal corpo. Si perde sangue? Perdere? È una porta sul vuoto».

La poesia di Anedda è un esercizio di “de-creazione”, dove l’autrice guarda con occhi diversi, sospesi nell’aria dell’inatteso, qualcosa che è sempre stato visto in modo convenzionale e ora emerge vivo. La “de-creazione” dei dettagli, rivisti come realtà altre, la sapienza delle cuciture, dei tagli e ritagli dell’immagine, è la modalità strutturale con cui Anedda, bambina stupita, ricompone immagini e figure, reimmagina mondi. Il poeta, fra arte verbale e visiva, segue la traiettoria di un lutto trasformato in creazione, de-compone e ri-compone, facendosi traversare dalle analogie come da lampi notturni.«Noi restavamo immobili / in ascolto / contro l’ascia del muro, / sulle spine dei castagni / alzavano recinti / Di nuovo gli oggetti / avevano un tepore erano / bestie attente / tamburi di terra. / Le voci s’incrociarono / si trattennero / rimasero sospese». La poesia, secondo la definizione di Hegel, è un “suono pieno di discorso”. Secondo i poeti, è un gioco, una trottola. Bloccata nel senso comune, smette di girare, ritorna pezzo di plastica o di legno: quando riprende a vorticare, inafferrabile, guardata dagli occhi sorpresi dei bambini, riacquista il suo senso primitivo, sorgivo: la sua natura di danza. Ciò che si annuncia può esprimersi con frammenti che non dicono mai tutto e che ritagliano, reinventano. L’annuncio si perde nel messaggio, la voce nelle parole. Ma tutti i dettagli conquistano loro voce – nuova, stupefatta, slontanata. Scrive Anedda: «Cosa ci colpisce in un dettaglio? cosa ci commuove? L’oscurità da cui il nostro sguardo lo salva? La sua potenziale trasformazione in un altro sguardo, in un’altra vita? E cosa diventa il dettaglio in chi scrive poesia, in cosa si traduce? Io credo in uno spazio nuovo, in una terra ulteriore, avvistata da uno sguardo sgombro da qualsiasi abitudine». Il dettaglio è la “possibilità” della trasformazione, il divino immanente che sa concentrarsi nei limiti della cosa.

Rileggiamo, in Historiae, questa “canzone per le parole”, dal titolo “Contrasto”, una poesia-preghiera, scarnificata, icastica: «Lo capite da sole parole / non vi posso più mostrare / con voi faccio del male. Non posso più continuare. / Non voglio ferire, non voglio lusingare / ma restare nel calore minimo di un cerchio familiare. / Dunque parole siate buone, / andate nel silenzio / abbasserò la voce fino in fondo. / Dalla bocca già escono solo sciami di lettere / cartigli medievali. / L’incontro dei vivi con i morti è il nostro affresco. / Serve a rinunciare». In questa rinuncia anche alla “fisica delle parole”, alla voluttà della lingua, domina, incontrastato e finale, il silenzio: il vero (ultimo?) incontro fra vivi e morti. La scena della chiarezza finale. «È duro il cammino verso ciò che è chiaro, / l’ho capito col tempo, forse soltanto questo è il dono / di invecchiare. Lo penso mentre smacchio un lenzuolo / con la candeggina, che stinga soprattutto le iniziali, / rigide di fili, nodi. Punti a croce / sul nome infittito di vocali». Maria Lai, l’”amanuense dei tessuti”, avrebbe amato questi versi della conterranea Antonella.

(M.E.)

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