
Un libro, queste Cento lettere (Joker, 2023), sul mestiere di scrivere e sulla sua vanità. Un libro improvvisato, lievitato chissà come, che non risponde alle domande che pone. Due poeti si confrontano fra di loro con delle lettere dove autobiografia e finzione si mescolano in “lezioni di vento”. Prive di qualsiasi autorità, queste lettere si sviluppano con un autorevole senso di leggerezza. Fitte di fiabe, ricordi, racconti, teorie, frammenti di romanzi, sono segnali di fumo che sarebbe impudico decifrare. Il mistero di un’amicizia inventa spazi dove prima non c’erano spazi ma solo crateri oscuri. Le parole appaiono astratte, ma nel linguaggio cercano sangue, dolore, forse follia. Si potrebbe dire che qui leggiamo scritture sospese fra prosa e poesia, indefinite, incapaci di regnare sulla lingua, errabonde, stupite, schizzi alla ricerca di figure. Ma, leggendo, ci si inoltra in una selva senza figure, dove è facile smettere di capire. Poi si ricomincia, ci si riconosce. Cento lettere accomunate da un verso di Hölderlin – “Abita la vita ed è lontana” – ma che da quel verso si distaccano come da un “pre-testo” e tessono un testo nuovo e comune, che è scacchiera, tavolo da gioco, ordito, arazzo, gesto critico, malattia di scrittura. Il lettore si trova a non comprendere una certa ansia che come nebbia si dipana nelle pagine – ansia che è furia, inquietudine, domanda sul perché la lingua dice e imbroglia, tace e inganna, ma resta sempre lei: ossessione aperta sulla ferita priva di un senso. Da lettore vorrei citare pagine e pagine del libro, ma mi viene naturale non farlo perché queste lettere sono intime, e svelarle è un attentato alla loro natura. Nell’intimo del leggere, sì, può accadere, ma solo in quell’attimo, quando si prepara la tavola, quando ci si accinge a vedere un film in bianco e nero come Ordet, dove i colori sono spettri anonimi e la parola è l’evidente miracolo che riporta alla vita chi crede totalmente alla sua perfetta e imperfetta magia.
