LA DONNA BENDATA. Rinaldo Caddeo

Nella torre d’avorio è ancora buio ma la penna, la mano, la pagina, sono pronte a ricevere la prima luce del sole. In camera c’è l’essenziale: un tavolino con un libro, una candela, un piatto, una brocca, un bicchiere, una sedia, un letto, un candido lenzuolo, una candida coperta, (si stanno macchiando di sangue), un catino d’acqua, una finestra.

La biblioteca è costituita da quel libro. Lo sfoglio tutte le mattine, a volte per pochi minuti, a volte per ore, per controllare se non sia rimasta qualche pagina scritta. È un libro d’avorio. Sulla copertina, sul dorso, non c’è scritto niente. Le sue pagine sono decine ma sono dure e vuote. La notte so che quelle pagine diventano morbide, si piegano, si moltiplicano, girano vorticosamente, le intravedo nelle profondità del sonno, si riempiono di storie, scorrono fiumi d’inchiostro che, quando mi sveglio, s’inabissano in un soffio. All’alba, quando tutto si calma con il risveglio, non c’è scritto niente. È ritornato un libro bianco.

Appena sveglio, provo, con la forza della volontà, a trattenere quelle storie nella mente, ma le cose e i personaggi escono di me, se ne vanno bolle di sapone nell’aria. Al centro della stanza, c’è una scala a chiocciola, d’avorio come il pavimento e i muri. Con molti giri su se stessa, porta in alto. Dalla terrazza, in cima, si può dominare la pianura illimitata. Di giorno è un luogo silenzioso. La notte, invece, si anima di ululati, risa, lamenti, barriti, rulli di tamburo e ogni volta che ho provato ad alzarmi per vedere che cosa succede, una resistenza interna mi blocca e anche se la contrasto c’è sempre una pressione che mi trattiene la fronte o le spalle o le mani o le gambe e che impedisce di alzarmi e se mi volto per vedere che cosa sia, ammesso che riesca, scompare prima che riesca a riconoscerla. Una volta mi sono ribellato ma sono stato colpito così duramente che per salvare la mia incolumità non l’ho più fatto.

In un raggio di sole, entrato adesso nella stanza, rotea l’argento della polvere. Si possono distinguere gli atomi che volteggiano come cosmonauti nello spazio. Una rete di riflessi, nata alla superficie dell’acqua del catino, palpita dal soffitto. Crea e distrugge tentacoli incandescenti, meduse d’aria. L’ombra delle nubi, che corrono in cielo, si avvinghia ai muri, al tavolino, alla sedia, al letto, alla finestra e li ricopre e si ritrae legione di oscuri fantasmi nel bianco del pavimento.

Il tempo delle giornate si svolge bianco o grigio e se piove, nevica o tira vento, tira vento, nevica o piove con la stessa indifferenza con cui il sole splende nelle belle giornate. Non capita niente, né di buono né di cattivo, non arriva nessuna notizia né brutta né bella. E le differenze, davanti, sono uguali le une alle altre. Sento che spuntano dietro. Sento che dietro la nuca ce n’è una, oggi, che mi sorveglia.

È inutile voltarsi. Lei resta dietro. Uccelli migratori passano, volano alti, come le nuvole. Ieri l’altro, però, uno s’è posato su di un merlo della terrazza, esausto. Sbatteva ma era un battito lieve. Sentivo sfregare l’alto soffitto d’avorio. Erano le grigie ali giganti che strusciavano sul pavimento della terrazza. Sono salito e l’ho soccorso. Si è fatto nutrire e curare, giorno e notte. Poi, ristabilito, è volato via.

La notte porta battaglie, ingorghi, confusione che l’alba spazza via. Restano degli echi. Urla remote. Crolli che si smarriscono tra i picchi. Nuvole di polvere si dissolvono. Laggiù.

L’estate sono lampi e tuoni. È caduta una volta una grandine di cristalli a grossi chicchi, uno spessore madreperlaceo ha disteso un candido tappeto sulla pianura e si è risolto quasi subito. La bianca candela non è intatta. Avvolte in fogli di carta sul piatto non attendono le solite buie pietanze. Oggi è diverso.

Ieri pomeriggio ho raccolto da terra una grigia penna, lunga e appuntita come una freccia, persa dall’uccello e l’ho appoggiata sul tavolino tra la brocca e il piatto. Non ne avevo mai avuta una qui tra le mani.

Oggi mi sono svegliato prima dell’alba, ho sfogliato i miei alimenti e mi sono subito nutrito. Ho preso i fogli e non li ho gettati, a differenza di quanto faccio tutte le mattine, nel cestino ma con le mani li ho spiegati sul tavolino. Ho arrotolato la manica sinistra del pigiama a righe. Ho preso la penna con la mano destra e l’ho immersa nell’altro braccio. L’ho estratta insanguinata e ho incominciato a scrivere delle parole.

Sono queste, quelle che stai leggendo anche tu, o lettore, incise nel bianco dei fogli, sul lato opposto a quello in cui erano avvolte le pietanze. Sono lettere rosse intinte nel mio sangue.

Ora posso raccontarti, prima che sbiadisca, un sogno che mi ha visitato questa notte e forse anche le notti precedenti: una donna avvolta in bianche bende si avvicina. Una cima della benda si stacca dal volto della donna e nel punto in cui sto per vederlo la benda si avvolge al mio volto e mi copre gli occhi. Si avvolge al mio collo e nel momento in cui sto per stringere tra le braccia il corpo della donna, completamente nudo, si avvolge alle mie braccia, alle mie gambe. E nel punto in cui il mio corpo è completamente avvolto e stretto nella benda, la benda si stacca dal mio corpo e si avvolge al corpo della donna e la donna si allontana, ruotando su di sé, avvolgendosi nella benda. Adesso che l’ho scritto e che tu l’hai letto, il sogno non può scappare e la donna bendata deve esistere.

Una settimana fa, in un angolo della stanza, ho trovato una benda spezzata. L’ho lavata, l’ho messa ad asciugare, l’ho riarrotolata e deposta nella cassetta del pronto soccorso.

In un giorno di vento, invece, salendo sulla terrazza, ho visto un bianco lungo stendardo che sventolava da un merlo della torre. Quando mi sono avvicinato è volato via, in pochi secondi inghiottito dall’azzurro. Lei mi viene a trovare la notte, io la devo fermare, devo parlarle e capire perché appare e non si mostra, fugge e ritorna. Adesso mi devo medicare. Mi devo alzare. Devo aprire la bianca cassetta del pronto soccorso. Mi devo disinfettare e devo avvolgere nella benda il braccio ferito. Scrivo quello che posso con le ultime gocce di sangue raccolte nel bicchiere.

Ogni volta che nel passato mi sono avventurato, di giorno, fuori della torre, ho camminato per chilometri, per ore nel deserto sassoso. Nessuno me l’ha impedito ma non avendo un obiettivo, non ho raggiunto nessun punto all’orizzonte, nessuna montagna, non dico la cima, nemmeno la base, come se l’orizzonte si spostasse di un passo a ogni mio passo. Prima dell’imbrunire, sono dovuto ritornare nella torre d’avorio per non rimanere allo scoperto durante la notte. Sono sicuro che se fossi rimasto fuori, sarei stato annientato. Rimangono le cose che mi circondano tranquille così come sono avviluppate al proprio bianco ma ora so che cosa devo cercare.

È reclusa in una stanza segreta della torre o in fondo a un dirupo? La troverò. Sento il rumore lontano dell’acqua che scorre tra le rocce. Delle foglie arrivano, scivolano via portate dal vento…

George Penz, La donna bendata

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