SERVA DI SCENA. Max Ophüls

**
Uno dei registi più significativi della sua generazione è stato Max Ophüls (1902-1957). Diresse in Austria, Germania, Francia, Olanda e Stati Uniti. Tra i suoi capolavori La ronde, Liebelei, Le plaisir, La signora di tutti. I film di Ophüls sono poemi lirici e tragici sull’amore e sulla morte. L’eleganza della messinscena è il suo modo di nascondere, con apparente leggerezza, un eros complesso e misterioso. In questa intervista del 1954 il regista svela le sue idee sul dire e il non-dire attraverso l’immagine. «La macchina da presa esiste – scrive Ophüls – per mostrare sullo schermo ciò che non è possibile vedere altrove: né sulla scena né sulla vita».

Voi mi rimproverate che troppo spesso metto in scena la morte, e avete ragione. Ma è il cinema stesso a indicarmi la strada. Immaginate con me. Un uomo cammina con un amico. Conversano amabilmente. La macchina da presa li segue. D’un tratto, il grido. I due si fermano. La macchina scivola indietro, un carrello veloce. I due avanzano. La strada è vuota ma si riempie presto di gente. Corrono tutti verso un punto. L’obiettivo corre più veloce di loro. Si fissa su un capannello. Schiene curve. Volti addolorati. Primi piani. I due amici sollevano la testa. E cosa vedono? Una finestra spalancata, le persiane agitate dal vento. Nient’altro che una finestra. Voi, cosa immaginereste? Io ho solo filmato delle scene, ho fatto ruotare l’occhio della macchina attorno a un punto di tensione. Ma questo punto – è possibile negarlo? – è quello di una mancanza assoluta, di un vuoto che si crea da qualche parte, nella storia. E il vuoto non ha niente di metafisico: è l’assenza di qualcosa che c’era, è il dolore di una perdita. Se una finestra spalancata sbatte e manda un rumore sordo, se degli occhi fissano un punto in basso della strada, vuol dire che qualcuno si è ucciso. Si è gettato nel vuoto. E già rabbrividite. Eppure non ho mostrato niente, non ho detto nulla. Ma le analogie…

Vedete come la morte sia indispensabile a chi agisce nel cinema, come la sua rappresentazione sia l’occulto motore della sintassi cinematografica. Ricordate, in Liebelei, quando risuona il primo colpo di pistola. I due duellanti sono sul campo. È un giorno di neve. Si aspetta il secondo colpo di pistola, ma non risuona. Quel suono mancato ha un unico senso: significa che il primo duellante, il protagonista del film, il personaggio che amavamo, è stato ucciso. Ancora una volta io non ho detto nulla: non ho mostrato un corpo accasciato, neppure una striscia di sangue. Ma la morte è fuori campo. Interrompe il film come un destino necessario. Fa da guida alla storia stessa.

Ricordate? Simone Simon corre veloce, va su, sempre più su, verso la soffitta, verso il lucernario, gli scalini guizzano sotto i suoi piedi, corre ancora, la macchina da presa è tutta il suo corpo, la sua corsa febbrile, non si stacca mai, e noi cadiamo con Simone, ci tuffiamo con lei nel vuoto – siamo noi stessi il rumore dei vetri infranti, la strada che si avvicina fulminea, lo schianto finale. Ma – notate il paradosso -, quando decido di far vivere allo spettatore la percezione stessa del morire, concludo il film con un colpo di scena: la suicida non muore ma resta paralizzata. Viva e invecchiata, la riprendo nella sequenza finale, trascinata in carrozzella, lungo la spiaggia deserta, dal marito – il pittore che l’aveva abbandonata e che, poi, tormentato dai rimorsi, l’aveva sposata. Nessuno è morto, ma chi ha visto la scena ha sentito la morte al lavoro, è stato gettato nel cuore della messinscena, nel segreto del mio piccolo trucco. Che gioia quando vedi scorrere il film e senti che la tua vista è il modo di vedere il mondo. L’unico modo possibile. Che orgoglio! Che luce negli occhi!

Vedete come si può scherzare con la morte e la non-morte, il dire e il non-dire, il vedere e il celare. Il mio è solo un vecchio gioco, che non mi stanco mai di giocare. Sono io il mago. Sono io a guidare la Ronde, a decidere il personaggio che sparisce e quello che appare. E la morte è sempre la mia serva di scena. Quasi dubito che, nel momento conclusivo, possa essere sgradevole più di tanto…

Vostro Max Ophüls

Max Ophüls

*Il testo è tratto da: Marco Ercolani, A schermo nero, QuiEdit editore, Verona, 2010.

Lascia un commento