TRE FRAMMENTI PER AMELIA. Alfonso Guida

Amelia Rosselli

1. L’aperto del mare

C’è un tempo senza tempo, oppure un tempo remoto, arcaico, in cui si pensava cantando. Le parole nella mente saltavano come note e le circonvoluzioni cerebrali erano le linee del pentagramma. Una musica potente che del pentagramma fa curvare le linee. È la metrica innata. Credo Amelia Rosselli ne fosse dotata. Parlava cantando, scriveva componendo. Aveva capito anche, per talento, che scrivere è suonare. Per lei la pagina era la tastiera del pianoforte o le corde del violino, qualcosa dove le parole danzano. Una lingua così è lontana da ogni comune della terra, rende sovrani di un’isola, di una solitudine assoluta. Chi veramente è entrato nei testi di Amelia, oltre il dato puramente fonico ed estetico? Chi lo ha fatto in modo che quella musica lo trascinasse nella terra del significato primordiale, che è oltre? Entrare nei componimenti rosselliani è finire al largo senza rive alle spalle né orizzonti davanti agli occhi. Quando leggi Amelia devi indossare la divisa del marinaio e pensare che quelle composizioni sono il mare, sono l’aperto del mare, che crea nausea, destabilizzazione, disorientamento, il male dei marinai, la libertà per Nietzsche.

2. Un pozzo vuoto

Non a caso Amelia ha dedicato una poesia a uno degli Ordres di Couperin. Si è imbattuta come me, un tempo, nell’infrazione delle Baricades Mistérieuses. Io l’ho compresa. Io ho capito quello che voleva dire musicando. Non è puro suono. È un suono col suo peso. Come tutti I suoni. Aveva un significato segreto, teurgico. Più leggevo Amelia e più di innamoravo di Giuliano l’Apostata, la ricerca caldaica della verità attraverso una via alogica. Amelia da’ indicazioni perché la si possa capire, ma nessuno l’ha compresa, tutti rapiti, come sono, dal suo spartito. Invece lei è anche testo e il testo per Lacan è corpo, stesura del corpo che ci viene donato attraverso la parola, il peso della voce. Lei parlava di “foresta pietrificata”, di “uragano curvato”. Sono immagini della sua patologia. La foresta pietrificata è il risultato comportamentale della schizofrenia. Chi è dissociato si irrigidisce in un solo mondo ricco di simboli, una foresta, appunto, ma scolpita nella pietra, dove il movimento trasmissibile del vento non giunge. L’uragano da curvare sono le crisi che lei in una poesia chiama ”crisi giovanili di pianto”. Si curva l’uragano quando si tenta una via di cura. Ci sono stato sopra per anni. Ho sbriciolato l’elefante Garzanti con le poesie di Amelia e poi l’ho dato in dono. Purtroppo quell’appariscente allegato, Scritti metrici, l’ha penalizzata. I critici hanno tenuto conto solo delle sue geniali intuizioni di grammatica musicale. È difficile, Amelia, perché per l’uomo comune non è comprensibile “un pensiero più veloce della luce”, quello di cui Amelia era bersaglio e portatrice: la sua straordinaria unicità. Da Diario ottuso di Amelia Rosselli: «Perché non capire la vita da sola? Perché non forzare la vita a capirsi? Perché non ebbe modo di capire la vita? E infatti non capì bene la vita, se no avrebbe avuto paura della vita, invece di sfidarla, come fosse un pozzo da riempirsi. La vita è un pozzo vuoto e va rispettato il suo vuoto».

3. Un libro a episodi

Diario ottuso di Amelia Rosselli è l’autoritratto di un io tortuoso e decentrato che non disdegna, tra compiacimento e inclinazione, il gusto per il pittoresco e le severe aritmie del cuore del Sud, quello dell’entroterra incastonato tra distese boschive di cerri, querce e castagni e campi seminati ad avena e grano, coi calanchi di sale viola al centro, dove le case sono pietre di roccia d’argilla e selce frammentata e ricomposta a calce, a cemento. Il Sud di Rocco Scotellaro e del suo paese d’origine: Tricarico. Qui Amelia giunse tra la fine degli anni Quaranta e gli inizi dei Cinquanta per incontrare l’amico. Vi tornò nel 1953, anno di morte di Scotellaro, in occasione dei funerali. Un ultimo viaggio a Tricarico avvenne nel 1983, in occasione di un convegno di studi sull’amico, a cui era stata invitata. Qui lesse la bellissima “Cantilena per Rocco Scotellaro (1953)”, poi inserita in Primi scritti. Un vero requiem, un lamento funebre. Inquietante il contrasto tra le due parole: “Cantilena”/ “Requiem”. Amelia col suo canto di Gorgone luttuosa, colpita, ferita, come la Vergine ai piedi della Croce, intona un lamento funebre antichissimo, arcaico, risalente forse al culto egizio dei morti, un lamento che non esorbita dal lamento della muta che la bestia innalza al cielo al momento di disfarsi della vecchia veste, di abbandonare le vecchie spoglie per esultare nella dimensione solare del dio Ra. Nella lettura della “Cantilena” Anubi, il dio cinocefalo dei morti, si schiude, come un qualunque essere vivente, a Ra, il dio del sole e semina, realizza l’impero d’amore eterno in cui accogliere la sepoltura spoglia, povera, contadina dell’amico. Sì, Amelia canta, rivolta alle mezzane comari del Sud: ”lo dovevate fare il merletto della gentilezza”. Si rivolge con lo stesso tono popolare di sciorinatrice del giusto mancato, trascurato, quel vuoto irreparabile in cui cade il morto crocefisso che tutte le donne del paese piangono ma che forse non è caduto nelle mani profumate di unguenti della gentilezza. Quale? La gentilezza dei Gentili, dei non giudaici pagani, colpevoli di non aver spalancato le lenzuola della deposizione. Senza dubbio Rocco è Cristo. La Gorgone lo dice: ”Cristo piccolino”. Ecco Amelia, davanti al destino dell’amico entrato ingiustamente troppo presto nel mondo degli dei o nel Paradiso terrestre di un altrove ebraico-cristiano, ecco Amelia variare, scolorire, intingere il suo principio femminile in fasi alterne di femminilità. Passa dalla prefica demartiniana che urla, sciorina, veglia, prega, tesse orazioni, predica alla madre non edipica, non sadica, non eterica, ma “buona”, la madre “orale”, direbbe Gilles Deleuze nell’ambito di un discorso sui ruoli di madre e figlio nel complesso di Edipo che, irrisolto, vira alla tensione erotico-spirituale masochistica. Cose psicologiche che appaiono e scompaiono in questi versi dove il Cristo viene vezzeggiato e torna bambino tra le braccia di una madre che è sicuramente la sua “madre buona”-compagna-fidanzata, come nel caso di Giorgio Caproni con la madre-fidanzata Annina. Ma alla leggerezza figurale e linguistica o terminologica del poeta toscano non corrisponde il grido di preghiera che sale dalla gola petrosa di Amelia Rosselli, una contadina sarmatica, una poiana avvilita dalla reiterazione delle morti violente o precoci nella sua vita. E se Amelia avesse amato il padre piangendolo appena dopo la raffica di proiettili che lo freddò per sempre?

E Scotellaro vola quasi con bianca, spettrale, sfarfallante consistenza sulle terre di una terra misera e selvaggia dove, scrive la Gorgone, le donne cavalcano “a cavallo di galli e maiali”. E tutto di queste zolle smarrite dinanzi all’inconsolabile lutto, ogni cosa di queste case rotte e spartite con le bestie, ogni realtà di questa, sconfinata e ripetitiva, sacra e posseduta, respira. Nonostante tutto, respira. Così, in un notturno idillico, arcadico, quasi una pittura naif o macchiaiola, cosparsa di malinconica pietà cosmica, appare la luna, una luna animata, uno specchio perfetto per i sospiri e i cenni di danza di una fanciulla su per valli e campi e rupi, come dirà lei stessa nel Diario ottuso, dove si sentono “campane gesuite”.

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