Una lettera apocrifa di Madame de Sevigné (1689).

Jan Vermeer, Donna che scrive una lettera
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Ecco, vedi, io lo rivendico tutto, il nostro essere noi, anche così, come è stato, come sarà o non sarà più, a strappi, a singulti, tra dolori stremanti e gioie brevissime, come un temporale di marzo, lo rivendico e lo difendo, minuto dopo minuto, anno dopo anno, è una follia, naturalmente, certi tuoi amici, il Cavaliere di Clérambault o il visconte di Dorcennes non saranno d’accordo con le mie opinioni, ma io lo tengo stretto dentro di me, il nostro essere noi, anche se è poco di quello che speravamo e non si avvicina all’idea che sognavamo, esiste, è sangue nostro, è qui e ora, è questa la nostra realtà, non possiamo farne a meno, oppure potremmo, ma a prezzo di una linfa vitale ridotta a zero, di baci freddi nel marmo o nell’aria, di sangue che stagna, potremmo sopravvivere al nostro desiderio come a un macigno da cui escono immagini da paradiso, e morire in vita. Potremmo anche fingere di non ricordare e dire che niente ha avuto valore, ma che vantaggio avrebbe? Conquistare maggiore dignità? Acquistare una bella austerità? Ottenere una buona pulizia della mente e lenire il dolore? Ma, se il legno è secco e non brucia più, non serve a nessuno, in questo autunno. Se non dà più nessuna scintilla è innocuo, non fa male, non devasta e non distrugge, ma è un rifiuto privo di senso, una cosa da buttare, qualcosa dove i nostri occhi e le nostre mani non sono mai esistiti.
E invece siamo esistiti, Henri. La felicità è inalienabile, anche se dura un battito di ciglia.
Il resto della vita, può esserci come non esserci. Pazienza.
Tua M.
