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Tra le carte di Robert Bresson sono stati ritrovati dei pensieri inediti, datati 1959, non raccolti in Note sul cinematografo, che qui vedono la luce per la prima volta.
Si dicono cose così imbarazzanti e false sul cinema che mi viene voglia di parlarne solo per difenderlo dagli stupidi. Per me il cinematografo è una scrittura con suoni e immagini in movimento: nel film, non ci sono attori vivi – nessuna traccia dello sforzo muscolare e del sudore dei teatranti – ma gesti, oggetti, immagini che creano fra di loro legami diversi e imprevedibili.
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Nel cinematografo, gli attori sono modelli per l’occhio del regista, che dentro di loro rappresenta qualcosa che non conosce ancora a fondo. Sono occhi, voci, mani, schiene – mai volti che esprimano un’emozione o un pensiero. L’espressione è già una maniera. Sono semplici veicoli di una storia che avviene fra loro e le cose – la pioggia e il ladro, la strada e l’asino, il fiume e la santa. Io vedo, mentre appaiono, ciò che essi non sospettano neppure di avere. Fra loro e me si crea una telepatia, una divinazione. Da allora non si sta più dirigendo un film: noi dirigiamo noi stessi verso qualcosa.
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Un bell’insieme di immagini è sempre detestabile. I film assomigliano a certe battaglie di Paolo Uccello, dove vedi un gran muro di lance, ma non sai chi vincerà, né che gesto accadrà: così io adoro improvvisare, ma quando tutto il film è ben chiaro nella mia mente. Appena so dove arrivare, posso lasciarmi smarrire. E, più è grande la riuscita, più è abbagliante il fallimento. Manca sempre qualcosa, la storia non significa niente di preciso, i suoni sembrano isolati, i dialoghi anomali. Ma è un prezzo da pagare per andare al cuore delle cose, al doppio, triplo, quadruplo fondo della valigia. E la valigia è sempre piena e sempre vuota.
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Finché si può, nel cinematografo, non si deve usare la musica. Nude immagini. Debussy suonava la sua musica con il piano chiuso. In fondo, il cinema sonoro non ha fatto che inventare, per contrasto, le possibilità del silenzio. Ma anche le frasi e i rumori devono cadere al momento giusto, in tono distratto, trasognato, in modo che immagine e suono abbiano l’aria di star bene insieme.
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Spesso, nel cinema, si lavora con l’occhio e con l’orecchio. Io non sono d’accordo. Lavoro o con l’occhio o con l’orecchio. Perché tanta confusione? Che immagini e suoni si scambino, non si mescolino. Mai eccedere ma scavare bene nella sensazione, non tradurla in pensieri ma in immagini nate da quella sensazione. Chi comanda alla nostra pelle di arrossire o fremere di desiderio o di paura? Un regista?
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Il cinematografo non è il cinema volgare degli attori e delle trame, è un viaggio di esplorazione attorno a un pianeta sconosciuto: comincia oggi, e non sai quando si concluderà. E poi, non sai neppure di cosa stai parlando. A volte le immagini più lontane e impreviste affiorano, e sono la tua vera visione; a volte certi legami che avresti rifiutato determinano l’aria della scena, e non sai mai cosa è successo.
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In ogni arte c’è sempre un principio diabolico che agisce contro di lei e cerca di demolirla: ma questo è particolarmente vero nel cinema. Per un vero regista gli attori non esistono, nel senso comune del termine: se ne stanno fuori di sé, fuori dalla loro natura di attori, come modelli di cui seguire i movimenti e le voci, improvvisando sui loro corpi e sui loro volti, e quello che creiamo con loro è in effetti un’idea nuova e straordinaria che solo a film finito possiamo cogliere per intero.
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Le idee – lo sappiamo – bisogna nasconderle, ma non troppo sottoterra: la più importante resta sempre la più profonda, ci si arriverà dopo, ma ci si arriverà comunque. Non c’è fretta. Ogni regista ha molta pazienza. Lavora spesso con l’aria – che è il suo primo modello – e certi scorci di case, certe ore di pioggia, una voce, un sospiro, rappresentano per lui un momento di beatitudine.
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Non bisogna girare per illustrare una tesi, per mostrare a uomini e donne i loro pensieri – per questo ci sono gli scrittori e i drammaturghi – ma per arrivare a quel nodo che non si lascia afferrare né dalla poesia né dalla filosofia e che nel cinema si raggiunge così, per caso, a partire dalla superficie dei volti, delle cose, dei gesti.
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Bisogna trovare senza cercare.
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La creazione si limita a un intreccio di frammenti, a come legare certe scene. Nessuno recita, nessuno interpreta, nessuno è protagonista. La strada, forse. L’angolo di un ponte. Un respiro. Bisogna imparare ad aspettare, ad essere lenti. Niente è più straordinario della lentezza. E quando giri devi dimenticare anche la storia.
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Un colore, per me, è ancora qualcosa di inquietante. Uso pochissimo il colore. Quasi mi sembrerebbe di profanare il sogno che emana dal bianco dei volti, dal nero delle ombre. Tra poco sarò vecchio e ancora non mi rassegno che il mondo sia colorato e vorrei sognare sempre, per non uscire dalla fotografia nera e bianca dei miei sogni, per dirigere senza parola e senza macchina da presa…
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Una volta, un ragazzo che non aveva mai fatto né l’attore né il regista mi chiese perché sprecavo il mio tempo a dirigere film quando avrei potuto rimanere seduto per ore sulla stessa panchina, accanto al ponte, spostando appena la testa o il corpo. «Non è più semplice? – sorrise.
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Nella mescolanza di vero e di falso il vero fa risaltare il falso, il falso impedisce di credere al vero. Un attore che esprima la paura del naufragio, sul ponte di una vera nave colpita da una vera tempesta? Non crediamo né all’attore né alla nave né alla tempesta.
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Ritrovo me stesso nel legame con una mano, una spalla, un volto. Il cinema è perfetto nel prolungare l’incantesimo della fotografia con l’illusione del movimento. Ma nessuno si muove realmente, se non verso la fine del film.
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Un condamné à mortt s’est échappé, 1956, regia Robert Bresson

