
Une partie de campagne
È leggendaria l’umiltà del celebre Jean Renoir (1894-1979), regista di film come La grande illusion, La bete humaine, La règle du jeu e Une partie de campagne, figlio del grande pittore Charles-Auguste. Il regista detestava fare film sottomessi a una rigida sceneggiatura. Renoir non voleva mai scrivere completamente la sceneggiatura. Voleva lavorare con gli attori, il paesaggio, i gusti degli spettatori, e cambiava spesso il suo progetto in corso d’opera. In questa intervista del 1946 il regista teorizza con toni rilassati questo desiderio di libertà. «Ho una vecchia idea nella testa – scrive Renoir – ed è che non sono soltanto i registi, gli attori, i tecnici, a fare i film, che non sono soltanto gli artisti a fare l’opera d’arte. La mia idea è che l’opera è creata anche dal pubblico».
Quando incomincio uun film non so come andrà a finire. Un po’ i soldi, un po’ il caso. Il copione è sempre molto elastico. Detesto fare film che si assomigliano.
Hanno scritto che, quando lavoro, ogni tanto mi pento e cambio idea. Naturalmente. Si comincia con un progetto: ci sembra il migliore, cerchiamo di essergli fedeli, ma siamo pronti a tradirlo non appena arriva un’idea migliore.
La sceneggiatura non è mai di ferro: è solo un’ipotesi di lavoro, un foglio volante, una traccia che deve lasciare spazio all’imponderabile, all’ispirazione che arriva in quel luogo e in quel momento. Se l’emozione di venerdì è migliore dell’impressione di martedì, io seguirò quella. Mi è accaduto con Une partie de campagne. Dopo aver filmato la scena del bacio, dovevo far sentire tutto il passaggio del tempo fra quel momento di felicità assoluta e il futuro desolante della donna. Avrei potuto giocare con le psicologie dei personaggi, accrescere i dialoghi, rappresentare il meschino ritorno a Parigi. Era la prima idea. Non ne feci niente. Buttai via il copione e per oltre quattro minuti filmai il fiume, a bordo di una barca che filava veloce, con la pioggia che cadeva fitta sulle onde. E poi, dopo la pioggia, ripresi il sole, il gioco delle nuvole, il succedersi delle stagioni – tutto quanto poteva accadere nel corso di un temporale sul fiume. Fu bellissimo e naturale: il paesaggio correva fulmineo, come in certi sogni in cui ci si dimentica di esistere, e io narravo lo scorrere del tempo, senza tante psicologie…
Che cos’è questa storia della coerenza, della fedeltà a se stessi? Chiudersi in una maniera non è un buon metodo per vivere: magari, per raffinare un’ossessione, ma io sono troppo sensuale… Non mi sazio mai. Ho molte donne, sono molto curioso e non sopporto nessuna forma di incubo. Voglio vedere e provare tutto: è questo il mio ideale. Sperimentare le forme più differenti, non riconoscermi in una sola. Non sono un pianista condannato a eseguire la Berceuse di Chopin. I miei film sono sempre diversi uno dall’altro. Non hanno una sigla, non hanno un marchio, non vengono dai miei sogni: d’altronde, i sogni si assomigliano tutti, un sacco di gente cova immagini tutte le notti, prevedibili e piuttosto noiose.
Scavo la mia sensazione. La guardo dentro di me. Non la analizzo con parole, la traduco in immagini equivalenti. Non bisogna raccontare una storia per illustrare una tesi ma per scoprire la materia di cui sono fatti gli uomini, i nessi reali che li legano, quel cuore del cuore che nessuna filosofia o drammaturgia o poesia ha saputo afferrare. Io, se posso, quando faccio il regista, vorrei non mettere niente di me. Magari cogliere alcune immagini, e fra le immagini cucire una storia qualsiasi, con filo bianco – ma una storia lieve, che quasi non ci si accorge che esiste. I migliori film sono quelli in cui l’autore si addormenta e fa parlare la storia, con i suoi paesaggi e le sue voci.
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I miei progetti per il futuro? Film brevi e a colori, basati su semplici impressioni, estemporanei. Sento sempre di più l’insofferenza del soggetto. Il soggetto è angosciante da cercare; e, quando lo si trova, diventa un ostacolo, una costruzione artefatta, che mortifica l’invenzione. Vorrei fare documentari, impressionare gesti, registrare suoni. Essere libero di «girare». Il regista non è forse un giramondo? E chi guarda film dovrebbe guardare nuvole e volti, pascoli e fiumi, con trasognata pigrizia, ora abbassando, ora sollevando il capo, senza fissare l’occhio in un punto di vista. I panorami non sono mica prigioni…
*Il testo è tratto da: Marco Ercolani, A schermo nero, QuiEdit editore, 2010.
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Jean Renoir, Jean Gabin
