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Michel Mann (1943) dirige film noir importanti come Strade violente e Manhunter. È un regista cool. Ama il cinema per l’eleganza allusiva e complessa dell’immagine. Il noir veicolato dalla sua luce assume tonalità stranianti, che ricordano alcuni film francesi, come Frank Costello faccia d’angelo e Notte sulla città di Melville. In questa breve pagina inedita (2007) Mann mette in risalto il “respiro” del suo cinema.
La luce della notte
Dipende da quale grado di verità dare al film. Dipende solo da questo, se sei tu il regista che può dire l’ultima parola. Io non voglio prendere lo spettatore allo stomaco, sconcertarlo con effetti speciali e violenti. Io non voglio il suo shock. Voglio che senta quella che è la materia profonda di un trauma, come accade nei Guerrieri della notte. Tutto il film di Hill è permeato di violenza ma, nell’occhio che guarda, restano le geometrie di quelle strade notturne. Un maestro, Hill, senza la volontà di esserlo. Nulla di raccapricciante e di superfluo nel suo cinema, secco e terribile: quello che accade accade. Essere dentro alla violenza come Will Graham, in Manhunter; guardare le foto sanguinose della famiglia sterminata dal killer dentro il salone bianchissimo e lucente della casa. Non voglio mostrare, esibire, fare fracasso. Lo spettatore dov’è, se io occupo tutta la sua mente, tutti i suoi sensi? Non è più un uomo libero. Voglio che chi veda i miei film sia libero. Si persuada che tutto è notturno e allarmante, ma comunque visibile dentro la luce del giorno. La luce esiste.
Da bambino, vedendo La morte che corre sul fiume di Laughton, mi ricordo che ero terrorizzato. Ma non mi spaventavano le nocche di Mitchum, con scritte le parole bene e male. E neppure il commento fragoroso della musica mentre, ironico cavaliere assassino, percorre a cavallo la riva del fiume alla ricerca dei bambini. Ero rimasto costernato da Shelley Winters, il suo corpo giovane morto annegato nel fiume, la testa sul volante, i capelli biondi che ondeggiano mossi dall’acqua. Era un’inquadratura luminosa. Mi stupiva, da bambino, che lei fosse morta perché era molto visibile e quindi sembrava viva. Pensai a quante suggestioni racchiude un’immagine. Per un creatore di film è molto importante non essere troppo logici. Se sei logico, la bellezza ti sfugge, sparisce dalla tua opera, ti trovi con addosso le catene della ragione. Se invece segui un’idea, trovi delle cose. E le cose belle andrebbero «trovate nel prezioso stato d’animo della prima volta, scoperte, non citate» come scrive Orson Welles.
Per questo, in Collateral, la mia Los Angeles notturna è così chiara. Voglio che lo sia. E Tom Cruise, il killer, ha solo la barba un po’ lunga, niente di spaventoso. L’espressione incerta, quasi triste. La tristezza degli assassini. Quella mi interessa: quella solo voglio cogliere. Il sangue, i delitti, sono roba da cronaca, sono mattatoio. Il cinema cattura silenzi improvvisi. Laterali, non centrali. Collateral, appunto. Ricorderò sempre quel piccolo film straordinario, L’occhio indiscreto, con Joe Pesci, quando il fotografo, parlando delle sue foto, dice che lui inquadra le persone o un attimo prima o un attimo dopo la morte. Giusto. Non si può fare altrimenti. Ma in quell’intervallo di tempo c’è tutta la luce, tutti i suoi folli, felici riflessi. Questo ho capito, dopo anni di lavoro, del nitido intrico di sogni che è il cinema. Le scelte che si offrono a un regista sono incidenti, attimi di grazia, coincidenze. Chi volesse capire cosa succede veramente in un set entrerà in un arcipelago di idee irrealizzate, di successi casuali, di fallimenti imprevedibili, di incubi necessari. Perché alla fine, dopo tanto ragionare, il film è una cosa viva, che continuamente respira.
*I testi sono tratti da: Marco Ercolani, A schermo nero, QuiEdit, 2010.

