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Alfonso Guida. Diari del transito, I libri dell’Arca, Joker, Novi Ligure, 2023.
Scrivere non presume il manicomio. Se scrivo possiedo il senso del privato. Se non scrivo, possiedo il senso dell’intimo.
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Le celle frigorifere, i mattatoi, le stalle di cemento in grate di Joseph Roth. Oggi la neve ha esteso una macellazione. È rimasta una creatura mentale. Come potrei affrontare la vera neve, questi ghiacci, gli stivali mancanti, i centesimi a rintocchi rotolando? Una via, i tabacchi, l ora di compieta che recita la notte di una selva di acacie dove forse mi sarò liberato. Dopo il confine e la parola, sono lì, sono lì…
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La Russia realizzò il tormento spirituale di Georg Trakl. Il Novecento si è stagliato nel paradiso del sogno superando le fantasie ottocentesche. Le visioni e i solipsismi onirici che portano verso un’infrazione della soglia di solitudine. Oggi preso tra le mani La nascita della tragedia di Nietzsche. Esperire fatalmente Dioniso è stato il passato. Le forze omeriche, ingenue, come le chiamava Schiller, non si spengono. Prima di Apollo, di Elia del Logos c’è un addormentamento, una sosta. Si scrive qualche lettera dal traghetto. Si sta in silenzio seduti nell’ombra di un albero. La tragedia Attica è la passione e il maleficio. Quando cade il fulmine che incide il petto, un bacio d’incesto. È la deplorevole maledizione edipica. La sfrenatezza erotica nella poesia. Il Dio Caprone di Pavese. Nelle immagini è Dioniso, il satiro barbuto, il sangue vergine, il florido fallo del toro.
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Dove non sono? Dov’è il Dio se è vero che abita il luogo che manco? Il dubbio atroce di aver camminato per un luogo senza averne saputo. Coscienza morta. Coscienza dormiente. Cosa ricordo dei luoghi che ho attraversato senza saperne? Quali sono? Averne una immagine. Individuarne il paesaggio. Questo è valido se colloco il luogo di Dio nel passato. Anche oggi, domani. Occorre chiudere gli interstizi, sfilare via le luci, per capire. Non vivo tutto ciò che posso vivere. La presenza degli altri, quando scrivo, si infittisce. Ogni lettera ha il suo destinatario. La fiamma viva, com’è tragica la speranza. Deporre la mia prima pietra è la fine dell’errore.
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Quale critica puoi muovere alla croce? Qui è il silenzio che si gioca ogni battuta. Anche la verità. Non guardo al “come” ma al “che”. Ho una predisposizione verso la forma espressionistica, violenta. I lilla di Alejandra Pizarnik, le ore del sangue insonne, la rondine in gabbia mentre un bambino sull’altalena fa monologhi, l’afasia dell’automa, la lingua penzoloni. Il poeta porta il bene, non sa farlo. Non pensi che il suicidio possa essere lo sbocco dell’attraversamento di una paura? A Pavese sfuggì la foce che lui stesso toccò.
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Per Voronez, Osip [Mandel’štam] ha un epiteto ricorrente: “vorace”. Non può sottrarsi. E vorrebbe sciogliersene. Ci sono legami che non possono essere sciolti. Queste poesie si alimentano di immagini stuporose, terribili. L’incanto sorge dal cavernoso ondeggio della terribilità luciferina. Io sento orgoglio virile, spirito d’iniziazione, energia selvatica: questa è la rocciosità del vir che segna, come ne viene segnato Cristo (“l’Unto”), l’apocalisse avida della congerie poetica russa.
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Vuol dire che scrivere per me è già il tradimento di una verità. È il suo compimento e la sua morte attraverso la parola, creatura che nasce cadavere.
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Hölderlin fu il più fedele di tutti. Si riduce alla non parola perché il silenzio è il porto della parola come la fossa è il porto di un cadavere. La mia idea dello scrivere è frutto esperito.
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La parola è tentativo, filtro, ponte. Vero è solo il movimento profondo che la muove o la scuote e di cui la parola è solo angolo sbozzato, segno approssimativo. Gran parte del nostro vivere de profundis non passa per la lingua. Siamo costretti a subirne l’ineffabilità.
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Parlo di un movimento tellurico che precede, un moto primitivo come il sogno o un fenomeno sub limine. Vale il momento in cui lo si avverte fisicamente. Parla il cuore, fonte di verità, prima ancora di ogni parola d’amore. La parola sopraggiunge dopo, al momento della ricreazione del fenomeno. Perciò il poeta sente moltiplicazione, atto. Perché è chiamato due volte, dal vivere e dallo scrivere. Ma la scrittura è una riva dove il fenomeno percepito ma invisibile giunge già cadavere. Dietro, c’è molto disincanto.
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…La parola giunge a riva dopo un lungo camminamento interno. Esistono parole tormentate nel corpo dal fenomeno che le ha partorire. Arrivano scheggiate, mai integre. Le parole sono insufficienti a dipingere la vastità nodosa della sua matrice, che è l’interiore.
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[Quarta di copertina]
Cosa dire, di questi Diari del transito? Che occorre leggerli sapendo che ci si perderà nella loro lettura. Nessuna certezza, di prosa o di poesia, qui viene coltivata. La scrittura, esposta ed esplosa con ritmi precisi, inattesa e provocante, segue con disperata felicità le strategie della mente e i soprassalti del cuore. Vuole esistere non come resto di una fossile letteratura ma come paesaggio umano dove vegliano sempre parole ferite, urgenti. «Nel nostro corpo si lascia avvertire la sommossa, il sommovimento, il volo, l’incrinatura di faglie geologiche, la ferita che mostrerà il monologo, ciò che di un lungo papiro egiziano possiamo dire, fin dove si arena la parola. Servirebbero torme di parole, ma la parola giunge fin dove può e li si sdogana il destino». Guida non insegue nessuna personale salvezza ma una infuocata sincerità, sua e universale, che scortica la visione dentro la realtà delle cose. «Non so la fantasia, ma l’immaginazione ha spessore, geometria, gentilezza, gergo». Il lettore, chiamato a fluttuare fra ricordi, riflessioni, mitobiografia, incursioni del mondo, orrori della ragione, illuminazioni della psiche, espone il suo corpo vivo nelle reti della scrittura. (M.E.)
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Giuseppe Zuccarino, Linguaggio e follia, I libri dell’Arca, Joker, Novi Ligure, 2023.
Artaud mette dunque in discussione la stessa architettura logico-sintattica del discorso: «Il linguaggio razionale / grammaticale moderno / attuale / è troppo approssimativo / con la sua maniera di stringere / con chiarezza un falso / soggetto / esso obbliga a edificare soltanto / nel repertorio delle / cose chiare, ossia / già rischiarate / invece di andare a cercare / nell’oscuro»4. La volontà di contestare la normalità comunicativa viene espressa anche in una delle più celebri asserzioni artaudiane, contenuta in un testo tanto più programmatico in quanto destinato a fungere da ouverture al primo volume delle sue opere complete: «Io so che quando ho voluto scrivere ho fallito le parole e questo è tutto. / E non ho mai saputo niente di più. / Che le mie frasi suonino in francese o in papuano è proprio ciò di cui m’infischio. / […] Ma che le parole gonfiate dalla mia vita si gonfino poi da sole a vivere nel b a – ba dello scritto. È per gli analfabeti che scrivo».
Gilles Deleuze ha dato una sua interpretazione della frase finale: «Artaud ha scritto delle pagine che tutti conoscono: “Io scrivo per gli analfabeti” […]. Questo non vuol dire perché gli analfabeti lo leggano, vuol dire “al posto degli analfabeti”». Ciò è tanto più vero in quanto lo scrittore ha assunto da sé tale posizione: «Devo dunque dire che da trent’anni che scrivo non ho ancora trovato del tutto, / non esattamente il mio verbo o la mia lingua, / bensì lo strumento che non ho smesso di forgiare. // Sentendomi analfabeta illetterato, questo strumento non si appoggerà sulle lettere o sui segni dell’alfabeto, con cui ci si trova ancora troppo vicini a una convenzione figurata». Si tratta dunque, per lui, di creare un nuovo linguaggio, che si sottragga risolutamente alle regole della scrittura: «Niente grammatica. // […] Niente lettere, / niente suoni, […] / niente frasi, / niente parole, / niente alfabeto». E ancora, in un altro passo dei suoi quaderni: «Ho pensato di usare un / linguaggio che non / rispetti più né / lo stile, né la / grammatica, né / l’ortografia, né / niente del tutto. / e dirò in primo luogo / prima di tutti gli / altri che occorre / che questo linguaggio / non rispetti / neanche le / lettere, / perché come ognun / sa e come / ho già detto / l’analfabeta / è un mistero / senza alfa e / senza omega».
Una lingua, pertanto, che non è più identificabile con quella nazionale: «Se ho avuto la vita di uno scrittore francese, sono sul punto di inventare un’altra lingua». E tuttavia Artaud è incline ad ammettere che non gli è possibile tagliare totalmente i ponti con l’idioma di origine: «Quello che so / il canticchiare / scandito / laico / non liturgico / non rituale / non greco // qualcosa tra negro / cinese / indiano / e francese villon // Per arrivarci / partire dal fatto che sono / francese». Dunque, a suo avviso, conviene tener presente il proprio punto di partenza, ma anche la necessità di distanziarsi da esso: «Bisogna vincere il francese senza lasciarlo, / sono ormai 50 anni che mi tiene nella sua lingua, / ora ne ho un’altra sotto l’albero».
(Da “L’utopia della lingua nell’ultimo Artaud”)
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[Quarta di copertina]
In questo libro, l’approccio al tema «linguaggio e follia» avviene più sul piano della critica letteraria che su quello psicologico o psichiatrico, per quanto venga presa in considerazione anche la storia clinica degli scrittori studiati. In effetti, ciò che davvero li accomuna è il nesso che, nelle loro opere, si instaura tra la follia e la materialità del linguaggio. Basti pensare alle strane invenzioni narrative di Roussel (originate in realtà da segreti giochi verbali), ai microgrammi di Walser, alle glossolalie di Artaud, ai testi anagrammatici di Zürn, al passaggio dalle parole inglesi a quelle straniere in Wolfson. Un caso a parte è costituito da Queneau, considerato qui in quanto autore di un’importante antologia dei «pazzi letterari» ottocenteschi: individui palesemente affetti da turbe mentali, che sono però riusciti a pubblicare libri in cui espongono le loro bizzarre teorie. Anche se non si tratta certo di equiparare o confondere creatività artistica e follia, la lettura dei vari scrittori presi in esame ci aiuta a riflettere sul fatto che il disagio esistenziale non ha impedito ad essi di raggiungere notevoli risultati sul piano letterario. Come faceva notare Georges Bataille, evocando esempi forse ancor più illustri, «ciò che lega essenzialmente l’arte alla sragione (alla “patologia mentale”) è che entrambe ci restituiscono alla potenza dell’istante, e che la sragione, essendo il pericolo corso dall’arte, non ne è soltanto una contropartita mancata, ma anche il segno di un rigore e di una necessità decisivi. Da qui il senso intimo, opprimente, di smisurata vittoria che c’è nella follia di Hölderlin, di Van Gogh o di Nietzsche».

Testi notevoli. Grazie Marco.
Nino
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