PRIMI DODICI MORTI. Stefano Massari

(1969-1996)

Willliam Congdon, Natività

I

la prima volta

non capivo neanche il bambino che ero

ma sentivo la notte masticare la pelle

del giovane uomo sorridente e pittore

mio padre bestemmiava batteva i pugni

sulle porte di casa per fortuna

la luce nella stanza era accesa

II

poi la madre della madre

cullava qualcuno che per sempre non c’era

fissava qualcosa che per sempre spariva

stretta nella camicia che puzzava di bianco

la notte mi pisciava di fianco piangeva

e si strappava i capelli e chiamava madre

sua figlia

un po’ d’acqua e nient’altro signora

tanto da questo male nessuno ritorna signora

III

la terza morte aveva unghie rotte e di cera

e nessuno di noi sapeva chi era quel lago spalancato

e improvviso colore di ruggine e legno le guardie

indignate cercavano l’ombra per sfuggire allo scempio

e al sudore dei figli perduti nell’odore di vomito e caldo

seduti a raccontare agli amici l’incredibile storia

della loro madre che vola

William Congdon

IV

poi bastò tacere e aspettare come aspetta la terra

che non ha il pensiero di noi così il padre del padre

si staccava pezzi marci e scuri dal corpo che neanche

parlava eppure spingeva i denti in avanti per riuscire

almeno a ringhiare i medici lo tagliarono tanto

che non ne rimase nemmeno il ricordo

allora ridevo di odio per quel povero monco

con la sua mano di cuoio che slegava indifferente

al mio sguardo mostrando fiero il suo unico figlio

rimasto chiuso in quel taglio e nient’altro

V

la quinta morte era lunedì le case intorno

piegate dal male di tutti di cinque uno solo

salvato rimasto idiota con l’occhio sinistro voltato

dalla parte sbagliata il braccio appeso per sempre

a un rancore di madri stupefatte e incapaci

di capire che presto quelle bare sudate e splendenti

avrebbero preso anche noi gli interrotti

condannati a tradire addestrati a sparire

già pronti per l’ombra e per ogni prossima

misericordiosa bomba

VI

sei volte annunciata arrivò la morte dell’amico

più grande che diceva ormai di neanche pregarla

che non c’era bisogno perché la pelle era già vetro

abbastanza e l’ago andava infilato caldo e buono

anche per l’osso e piano piano piano così

non avrebbe lottato ma pianto all’infinito

e dormito con i topi nel letto che per rispetto

gli avrebbero mangiato soltanto una mano

la madreperla mano

Willliam Congdon

VII

poi si spezzò la croce la città il mio nome per sempre

sdraiato sul fianco di una strada qualunque con la mano

ancora umida del suo labbro inferiore e l’urlo del mondo

venuto a bruciare proprio nel centro dei nostri anni perfetti

perché mio soltanto mio era il compito di morire per tutti

e invece restai a scegliermi dio tra i nemici a venire e il buio

come compagno di banco

VIII

l’ottava divorava il cranio della donna più alta

piena di grazia e gentile che rideva come ridono a volte

le cose più antiche che nascondeva le macchie tra le cure

e le tessiture delle donne quando proteggono i figli

dalla santa impotenza del padre

non guardarla diceva in coro mia madre

è rimasta una povera croce

scavata senza pietà

William Congdon

IX

la nona nutrita e paziente nell’arteria femorale

perché fosse suo solo legittimo fratello magro bello

e splendente senza niente senza neanche un addio

o un perdono o pietà per il bene che gli incendiava

le mani ogni volta che la sua corda tremava

fino al pianto assoluto confessando l’assurdo

e il destino di ogni cosa creata

conservate solo i pochi maglioni amati

solo i miei aghi sporchi non piangete non pregate

tanto tutto è calmo adesso tutto è davvero calmo

adesso

X

la decima morte appesa millimetrica minuziosa

nel calcolo adeguato al peso del corpo il gancio calato

perfino lucidato come fosse stato prima purificato

così da tenere corta la catena e spessa il giusto

per fare presto e sfuggire al buon dio dei massacri

e lasciare la madre che aveva volato una volta e per sempre

e il padre imputridito vivo e la sorella svanita per prima

infetta e trasparente e obbligare alla resa il più piccolo

illeso fratello corso a sollevargli una gamba già tesa

ad artiglio già dura come un’accusa all’ennesimo

orrore del giorno a chissà quale colpa di figlio

senza ritorno

ora conosci l’odore del corpo impiccato sai che gli si gonfia l’addome

esce la lingua e resta intorno una luce impassibile e obliqua

e sai anche cosa stava guardando prima di saltare e battere il vuoto

lo sai ora dimmi come faccio a tirarlo giù e dimmi perché

maledetto cristo dimmi perché

William Congdon

XI

l’undicesima aveva un figlio nelle isole

e un corpo militare che sapeva cantare con la schiena

tesa nel salto e nel vuoto o allo specchio o verso

qualsiasi cosa sfidasse la rabbia dei padri con i bastoni

pronti sulle gambe e sapeva giurare ballare mentire

fare qualsiasi cosa incendiasse le bocche delle nostre

grandi femmine poi per primo fuggì al culmine

della nostra alleanza quell’obbedienza che per fatica

e destino tutti avremmo perso giorno per giorno

infine lo prese un muro e io in fila tra i ritornati

strinsi un’ultima volta la vecchia corda che gli spezzava

il polso all’infinito e il suo bene bambino e astuto

non lo riconobbi mai più

non so come è successo forse si è distratto pioveva

forse ha sbagliato forse non l’ha visto il muro è andato giù

aspettava un figlio forse l’aveva voluto

XII

la dodicesima sorvegliava la schiena del mondo

preparava l’aborto con la stessa sostanza del padre

il polso destro addestrato al rifiuto la mano sinistra

sottile e sfinita conficcata in fondo ai miei denti

nuda come il grano che raccoglieva ogni sera furia

dolore e promessa di due giovani corpi che non sapevamo

accudire che non capivamo neanche il confine

tra fede e ferita perdono e addio gioia e sentenza

poi l’inizio del gelo la resa al buio come sua madre

la paura di obbedire nel petto a ogni minimo vuoto

di male e incesto la volontà di scendere in unico buco

di sono perfetto finalmente la fine all’inizio di tutto

*I testi sono tratti dal volume inedito, Macchine del diluvio.

Stefano Massari

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