(1969-1996)

I
la prima volta
non capivo neanche il bambino che ero
ma sentivo la notte masticare la pelle
del giovane uomo sorridente e pittore
mio padre bestemmiava batteva i pugni
sulle porte di casa per fortuna
la luce nella stanza era accesa
II
poi la madre della madre
cullava qualcuno che per sempre non c’era
fissava qualcosa che per sempre spariva
stretta nella camicia che puzzava di bianco
la notte mi pisciava di fianco piangeva
e si strappava i capelli e chiamava madre
sua figlia
un po’ d’acqua e nient’altro signora
tanto da questo male nessuno ritorna signora
III
la terza morte aveva unghie rotte e di cera
e nessuno di noi sapeva chi era quel lago spalancato
e improvviso colore di ruggine e legno le guardie
indignate cercavano l’ombra per sfuggire allo scempio
e al sudore dei figli perduti nell’odore di vomito e caldo
seduti a raccontare agli amici l’incredibile storia
della loro madre che vola

IV
poi bastò tacere e aspettare come aspetta la terra
che non ha il pensiero di noi così il padre del padre
si staccava pezzi marci e scuri dal corpo che neanche
parlava eppure spingeva i denti in avanti per riuscire
almeno a ringhiare i medici lo tagliarono tanto
che non ne rimase nemmeno il ricordo
allora ridevo di odio per quel povero monco
con la sua mano di cuoio che slegava indifferente
al mio sguardo mostrando fiero il suo unico figlio
rimasto chiuso in quel taglio e nient’altro
V
la quinta morte era lunedì le case intorno
piegate dal male di tutti di cinque uno solo
salvato rimasto idiota con l’occhio sinistro voltato
dalla parte sbagliata il braccio appeso per sempre
a un rancore di madri stupefatte e incapaci
di capire che presto quelle bare sudate e splendenti
avrebbero preso anche noi gli interrotti
condannati a tradire addestrati a sparire
già pronti per l’ombra e per ogni prossima
misericordiosa bomba
VI
sei volte annunciata arrivò la morte dell’amico
più grande che diceva ormai di neanche pregarla
che non c’era bisogno perché la pelle era già vetro
abbastanza e l’ago andava infilato caldo e buono
anche per l’osso e piano piano piano così
non avrebbe lottato ma pianto all’infinito
e dormito con i topi nel letto che per rispetto
gli avrebbero mangiato soltanto una mano
la madreperla mano

VII
poi si spezzò la croce la città il mio nome per sempre
sdraiato sul fianco di una strada qualunque con la mano
ancora umida del suo labbro inferiore e l’urlo del mondo
venuto a bruciare proprio nel centro dei nostri anni perfetti
perché mio soltanto mio era il compito di morire per tutti
e invece restai a scegliermi dio tra i nemici a venire e il buio
come compagno di banco
VIII
l’ottava divorava il cranio della donna più alta
piena di grazia e gentile che rideva come ridono a volte
le cose più antiche che nascondeva le macchie tra le cure
e le tessiture delle donne quando proteggono i figli
dalla santa impotenza del padre
non guardarla diceva in coro mia madre
è rimasta una povera croce
scavata senza pietà

IX
la nona nutrita e paziente nell’arteria femorale
perché fosse suo solo legittimo fratello magro bello
e splendente senza niente senza neanche un addio
o un perdono o pietà per il bene che gli incendiava
le mani ogni volta che la sua corda tremava
fino al pianto assoluto confessando l’assurdo
e il destino di ogni cosa creata
conservate solo i pochi maglioni amati
solo i miei aghi sporchi non piangete non pregate
tanto tutto è calmo adesso tutto è davvero calmo
adesso
X
la decima morte appesa millimetrica minuziosa
nel calcolo adeguato al peso del corpo il gancio calato
perfino lucidato come fosse stato prima purificato
così da tenere corta la catena e spessa il giusto
per fare presto e sfuggire al buon dio dei massacri
e lasciare la madre che aveva volato una volta e per sempre
e il padre imputridito vivo e la sorella svanita per prima
infetta e trasparente e obbligare alla resa il più piccolo
illeso fratello corso a sollevargli una gamba già tesa
ad artiglio già dura come un’accusa all’ennesimo
orrore del giorno a chissà quale colpa di figlio
senza ritorno
ora conosci l’odore del corpo impiccato sai che gli si gonfia l’addome
esce la lingua e resta intorno una luce impassibile e obliqua
e sai anche cosa stava guardando prima di saltare e battere il vuoto
lo sai ora dimmi come faccio a tirarlo giù e dimmi perché
maledetto cristo dimmi perché

XI
l’undicesima aveva un figlio nelle isole
e un corpo militare che sapeva cantare con la schiena
tesa nel salto e nel vuoto o allo specchio o verso
qualsiasi cosa sfidasse la rabbia dei padri con i bastoni
pronti sulle gambe e sapeva giurare ballare mentire
fare qualsiasi cosa incendiasse le bocche delle nostre
grandi femmine poi per primo fuggì al culmine
della nostra alleanza quell’obbedienza che per fatica
e destino tutti avremmo perso giorno per giorno
infine lo prese un muro e io in fila tra i ritornati
strinsi un’ultima volta la vecchia corda che gli spezzava
il polso all’infinito e il suo bene bambino e astuto
non lo riconobbi mai più
non so come è successo forse si è distratto pioveva
forse ha sbagliato forse non l’ha visto il muro è andato giù
aspettava un figlio forse l’aveva voluto
XII
la dodicesima sorvegliava la schiena del mondo
preparava l’aborto con la stessa sostanza del padre
il polso destro addestrato al rifiuto la mano sinistra
sottile e sfinita conficcata in fondo ai miei denti
nuda come il grano che raccoglieva ogni sera furia
dolore e promessa di due giovani corpi che non sapevamo
accudire che non capivamo neanche il confine
tra fede e ferita perdono e addio gioia e sentenza
poi l’inizio del gelo la resa al buio come sua madre
la paura di obbedire nel petto a ogni minimo vuoto
di male e incesto la volontà di scendere in unico buco
di sono perfetto finalmente la fine all’inizio di tutto
*I testi sono tratti dal volume inedito, Macchine del diluvio.

