Modernità di Emily Brontë ed Emily Dickinson
(Gruppo editoriale Viator, 2021)
nota di lettura di Caterina Galizia
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Quando somme di sottrazioni producono indipendenze
«Tu sai che detesto essere comune» scrive Emily Elisabeth (Dickinson) alla compagna di scuola Abiah Root citata da Morretta nel suo libro: «ed Emily Jane (Brontë) mette nero su bianco e vuole essere come Dio l’ha creata, seguendo soltanto la sua speciale costituzione».
Così si presentano le due scrittrici divise dall’oceano. Ma così si presenta anche Mattia Morretta con un libro la cui indiscutibile originalità poggia sul continuo rimbalzare di rispecchiamenti e triangolazioni di cui l’autore si rende coprotagonista. Il suo linguaggio, infatti, si libra in catene di associazioni libere autogenerantesi grazie alle quali fioriscono innumerevoli citazioni di testi letterari e filosofici. Il risultato è uno scambio prodigiosamente “vivo” (e in qualche momento “alla pari” anche dal punto di vista poetico) tra il mondo interiore di Morretta e quello delle due scrittrici. Noi, cresciuti all’ombra di Winnicott, siamo affascinati da movimenti onirici come questo, alla ricerca di un ponte, di uno “spazio potenziale” che ci offra il brivido del “perturbante”, senza farci correre i rischi attribuitigli da Freud.
Morretta, quindi, malgrado colga le differenze, è interessato soprattutto agli elementi comuni delle due esistenze. Essi infatti sono numerosi e tutti all’insegna della sottrazione a cominciare dall’immane vuoto che segna l’imprinting iniziale.
Nei due nuclei al di qua e al di là dell’0ceano il padre Dickinson «ritiene appropriato per le donne solo il proprio domicilio» (non a caso la figlia metterà in atto una scelta di radicale clausura per gran parte della vita). Egli inoltre «non gradisce vedere esibizioni pubbliche di cantanti e attrici non essendo il talento una scusante sufficiente» (ed Emily si opporrà alla pubblicazione dei propri testi scegliendo di rimanere invisibile anche al mondo letterario.)
Il padre Brontë è un religioso, «genitore autarchico di carattere duro e violento che trascura i bambini tanto da non consumare con loro neppure i pasti» e che «mette a disposizione dei figli libri e giornali soltanto per avere qualcuno con cui discutere di politica».
In entrambi i casi la figura materna è praticamente assente: Emily Brontë perde la madre a tre anni. Ha tre anni anche Emily Dickinson quando la sua inizia a soffrire di depressione. Scriverà: «non ho mai avuto una madre. Suppongo che una madre sia colei verso cui si corre quando si ha una pena». Ritroverà l’attaccamento solo quando, travolta dalla morte del marito, la madre subirà un “ictus paralitico” e il movimento sarà invertito: tutto il carico graverà allora su Emily: «”Ho appena finito di dire-buongiorno mamma- (scrive a Elisabeth Holland) che mi odo dire -mamma, buonanotte- »”. Dopo la sua morte la scrittrice avrà momenti di totale prostrazione… Soffrirà di un freddo a volte elettrico, a volte paralizzante, UNA LANDA IN CUI L’AMORE NON E’ MAI PASSATO».
Per entrambe le scrittrici, quindi, infanzia e adolescenza trascorrono durissime: sul piano educativo solo soprusi; sul piano della qualità di vita solo rinunce. Capiscono molto presto che le vesti femminili con cui si presentano al mondo sono responsabili di una massa di disagi. Ne consegue una visione degli uomini di tipo reattivo: «Dickinson li definisce “baffi e stivali” e si attribuisce “un cuore duro, di pietra”, mentre in Cime tempestose nel petto alberga “acciaio temperato”».
Come acquartierarsi quindi rispetto a quelli che allora erano gli unici due sessi accreditati? Morretta parla di “indipendenza delle due nel ruolo di genere”. Troppi gli intoppi che hanno fatto barriera nel percorso verso l’individuazione. Il cammino si è bloccato senza giungere alla genitalità, fase in cui la scelta è d’obbligo. Mattia dice: «Quando la natura sessuale rimane elastica com’è in origine e di base, l’Io si nutre di tutto il potenziale erotico e spazia dai tratti psicologici più femminili a quelli più maschili».
Nella quotidianità quelli che riescono a sfuggire alla sottrazione sono due mondi di donne: «storie di donne e tra donne», dice Morretta, «in vita e in morte…Se negli scritti (delle due Emily) i maschi sono proiezioni, comparse o spalle delle vere protagoniste, nella dimensione privata la cifra ricamata in oro sulla loro biancheria è l’amicizia, specie per Dickinson, che tenta di costruire intensi legami alternativi tra “le strane” e “da rara a rara”. Quelle anomale api regine nell’alveare di campagna, rispetto ai circoli vanagloriosi degli intellettuali e artisti maschi sulla scena sociale, sono una piccola comunità votata alla produzione di miele per balsami affettivi e di ricami per il corredo esistenziale».
L’indipendenza si allarga dal ruolo di genere fino a colpire non solo la simbologia degli attributi sessuali ma anche l’ancoraggio che questi ultimi hanno nel corpo e diventa soprattutto indipendenza (ma non sarebbe meglio chiamarla rinuncia?) dalla mèta cui essi tendono abitualmente. «Tutte e due le Emily nella sfera affettiva non mirano ad essere ripagate…La gratificazione immediata è sublimata procedendo per via aerea e trovando ampia soddisfazione nel pensiero e nel linguaggio. Per Dickinson l’adesione è divisione. A Elisabeth Hollan dice: «-non considerare lontano quanto può essere raggiunto/ anche se in mezzo si pone il tramonto/ Non considerare vicino quanto ti sta accanto/ è più lontano del sole-». La sottrazione è all’apice. Tuttavia, paradossalmente, la penalizzazione del corpo enfatizza l’amore.
«Il possesso infatti… renderebbe troppo realistico l’altro che è tale proprio in quanto oggetto dell’Idealizzazione». Morretta cita Goethe: «Le grandi passioni sono malattie disperate; ciò che potrebbe sanarle è proprio ciò che le rende pericolose». Emily Dickinson ha ben presente che Otis Lord nel loro primo incontro le aveva detto: «Le gioie cui aspiriamo sono proprio quelle che profaniamo quando ce le concediamo». Memore di questo, successivamente gli scrive: «Non lo sai che sei più felice quando mi nego e non concedo – non lo sai che la parola No è la più selvaggia che affidiamo al linguaggio? Il Cancello appartiene a Dio-Mio Dolce-per amor tuo-non per me- non te lo lascerò attraversare».
Morretta, riprendendo i grandi temi dei traumi della nascita e dello svezzamento, segnala il transfert che si attua sull’amato concludendo che: «conviene somministrarsi la presenza fisica di chi si ama con misura e preveggenza, essendo la sostanza talmente concentrata da produrre risultato con il minimo dosaggio, effetti collaterali compresi. Cura il dolore procurandone un altro, un rimedio che a volte sospende e a volte aggrava il male». La presenza fisica: il corpo. Per le due Emily il limite estremo della sottrazione è raggiunto quindi grazie all’indipendenza dal corpo: Dickinson ad Abah Root: «non mi importa del corpo. Amo l’anima timida che arrossisce, che si ritrae, si nasconde perché ha paura mentre il corpo è sfacciato e invadente». Qui si spalanca l’enorme quesito sull’interazione tra disinvestimento svalutante del corpo e patologie organiche (le più gravi: l’epilessia di Dickinson e la tisi di Brontë). Per Morretta non ha senso indagare su quali siano le cause e quali gli effetti. A lui appaiono come i due lati di una stessa medaglia, una medaglia del tutto particolare in quanto presenta una terza faccia risolutiva e vincente. Dice magistralmente Morretta: «adattate a una condizione impossibile, sono disposte a decadere nel soma per crescere nell’anima, discendendo nella malattia fisica e salendo nella salute dell’intelletto. Ma decadere nel soma significa anche essere interamente psichiche e non sensuali…infatti le due E. dicono di non essere del tutto femmine nell’accezione comune per non dover agire secondo il dettato sociale e biologico…Dickinson è più possibilista di Brontë nel coinvolgimento con esponenti maturi o anziani dell’altro sesso…però con Brontë condivide il rifiuto dell’incastro genitale e della gravidanza».
Qui Morretta ci prende per mano e ci fa riflettere su un tema che può riguardare ogni produzione creativa sia essa di matrice femminile sia maschile. L’“opera” come spostamento o, nel migliore dei casi, come sublimazione della maternità o della paternità. «Il disinvestimento della procreazione aumenta… la tensione alla produttività indiretta e collaterale… una prolificità alternativa, impiegando e spendendo gameti metafisici che aumentano le chances di sopravvivenza del genio al posto dei geni: -La poesia è -una fioritura del cervello, un piccolo seme (scritto in corsivo seed significa pure sperma) piantato da un preciso disegno o dalla causalità, fruttificato dallo spirito… Se va perduto quel giorno è come il funerale di Dio.-».
Ma i frutti dello spirito, così come i figli, sono il nostro futuro dopo la morte. Ecco quindi che questa è una scelta lungimirante. Morretta la descrive quasi priva di rischi. Il dubbio non sembra abitare né l’una né l’altra Emily. Esse ci inviano uno straordinario messaggio di immortalità possibile. L’interruzione destinata ad ogni cosa vivente è superabile. Le creature che ci hanno lasciato vivono in noi grazie al grande mediatore -il linguaggio- di cui le due autrici si fanno portavoce. Come dice Ercolani in uno dei suoi ultimi lavori (Non tornare è la grazia) il loro regno vivrà soltanto quando non ci sarà più continuità di sopravvissuti e di conseguenti attese (e richieste) ad affliggerle. Allora un mondo bambino accoglierà la magica e miracolosa novità di una voce che lo raggiunge dal passato.
Morretta parla di questo come di «un lascito consapevole di qualcosa di unico e nutriente mosso da un altruismo, pur in maniera astrusa e indecifrabile, con la riservatezza del donatore filantropo. Lasciare dietro di sé qualcosa che vale… è FARE L’AMORE CON L’UMANITA’… La pulsione sessuale sublimata, infatti, contiene l’antidoto all’annientamento andando oltre l’istinto di autoconservazione. I suoi semi verbali, affidati al vento, proseguono il volo tendenzialmente all’infinito. Così, all’unisono, le due Emily possono fare propria la predizione di Ovidio a conclusione delle Metamorfosi: VIVAM (VIVRO’)».

