ANTITERRA. Flavio Ermini

Ante Rem

Dico: un fiore! e, tratto dall’oblio dove la mia voce ne confina una certa forma, come qualcosa di alieno ai calici consueti, musicalmente s’innalza, idea incarnata e soave, l’assente da tutti i mazzi.

Mallarmé

Quando nel discorso una lacerazione si apre, comunemente viene presto colmata con un’ideologia o rimossa da un delirio. Ma per un istante il poeta qualcosa ha pur scorto in quel varco schiuso sul disegno esauriente. Qualcosa ha pur colto tra la genesi e il compimento della forma. Da quel tumulto una rivelazione gli è stata largita.

Quando su quello squarcio luce e buio convergono in doppia luce, la materia oscura e primordiale che si forma è la parola. Una parola destinata a recuperare, nella costituzione di un senso che eccede la nominazione, la sua inaugurale possibilità di essere e dire. In essa gli opposti più non si escludono ma si richiamano. È la nostra ombra, con la quale siamo chiamati a coincidere. Ha il volto stesso dell’abisso ed è l’accesso al silenzio che tanto raramente viene consentito. Un silenzio destinato all’ascolto e alle voci, proprio come il deserto è destinato al movimento.

Già scena di un tragico destino, l’oscurità non cela più al suo interno il Minotauro, né, verso il cielo, l’uscita.

Dove si trovava soltanto il discorso insensato della pazzia o l’impensabilità della nozione teologica, è ancora possibile seguire l’inaugurale multiversum della parola promessa alla sapienza, ai valori delle cose a cui la poesia dà origine; in un conoscere ostinato e impietoso.

Condannato a non poter cantare altro che il furore dell’inconosciuto, il poeta oscilla tra i frammenti incessantemente dispiegati dal caos generativo, costruendo un transito possibile tra loro; ma senza cancellarne le differenze e cogliendone l’emergenza negli spessori profondi.

Dovrebbe essere ormai perspicuo: al poeta interessano quelle voci del limite che nella complementarità o nell’esclusione documentano le caratteristiche di terreni accidentati, irriducibili a ogni abitudine cognitiva ed esistenziale. Proprio in questi punti d’intersezione e mescolanza, in queste zone di confine, prima del bordo opaco delle cose, si concepiscono le forme.

Va promossa la scoperta di questo regno intermedio, con il quale il poeta intreccia il proprio sguardo e la propria voce; in un gesto che prevede un moto di sradicamento prima di quello di un avvento. È la sporgenza dell’essere sul pensiero che intende contenerlo.

La parola poetica è la mano che si appoggia su un oggetto e che non appartiene più totalmente al corpo da cui proviene. Si mostra nell’atto dell’allontanamento per manifestare un nuovo senso.

L’Aperto

Dans la stupeur de l’air où s’ouvrent mes allèes …

Char

O quale e quanto in quella viva stella

pur vinse, quale e quanto si sospinse

oltre le soglie della sua stessa luce;

al di là del silenzio quale e quanto t’induce.

Zanzotto

Conviene decidersi una volta per tutte a vedere quello che si sta guardando. L’Aperto, connesso alla pronuncia della parola originaria, ante rem, come intenderlo nel pensiero e nelle poetiche della contemporaneità?

I poeti dicono ciò che eccede la pura designazione delle cose, chiamando in causa differenza e relazione, No e . Annunciano il rivelarsi del senso là dove la protezione manca e nulla è trattenuto nella qualità e nel calcolo.

Un andare verso che Dante riprende, spingendo il suo Ulisse incontro all’abissale violenza del caos, dietro al sole, in un transito consentito da una parola non più collegata a un senso preesistente.

Non c’è fine al visibile e non è detto che quanto resta da vedere si celi necessariamente nell’invisibile.

Oggi il processo estetico non tende a un mitico altrove, posto al di là delle sue incisioni – le colonne d’Ercole – e le sue iscrizioni: hic sunt leones. Al contrario, avviene proprio praticando il limite quale non luogo dove si muovono le figure della precarietà, prima che vengano nascoste nella lontananza o perdute nella fissazione micrologica dell’adiacenza.

Attraversare la contemporaneità significa oltrepassare i limiti che ne costituiscono la frontiera interna. E accettare che qui, in prossimità del lontano, il riconosciuto possa incontrare la sua forma; chiamando in causa figure di un pensiero che riconosce al suo interno una duplicità costitutiva.

L’aperto si annuncia grazie a un tra, nella forma del congedo da un senso. Grazie a una siepe è visto, può essere pensato. E dischiude alla parola il precipizio della Wildniss, la massima vertigine dell’indifferenziato; spalancando sul significante quel passato ancestrale dell’antesenso, che dischiude la via da un ordine all’altro. Dove l’altro è il tutt’altro, irrelato e non sublimato; l’uno e l’altro insieme, in un evento che accade e ancora non ha nome.

Con l’apertura a un ospite inatteso, un nuovo senso viene fondato. Chiama in causa cielo e terra, con la mobilità dei loro orizzonti. Libero dall’origine e dalla fine, mette a tacere il detto e i suoi impianti categoriali. E ci pone direttamente a confronto con l’affermarsi di forme essenzialmente instabili e di aree sottratte alla chiarezza rassicurante della coscienza.

Cogliere la persistenza dell’Aperto nel pensiero contemporaneo, in quanto pensiero della sua crisi, significa accogliere le interrogazioni che la parola poetica non cessa di promuovere, impedendo al senso di cristallizzarsi.

La parola che chiama e aduna non è mai ciò che si pensa, ma ciò in cui e da cui si pensa. In questo permanere che è anche un andare verso, essa diviene ciò che è.

L’Altro

La poesia tende a un Altro, ha bisogno di questo Altro, ha bisogno di qualcuno a fronte. Lo cerca, riconosce di appartenergli.

Ogni cosa, ogni essere è per la poesia, che verso l’Altro si volge, una forma di questo Altro.

Celan

La poesia porta a parola il taciuto, superando la cesura tra No e , ripristinando l’inaugurale coappartenenza tra voce e silenzio.

Sapendo di nascere sulla separazione, la poesia si pone sul luogo della nascita delle parole, sulla frontiera del prius, del prima di ciò che non ha prima, nominando il fiore che non esiste in alcun bouquet.

Ma permanere in colloquio a tu per tu con l’originario non è privo di conseguenze. Significa concepire il pensiero come passo che segna l’essere-in-cammino, il verso. Significa fare i conti con l’Altro, il sin qui taciuto, ovvero con l’antiparola, la lingua muta delle cose, le cui forme celate apostrofano qualcuno: colui che è in grado di strutturare un dire ricadente su se stesso, non rivolto a nessuno, interiore.

Un elemento alieno e perturbante si affaccia dall’altra parte della lingua a minacciare l’integrità del poema, si introduce sul suo cammino, gli impone di continuare a essere interrogazione, a parlare dell’Altro senza ridurlo al medesimo, in un dire «altrimenti».

Celan ci parla di un soggetto poetico che agisce «sotto l’angolo d’incidenza della propria esistenza» e pone interrogativi all’ora presente: alla propria e a quella del mondo. Un interrogare che riguarda una singolarità originaria, antecedente alla distinzione tra universale e individuale. E consente che abbia voce ciò che all’Altro è più proprio: il suo tempo. Risultato di un intreccio di forze, pensieri, idee, problemi, progetti diversi e spesso tra loro in conflitto. E di cui oggi lo spazio metropolitano, nella definizione di passaggi e limiti tra parola e antiparola, è un emblema.

Perché e come l’Altro? Perché e come accade che ci si interroghi su di esso? L’Altro: è uno dei problemi tra i tanti o ha un posto preminente?

C’è un lavoro tutto da fare, solo parzialmente e settorialmente affrontato nel Novecento: va tentata una fissione capace di portare alle estreme conseguenze la poetica di Mallarmé, un passo oltre l’arte, un passo oltre la storia. Compiendo un ulteriore atto di libertà dopo le peripezie delle avanguardie.

Tante opere lo hanno indicato: vanno adunati su entrambi i lati del metaxy´ il silenzio da cui la voce era stata separata e la voce a cui era stato sottratto il silenzio. Questa esperienza è designata dallo spazio dell’interrogazione, dove a interrogare non è il poeta, ma l’Altro che lo ha sorpreso nel dialogo dell’interrogazione in atto su di sé e con sé.

È così che accade: il poeta è chiamato a incidere il respiro nella parola scritta, a seguire il respiro in cui la sua parola nasce e nascendo non è più sua, come egli non è più io, ma l’Altro. L’Altro: quell’io nascosto nell’io che la coscienza nasconde, perché gli nega l’ombra necessaria a dire il vero. L’Altro: quell’eccesso infinito del verbo che rompe i legami della ragione e minaccia il suo esercizio di potere.

Il poeta non può che avanzare nella parola perduta-ritrovata dal giro di respiro che la spezza.

La questione, dunque, non si pone più esclusivamente tra silenzio e voce, ma tra il No e il suo Altro, tra il e il suo Altro. È questa la pratica di scrittura a cui il poeta pensa quando dice che va aperto il testo all’ombra che lo attraversa.

Il perturbante

Quando la finestra viene aperta

e penetra l’orrore della terra –

Il bambino con due teste

mentre una dorme, l’altra grida –

grida contro il mondo.

Günter Eich

… da dietro il vetro è in rapporto immediato con il nostro corpo, noi viviamo e subiamo il suo significato, nello stesso tempo s’impone, annulla la distanza ed entra in noi.

Jean-Paul Sartre

Aprirsi all’antipensiero significa portarsi in prossimità di quel negativo ante rem che rifiuta di articolarsi nella sintassi della ragione. Significa esporsi all’ombra che ci abita e lasciare che essa, quale parola senza soggetto parlante, ci scopra.

La questione è: come accedere all’antipensiero? A tale proposito, va messa in questione la pensabilità di un’esperienza estetica fondata su una più ampia autonomia del sensibile rispetto all’intelligibile. E realizzata in una lingua sconosciuta, non ancora sottomessa al controllo della coscienza: la lingua dei poeti.

Va forse ripetuto il gesto che Baumgarten aveva compiuto nel Settecento: disseppellire il significato dell’estetica come Aisthesis, scienza del sensibile: «Aesthetica est scientia cognitionis sensitivae».

Una maniera di conoscere non concettuale e che consenta ai sensi di fare a modo loro implica almeno due presupposti. Convenire che il mondo non è una docile provincia delle nostre idee. Accettare che l’esistenza non sia qualcosa di spiegabile esclusivamente nei limiti del tempo e dello spazio.

Scrive Sartre: «Non bisogna vedere nell’emozione un disordine passeggero dello spirito, che verrebbe a turbare dal di fuori la vita psichica … L’emozione è un modo di esistenza della coscienza, una delle maniere in cui essa comprende (nel senso heideggeriano di verstehen) il suo essere-nel-mondo».

Ecco perché va forse prestata maggiore attenzione a quanto ci dicono i poeti, alle tonalità emotive che mettono in campo per la comprensione della nostra esistenza autentica, cioè quell’esistenza che non si abbandona al mondo e alle sue vicende, ma cerca di aprirsi all’esperienza originaria di sé, al proprio fondo illeggibile.

Non è un compito facile. Impone di convenire con Leopardi che il male è già nell’ordine, in quanto «l’essere è in contraddizione con sé medesimo». E implica il riconoscere la mancanza di fondamenti delle nostre credenze, quando queste ci impediscono di cogliere la lingua muta che si spalanca in noi.

Pensare il sentire. Aderire al pensiero nel suo stato nascente. Ecco il compito a cui sono chiamati i poeti. Ecco l’itinerario che nelle loro opere compie la parola poetica: dall’ombra al vaglio della coscienza. Ogni attenta lettura consentirà di avvertire nelle pieghe dei versi quelle cesure che interrompono proprio l’accesso alla coscienza, cancellano lo spazio e sbriciolano il tempo. Rendendo possibile la coesistenza di ascesa e declino, crescita e sparizione, ombra e luce: «È esodo anche il ritorno: è la luce del giorno anche il nascondimento della notte», registra Bigongiari.

In questo viaggio che conduce lontano dall’esperienza comunemente intesa, la scrittura abbraccia alternativamente il proprio senso e la tenebra che la circonda; quella stessa tenebra che corrode i bordi dell’opera, fino ad alterarne la presunta compattezza. Produce tagli, innesti nel suo corpo giungendo a renderla irriconoscibile e aprirla al silenzio che, sotterraneamente, racchiude in sé. Registra Eich: «Il bambino con due teste / – mentre una dorme, l’altra grida».

È la luce del giorno che rivela nel nascondimento della notte ciò che temiamo di più: il nostro cuore di tenebra, quel perturbante che, attraverso itinerari paradossali e contradditori, ci restituisce alle nostre antinomie: a noi stessi.

In quel sondaggio dell’inesplorato, in quella noncuranza dei significati e della vita, in quell’entrare nel proibito c’è la disposizione ad accogliere come autentico ciò che è instabile e la volontà di porre nuovi interrogativi all’ora presente.

La lingua deve frantumarsi per esprimere nel buio delle cesure ciò che si sottrae all’espressione. Ma l’oscurità è sempre stata scambiata per caduta irreparabile. L’uscita stessa dall’Olimpo imponeva lo smarrimento nella selva. Eppure già in Ippocrate troviamo in proposito un nuovo modo di vedere. Soprattutto là dove osserva che allontanarsi dal divino equivale allontanarsi dall’ignoranza ed esporsi alla conoscenza.

Va detto con chiarezza che solo lì, in quel cuore di tenebra, è possibile incontrare l’ingens sylva dello stato demonico dell’esistenza umana. Non tensione verso l’alto, ma discesa: dentro la pietra scavata, nel corpo a corpo con la polvere.

Nell’impensato il poeta cerca di cogliere quella furiosa molteplicità di nuclei su cui l’occhio comunemente scivola abbagliato e non sa dove posarsi. Si attua qui la possibilità per l’uomo di liberare la sua zona d’ombra in cui interrogarsi come enigma.

Per giungere nel luogo in cui tutte le direzioni sono possibili è necessario scendere nelle profondità oscure dove la parola è ancora mancante di senso e ogni cosa ha in sé il proprio opposto.

Conrad ne è consapevole quando – lasciando la parola all’ombra – registra il grido di orrore di quell’essere che non è se non nel perturbante in cui si manifesta.

Segni del perturbante

Mi addosso alla sua ombra

raccolgo il suo silenzio tra le mani.

Jaccottet

Ogni processo approfondito di conoscenza non porta che alla scansione di strati sempre più profondi e abissali d’incomprensibilità.

Nei suoi sforzi cognitivi, l’uomo segue un itinerario paradossale e contraddittorio nel corso del quale l’attività della mente si manifesta nel sentire e nel pensare contro, giungendo a volgere ogni emozione e concetto nel loro contrario, fino alla sperimentazione dell’indifferenziato. I segni del perturbante ne sono una testimonianza.

Nel suo rimettersi all’oscurità come a una forma più profonda del sapere, il pensiero entra in un processo di lacerazione e dissoluzione che lo porta a identificarsi con la natura; o meglio: con l’ombra stessa della morte che la natura distende sulla vita.

«Questa montagna ha il suo doppio nel mio cuore» scrive Jaccottet. «Mi addosso alla sua ombra / raccolgo il suo silenzio tra le mani.»

Questa è la nostra esistenza. Noi viviamo una vita in cui il silenzio e l’ombra divengono la scienza stessa di un pensiero che si pone in fondamentale rapporto con ciò che si rifiuta a ogni inchiesta e si sottrae a ogni risposta.

Non lo ignora Bernhard quando annota: «Noi domandiamo, ma non riceviamo alcuna risposta. Noi continuiamo a domandare. Tutta la vita consiste di domande e noi esistiamo soltanto per il fatto che precisamente domandiamo, ma non riceviamo una risposta … ognuno è un incubo abbandonato a se stesso».

L’uomo non viene al mondo per rispecchiarlo col suo linguaggio e con i suoi sistemi simbolici. Sarà anche vero che questi gli consentono di resistere alla pressione altrimenti insostenibile dell’esistere. Ma va detto con chiarezza che difficilmente con essi potrà accedere alla propria essenza.

Il dato di fatto della nostra vita non è l’esistenza che vediamo e descriviamo, ma l’impossibilità di vederla così come essa è e di descriverla secondo logica.

L’esercizio del pensiero nel sentire e nel pensare contro è l’arte di far emergere quanto una concezione cristallizzata e gerarchica del sapere ci impedisce ormai di cogliere.

Il centro geometrico che l’uomo si è costruito come abitazione per proteggersi dal mondo a cui è stato consegnato, va trasformandosi in un presente fatto d’ingombri, sbarrato: esito di una forma mentale fondata esclusivamente sulla ragione.

Secondo Wittgenstein va presa coscienza che la nostra cosiddetta comprensione è soltanto una forma di cecità rispetto alla nostra incomprensione: «La difficoltà è riconoscere l’infondatezza della nostra credenza». Quell’infondatezza è l’unica condizione che ci fa essere.

Solo chi ha confidenza con la parola poetica tenta di spingersi oltre lo spazio fisiopsichico che lo trattiene e di farsi ricettore di segni «indicativi di una cosa oscura», come avevano per primi formulato gli Stoici.

Eppure non c’è grazia, ma solo dolore e sgomento nel congedarsi dalle cose ridotte a merce e nello spingersi fuori dalla luce, verso la propria notte, camminare dentro se stessi parola dopo parola, segno dopo segno discendere verso ciò che sembra rivelare qualcosa alla sensibilità.

Questa esposizione investe tutto l’essere da noi sperimentato. E per parlarne la lingua si priva di ogni ornamento. Solo così potrà dire ciò che è essenziale: l’assenso al silenzio e alla voce che nel silenzio è custodita. Perché, come in Hölderlin secondo Heidegger, «questo dire non è l’espressione del pensiero, ma è il pensiero stesso, il suo cammino e il suo canto».

Chi si affida ai livelli inconcepibili del sentire e del pensare non ci consegna alcuna certezza. Ma ci stimola all’interrogazione ininterrotta e ci ricorda che la radice dell’angoscia non è inscrivibile solo all’esistenza come possibilità, ma anche al grido che avvertiamo dentro di noi e che usa la nostra mente come semplice cassa di risonanza, per chiamarci.

Il cammino verso la profondità dell’essere, e dunque del suo fondamento, si compie in un continuo digradarsi della luce verso l’oscurità della materia.

Nel suo volgersi a ciò che esclude ogni rapporto, si espone ai segni del perturbante e, in uno scompiglio di limiti e conoscenze, costituisce un banco di prova per la scrittura.

L’Antiterra

Non è solo uno, Dio, vero? Sopra ce n’è un altro di

Dio?

Come si scrive nel luogo nuovo?

Cvetaeva

Il luogo del molteplice

Viviamo in una realtà dominata dai segni di un collasso verificatosi nell’ordine. Ogni senso che la presidiava è sprofondato nell’oscurità. Qui va cercato, in un faticoso inabissarsi del pensiero.

Non ha più corso l’idea di compiutezza ed è caduta la fiducia in un tempo che avanza rinnovandosi. Dove prima si affermava un assoluto armonico si apre l’Antiterra, nella sua evidenza di polvere sparsa. Ne è consapevole Hölderlin quando scrive che la divina unitezza è andata perduta e precisa: «Siamo in disaccordo con la natura e quello che un tempo era uno appare ormai come opposizione».

L’Antiterra è il luogo del molteplice. Nei suoi interstizi l’essere finito non può più comportarsi come se possedesse le certezze di un dio, né può determinarsi scordando che il tempo lo costruisce e decostruisce insieme.

Il tempo è l’estensore di una somma che conduce all’azzeramento. Ed è limitato lo spazio che finge di assegnarci tra il qui della vita e il laggiù della morte. Ecco perché ogni espansione del pensiero nella storia e nello spazio non è mai tale da farci superare la nostra finitezza e liberarci dall’infelicità. Quale unico successo resterà l’ascolto terreno della parola che si china verso il vuoto per accoglierlo: laggiù sono le voci che ci chiamano e ci rivelano che non siamo più soli com’era accaduto nella salita.

Le voci che prendono corpo nell’Antiterra sono l’altro del discorso e del pensiero (propriamente, l’antidiscorso e l’antipensiero), e danno corpo al testo che coglie nella fine le estreme possibilità dell’inizio, anche quelle rimaste impensate, e abbraccia alternativamente il proprio senso e il vuoto che lo circonda. Quel vuoto che corrode i bordi della scrittura, fino ad alterarne la compattezza, e produce tagli e innesti nella parola fino ad aprirla al silenzio della propria origine. Quel senso che dice di sé a condizione di un preliminare congedo dai sensi preesistenti, fino a consegnare il testo a una dimensione straniera. Sono espliciti a questo proposito i versi di Mandel’stam: «Mi piego alle umili radici / e guarda come divento insieme cieco e forte…».

L’idea della morte

In passato, l’Antiterra era stata interpretata come perdita di quella capacità espressiva che l’antichità aveva inaugurato e il rinascimento, riproposto.

L’Antiterra era stata scambiata per degradazione, caduta irreparabile: vero e proprio smarrimento nella selva dopo la cacciata dall’Eden.

In realtà, da quando la trascendenza ha perso la sua forza vincolante ed è ammutolita, l’uomo abbandonato a se stesso reclama, al cospetto del nulla, la sua libertà. In questo divergere da un fondamento metafisico s’inaugura il gesto filosofico della modernità, che non smette di interrogarsi sul senso del vuoto lasciato da questa perdita.

La falsa elevatezza che ci sta alle spalle lascia il posto al protendersi dell’uomo verso il principio del proprio essere finito: l’incompiuto. L’infinito, così com’è concepito dall’uomo, precisa Leopardi, è «un parto della nostra immaginazione».

Ma l’incompiuto non va confuso con l’approssimativo o, peggio, con l’incuria. È al contrario la risposta a un bisogno insopprimibile: togliere brillantezza alle luminarie della rappresentazione e portare nell’immobilismo la vacillazione.

La vita è nella morte che l’attende. E la morte è il termine dal quale il paesaggio esistenziale prende luce, consentendo un nuovo gesto e una nuova passione per la conoscenza.

L’idea della morte si è insediata nell’operatività artistica. La pianura s’imbatte nella spinta sismica. Il paesaggio viene attraversato da fenditure. Il termine ultimo non si trova soltanto a conclusione della nostra vita: si è insediato nei nostri pensieri. È commisto alla materia tutta. Diventa un elemento costitutivo dell’Antiterra, dove lampeggiano, allo stesso tempo, la vita e il suo declino.

Lo stesso io è diventato un momentaneo mosaico di pulsioni, stati d’animo, sentimenti discontinui: un’aggregazione continuamente scomposta.

La poesia deve rispecchiare il termine ultimo, emanarlo, diffonderlo intorno.

L’incompiuto è questa necessità di cui ogni cosa è proprietaria. È precisamente quell’impensato che nei vuoti della scrittura, nelle sue cesure, nelle sue cancellazioni, non ha mai cessato di scriversi.

L’incompiuto diventa così testimonianza di apertura e il concluso, di limitazione. Il primo si attiene al vero e tenta di aprire il testo all’impensato che lo attraversa. L’altro, alle garanzie di un muro. Si attua qui – in questa sospensione, indipendente da ogni sapere preliminare – la possibilità per il soggetto di congedarsi dai dispositivi formali del linguaggio e di liberare la sua zona d’ombra in cui interrogarsi come enigma.

Il destino di nulla dell’uomo

Come avrebbe potuto il cosmo, che al dire di Eraclito «non è stato creato né da dio né dall’uomo», restare mondo a disposizione dell’uomo? Nell’universo fisico della moderna cosmologia l’uomo non può più sentirsi a casa propria. E la lingua della poesia, così come il gesto artistico, può solo dire questa lontananza e nominare la sopravvenuta frattura.

Ne è consapevoleMichelangelo quando entra nell’incompiuto e ne fa un alloggiamento decisivo, spegnendovi l’avorio delle sue strutture plastiche. Dalla medesima consapevolezza sarà guidato il Greco quando deformerà verticalmente le figure e le strapperà al vincolo dei riferimenti naturali.

Tra incompiuto e deformato si svolge il rito della sconsacrazione. In questo passaggio va colta l’apertura di uno spazio sempre nuovo per il pensiero: una modalità con cui l’essere e il niente ancora si danno.

«Tutto è nulla» annuncia Leopardi. A partire da questo sapere l’uomo fa «esperienza originaria» di sé e dell’altro. Seguendone le tracce fino agli estremi confini del territorio metropolitano, dove gli spazi sono creati dal disordine, dall’irregolarità, dall’anomalia, dall’instabilità dei corpi: sono senza forma e misura, e in essi è costante la presenza di una nuova figura individuale, non tesa a riunire ciò che è separato, ma figura concreta che vuole il massimo di libertà negativa e materiale. La sua libertà non è più circoscritta da limiti dettati dalla natura o da un contratto sociale. Dai suoi percorsi illegali nascono spazi vuoti di significati simbolici, terre incolte e indefinite.

In questa moderna Wildniss la scissione e l’irregolarità sfidano l’armonia e l’ordine. E il poeta non può che andare verso, più che trovare dimora. Con la coscienza di dire da un luogo di separazione e lontananza: dal sacro, dal classico, dall’istituzione letteraria e politica.

Nella metropoli vige una parola tendenzialmente portata a quei minimi di senso prossimi alla cancellazione, unici depositari di autenticità per un soggetto che niente può trascendere. È l’Antiterra degli addii mortali. Qui nasce la poesia che pensa il destino di nulla dell’uomo.

Nozione di ospitalità

L’essere umano come poeta, come pensatore,

come Dio, come amore, come potenza.

Nietzsche

Nozione di ospitalità

Tutto ciò che esiste nel mondo rivelato ospita al suo interno una forza che lo destina alla fine. Niente, se non l’illusione, può impedirci di prendere atto che l’annullamento è il solo possibile esito dell’esistenza.

La voce del limite ultimo scuote il reale e rivela l’angoscia al fondo di ogni cammino.

È un grido di morte quello che gli esseri umani – atterriti – odono dal primo giorno della loro consapevolezza. Quello stesso grido sarà il certificato di nascita della comunità umana. E spingerà uomini e donne al risentimento, se non all’odio, nei confronti della natura.

Dal punto di vista dell’essere umano, infatti, la natura è mostruosa, perché, creando la vita e l’amor proprio di ogni vivente, ha reso la morte e il dolore centrali nell’esistenza di ciascuno.

L’approssimazione al nulla

Da limite a limite, il percorso di formazione può essere seguito attraverso uno sguardo che veda il pensiero rinunciare alle ali degli angeli per cogliere lo stretto rapporto tra essere umano e nulla, e dolorosamente annegare.

La poesia reca in sé questo sguardo e ne mantiene l’angolazione verso dopo verso.

La vita è questione di spazio e non di tempo. Invecchiare è avanzare nel buio, conoscere la notte a fondo prima di cadere. Invecchiare non è lo smarrimento nella selva oscura, né una prova divina; ma la brusca e irrevocabile interruzione del nostro passaggio sulla Terra.

Nella nostra dolorosa approssimazione al nulla, il limite ultimo è ogni limite e la direzione è quella che va dalla notte al buio. La ripetizione è ripetizione ogni volta rinnovata di un percorso verso la fine.

Solo nel presente c’è una tregua. Sul presente riusciamo a tenerci in bilico. Nell’oltre non c’è scudo. Oltre c’è la paura. C’è il futuro, se «futuro» può essere definito questo processo distruttivo in cui è evidente, insieme all’abbandono del pensiero, il riposo delle emozioni, vera e propria esperienza simbolica della morte.

La penultima pagina dello Zibaldone

Che la morte sia inevitabile e che con la sofferenza ci costituisca è un’evidenza prima; non ha bisogno di dimostrazione. Eppure noi insistiamo a inscrivere morte e sofferenza come voci in passivo di una tabella statistica. E tendiamo ad attribuire significati palesemente falsi al nostro dolore. E rifiutiamo di credere che l’immortalità sia un’illusione che la luce del vero dissolve.

Accettare che le cose spariscano significa accettare la nostra caduta; e prendere atto che il buio avanza su noi, escludendoci dal futuro.

Ne era ben consapevole Leopardi se nella penultima pagina dello Zibaldone (4525) scriveva: «Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l’una di non saper nulla, l’altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte».

Il diritto alla verità

È attraverso l’hairetikós (propriamente: colui che sceglie) che nella trama illusoria della nostra storia irrompe talvolta un frammento di verità. Quando accade, acquista evidenza l’insensatezza dell’esistere e la nostra stessa storia crolla nell’insignificanza.

Ricusare l’illusione come categoria significa pensare nella direzione della fine. E la fine reclama la conferma del nulla che l’uomo è.

Sarà Leopardi a liberarci per sempre dalle illusioni e dunque da un destino deciso da altri. Pronunciando la penultima parola – il nulla – ci condurrà a farci carico della verità.

«Il nihilismo è alla porta» soggiungerà Nietzsche, annunciando l’avvento del «più inquietante degli ospiti».

L’angoscia mortale

Noi siamo eterni solo nella nostra fugace apparizione su questa Terra, nello sfiorire graduale della speranza, nel dischiudersi precipitoso della caducità.

La nostra unica salvezza risiede nella coscienza di operare nello spazio limitato che si forma tra due cadute, nella comune fragilità.

Ne sa qualcosa il poeta che fa del nulla non uno schermo di fronte a cui distogliere gli occhi, ma piuttosto il centro stesso della vita. Tanto che la sua creazione poetica si rivela come l’appropriazione di un qualcosa che non può essere posseduto interamente e una volta per tutte.

Ecco perché la poesia rende tangibile l’instabilità perpetuamente mitigata della nostra condizione. E riesce a riconoscere nel nulla il principio che converte l’essere umano nella libertà. In tale processo, la poesia disancora l’essere dal principio di ragione e lo espone non solo al poter essere altrimenti ma al poter non essere.

Esattamente come le nostre idee, siamo eterni solo nella nostra angoscia mortale. Un’angoscia che sfida l’atmosfera trasognata degli inganni e delle illusioni. E impedisce di rifiutare il proprio destino.

L’ospite

Eppure dalla china dell’orizzonte ultimo del monte il viaggiatore

non porta a valle un pugno di terra, a tutti indicibile,

ma una parola conquistata […]

Noi forse siamo qui per dire: casa,

ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutto, finestra,

al più: colonna, torre… Ma per dire, capisci,

per dire così, come nell’essenza le cose stesse

mai hanno inteso d’essere.

Rilke

L’ospite e le cose

Mettersi su ogni strada offerta dal mondo significa accogliere tutto del mondo. Significa non scartare alcuna possibilità e riconoscere l’oscillazione di senso propria dei fenomeni di cui viene fatta esperienza.

Quando osserviamo un fenomeno, noi possiamo con pazienza enumerarne i molteplici aspetti e sentirli interdipendenti. Ci è concesso, entro un certo perimetro di sicurezza, di attribuire a esso un carattere che lo preservi dall’incomprensibilità e dall’insidia del nulla. Entro questo limite, possiamo godere di una sufficiente tranquillità.

Dice Socrate: «Le cose hanno ciascuna un suono, una figura, e molte anche un colore». Ebbene, quel suono, quella figura e quel colore sembrano rappresentare proprio la trasparente prossimità a noi delle cose, nello spazio e nel tempo del loro apparire.

Eppure quando cerchiamo di gettare ponti tra fenomeno e fenomeno, tra fenomeno e cosa, tra cosa e cosa, vediamo accumularsi sulle nostre operazioni dubbi che ci sconfortano e questioni che minacciano la validità dei procedimenti adottati. Se sono accettabili i singoli termini e qualcuno dei risultati conseguiti, ci appare errata o quanto meno manchevole la conclusione.

«Noi forse siamo qui per dire», scrive Rilke, «… per dire così, come nell’essenza le cose stesse / mai hanno inteso d’essere». La parola poetica porta avanti questo compito con estrema precisione. Il suo è uno sguardo appassionato sulle cose e sulla loro luce oscura. È un approssimarsi alla loro figura, al fine di percepirne anche il più lieve movimento, tra suoni e colori. È una ricognizione per tendere un agguato alla loro lingua.

Ma non c’è simmetria nel rapporto tra parola e cosa. Quest’ultima, infatti, tende a occultarsi alla parola che chiede di coglierne l’essenza. Nel suo celarsi, la cosa sottopone i fenomeni che la manifestano a metamorfosi rapidissime, di cui la parola non può afferrare che gli effetti più evidenti. Proprio per questo tenace negarsi, i nostri margini di libertà nel dire diventano ridottissimi e mostrano quanto sia illusorio il nostro crederci vicini al cuore delle cose, di cui alfine dobbiamo imparare a vedere anche l’ostilità.

Il carattere di ogni procedura cognitiva – che abbia per oggetto, oltre che la parola «conquistata», l’ospite che la pronuncia e le cose – conduce al tema dominante: il desiderio di decifrare il mondo con sufficiente chiarezza pur nella precarietà degli equilibri su cui contare.

L’ospite e l’opera

Creare un’opera significa disporsi a un’attesa, dopo essersi incamminati su ogni strada offerta dal mondo.

Nell’opera, a un’accensione interna corrisponde un’accensione esterna di pari intensità. L’opera parla senza interpreti con la stessa voce del luogo segreto che deve portare alla luce. È la bolla d’aria che da un fondale buio va a esplodere in superficie: una pellicola sensibilizzata da immagini contrastanti: una membrana ricevente che non può arginare né selezionare gli stimoli che la investono.

Scrive a tale proposito Musil: «Il pensiero non è qualcosa che osservi ciò che è accaduto interiormente, ma è questo stesso accadere interiore. Noi non ci mettiamo a pensare su qualcosa; al contrario, qualcosa è emergente in noi pensanti. Il pensiero non consiste nel fatto che vediamo chiaramente ciò che si è sviluppato in noi, ma nel fatto che uno sviluppo interno si estende fino a questa zona chiara».

Nel mondo, la presenza è costretta a muoversi sul terreno dell’assenza, a lasciarsi disvelare dal suo stesso sottrarsi. Questo andare verso è anche un permanere… un continuo offrirsi all’aperto che Heidegger chiama Inständigkeit, insistenza…

Creare un’opera significa dunque dare continuità a questa procedura creativa; perfezionarla; sospingerla in zone ancora più spettacolari e spericolate; negarle qualunque possibilità di assestamento; affondare le mani nel serbatoio di un magma profondo in perenne mutazione.

Ecco perché il poeta aderisce a quel pensiero che è un rispondere a quanto si annuncia prima che l’indagine conoscitiva inizi la sua azione di discernimento. E fa sua una concezione instabile della forma, estranea a ogni sorta di controllo sulle emozioni.

Ecco perché l’opera diventa il prodotto di un’esposizione e, insieme, di un ascolto nei confronti del mondo.

Il poeta conosce il distacco dalla conoscenza piena; sa di essersi incamminato verso quel mondo che dà ospitalità a tutte le strategie di percezione dell’essere. O forse sta inventandone di nuove. E torna a lasciarsi sopraffare dalla lingua muta delle cose, a subire la minaccia del silenzio, mettendo in conto manualità elementari, imperfezioni tecniche, automatismi.

Il problema dell’unità di espressione, come fedeltà a se stessi e come riconoscibilità, viene emarginato.

Il poeta si avventura su quel suolo originario dal quale nascono sequenze di suoni affini, grumi disordinati di sillabe, balbettii, afasie. E domanda a sua volta: cosa significa pensare quando il pensare si rivela come qualcosa di molto diverso dal possedere?

L’opera che non passa attraverso il controllo delle emozioni assume il carattere d’involontaria bellezza e impone una diversa logica del rapporto tra parola e senso. Accetta che qualcosa sia Inständigkeit, ma anche hairesis. E si dà alle cose, e consente che abbia voce quanto alle cose è più proprio: il loro tempo: il presente.

La pluralità espressiva promuove una situazione precaria ma esaltante: creare un’opera affrancata da ogni schiavitù a un ordine manifesto del sentire. Al monolitismo di una sigla il poeta cerca di sostituire la frantumazione dello sguardo.

*Tutti i testi sono tratti da: Flavio Ermini, Antiterra, I Libri dell’Arca, Joker, 2006.

Flavio Ermini

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