PRESENTE MA SEGRETO. Per Flavio Ermini

Antiterra riunisce in un solo volume dieci anni di editoriali in cui Flavio Ermini ha espresso, per «Anterem», il suo pensiero sulla poesia. Fondata nel 1976 dall’autore e da Silvano Martini, questa rivista si è subito definita come laboratorio di ricerca sulla natura del pensiero poetico. Come scrive lo stesso Ermini: «Il nome “Anterem” – così com’è composto dai due termini “ante” e “rem” – si riferisce alla parola che ancora non si identifica con la cosa designata. Si rivolge, vichianamente, alla parola che precede le forme tipiche della riflessione, del pensiero. Alla parola che ancora non ha varcato quel limite oltre il quale la rappresentazione del mondo comincia a scindersi in classificazioni. Questo nome, “Anterem”, porge attenzione, esplicitamente, al valore prelogico della parola, la quale è chiamata a essere il luogo di raccordo fra percezione e sensibilità, tra sentire e pensare. La stessa fusione dei due termini “ante” e “rem”, con lo spostamento dell’accento tonico, vuole indicare graficamente quel tratto dove sentimento (cioè il sentire) e ordine razionale (cioè il pensare) vengono a costituire qualcosa di unico e indivisibile. Quel tratto dove viene portato a parola il taciuto, ripristinando l’inaugurale coappartenenza tra silenzio e voce. Il silenzio da cui la voce è nata e che in sé la voce continua a custodire».

Con questi editoriali, che si estendono dal n. 51 del 1995 al n. 71 del 2005, Flavio Ermini ha scritto un libro sotterraneo, ostinato e utopico – un libro che per dieci anni è rimasto nascosto nei diversi numeri della rivista, frammento presente ma segreto. La sua necessità, ora che appare come volume autonomo, si percepisce come dono sorprendente e non inatteso. Scorriamone i titoli.

= 0. Uguale a zero. Ante Rem. L’Aperto. Metaxy’. L’Altro. Epoché. Eterotopie. Endiadi. Nomothetes. Poros e Penía. Grados. La poesia pensa. Antipensiero. Il perturbante. Segni del perturbante. Lo straniero. Pensare l’Antiterra. L’Antiterra. Nozione di ospitalità. L’ospite. Sembrano i capitoli di un romanzo di iniziazione filosofica. Dal rigore della forma esatta alla inesprimibile sostanza del vuoto, dalla phoné della parola all’utopia del linguaggio, dall’esperienza dello sradicamento ai segni del perturbante, dalla verità dell’origine alle finzioni del poiein, ci si aggira in un fertile territorio di molteplicità e di ambivalenze dove «non c’è “via regia” che dia accesso diretto alla realtà e al testo». In queste sequenze di poetica – che sarebbe più appropriato chiamare preludi – si delinea una traiettoria teorica ondivaga, vicina a un fascinoso impressionismo e a una misteriosa umbratilità del pensiero, in un dialogo sempre aperto con la poetica delle cose e che, come suo nucleo segreto, custodisce la possibilità che l’opera venga alla luce esattamente come il movimento, opposto e parallelo, del suo annullarsi.

Pascal Quignard, in Taciturio, ci indica una strada simile: «Il libro mantiene il silenzio. Lo “custodisce”». E distingue fra la passività del «tacere» e il bartlebyano, decisivo «aver voglia di tacere». Si può aver voglia di tacere disegnando e ridisegnando parole. Questa è la strada intrapresa da Ermini. Antiterra non è un progetto di rovesciamento di qualche terra conosciuta, non è l’antiutopia del delirio opposto alla logica del senso, secondo un’antitesi scialba e risolutiva: è il lavoro ostinato dell’assenza e del vuoto dentro e oltre i confini della parola poetica. Ma, appunto, è di lavoro che si parla. «Dove prima si affermava un assoluto armonico si apre l’antiterra, nella sua evidenza di polvere sparsa…L’Antiterra è il luogo del molteplice». Ma la «polvere sparsa» del molteplice si riordina secondo intervalli, improvvisazioni, sequenze, come in una partitura. «L’incompiuto non va confuso con l’approssimativo… L’incompiuto è questa necessità di cui ogni cosa è proprietaria. È precisamente quell’impensato che nei vuoti della scrittura, nelle sue cesure, nelle sue cancellazioni, non ha mai cessato di scriversi».

Ermini non cessa di delineare le sagome di questa assenza, simile a un pittore che nella sua arte evidenzia le forme vuote di cui va servendosi. L’architettura formale sottesa a queste prose ci indica che il terreno, l’antiterreno di queste riflessioni, è il farsi stesso della poesia, che si disgrega e si ricrea. Ma, lontano da certe prove sperimentali che utilizzano il linguaggio soltanto come sterile combinazione di significanti, qui l’autore si impegna a trattenere ferma, dentro di sé, una zona di resistenza teorica, intessuta di divagazioni in apparenza fantasmatiche ma in realtà limpidissime. E si appropria, da possidente smemorato, di una zona di assenza ben riconoscibile. «La scrittura è definita dall’azione simultanea di due movimenti di verso opposto. Entrambi rivolti all’alterità e abitati dai segni di un collasso verificatosi nell’ordine. Entrambi situati su margini da sempre soggetti a profonda instabilità e per questo lasciati in ombra dalla direzione teleologica della storia. È precisamente questa mancanza di fondamento che produce il manifestarsi di un senso mai pienamente presente, ma che si dà come differimento continuo, traccia». L’autore insegue un miraggio aderente all’orizzonte, intenzionato a non perderne la traccia. C’è una mite, elegante violenza nel suo resistere alla soglia della parola poetica, lontano da tentazioni oracolari – una soglia fatta non di tenebre ma di sfumature umbratili, evocate con affabile e insistente persuasione, anche se ogni persuasione contiene, in sé, l’enigma della sua incomprensibilità. «Va detto con chiarezza che solo lì, in quel cuore di tenebra, è possibile incontrare l’ingens sylva dello stato demonico dell’esistenza umana. Non tensione verso l’alto ma discesa: dentro la pietra scavata, nel corpo a corpo con la polvere». L’elaborazione di un pensiero filosofico scorre parallela all’espressione di concetti poetici non giustificati da nessuna logica ma coerenti soltanto con la loro necessità e il loro mistero. «Al poeta interessano quelle voci del limite che nella complementarità o nell’esclusione documentano le caratteristiche di terreni accidentati, irriducibili a ogni abitudine cognitiva ed esistenziale».

Il poeta, per Nanni Cagnone, «non ha una sfiducia storica o teoretica nel linguaggio, né un eccesso di fiducia nei fortunati luoghi della topica freudiana. […] Confida di trovare un accordo con ciò che la mente ha svelato per lui: un accordo senza guarigione, “difettoso”, ma che gli lasci tenere il sentimento della cosa con sé, come nell’oscurità un barlume». Ermini cerca il «sentimento della cosa» e trova «nell’oscurità un barlume», come un compositore seriale che non smette di intonare la stessa nota in costanti variazioni, cesellando e cancellando. Come scrive l’aforista colombiano Nicolas Gomez Dàvila, «ogni scrittore glossa all’infinito il suo breve testo originale». Antiterra è questa interminabile glossa, esposta con dolente e gaia insistenza. I testi-preludi inseguono un blanchotiano livre à venir, tessuto negli anni con paziente segretezza – libro ipotetico, perché nessun testo compiuto può soddisfare la poetica di Ermini, e libro possibile, perché tutti i testi o sono qualcosa di meno o qualcosa di più rispetto al desiderio che li genera e alla forma che li limita. La poesia abita da sempre nell’«Antiterra», in quel «vuoto cocente del testo» che Celan ben conosceva e che non ammette vaghezze o esitazioni. Alcuni poeti interrogano il senso, lo inaugurano, lo lacerano. Altri lo chiudono in formule sterili, come certi artisti che serializzano lo stesso gesto per anni, a sigillo di un lavoro cristallizzato e già concluso.

Ermini non chiude e non sigilla. Cerca «una lingua sconosciuta, non ancora sottomessa al controllo della coscienza: la lingua dei poeti», consapevole che le parole di questa lingua resistono a ogni retorica che voglia arrestarne l’incessante metamorfosi: «Alla forma del deserto corrisponde uno svanimento della sostanzialità delle cose, un infittirsi della caduta, un venir meno… che per la poesia è un terreno inesauribile e fecondo, un suolo enigmatico».

Ora che è in corso la quinta serie della rivista, l’autore continua a interrogarsi sul destino di «Anterem» e scrive: «”Anterem” vuole indurre il lettore a uno sguardo che non sia più rivolto alla poesia, ma che muova dal suo interno. Ma quale sguardo? In quale soffio di pensiero? Verso quale esperienza? Torna a farsi avanti con forza l’imperativo di Hannah Arendt: «Denken ohne Geländer», pensare senza balaustre. Per aprirsi all’antipensiero: non a ciò che si oppone al pensiero, ma al suo volto in ombra. Pensare senza balaustre significa infatti approssimarsi a quell’originario ante rem che rifiuta di articolarsi nella sintassi della ragione. Significa partecipare al formarsi dell’essere quale custode della differenza. Significa esporsi alla libertà del senso e al senso della verità».

Non siamo troppo lontani, nella sostanza, dall’antica intuizione di Blanchot: «Così, prima dell’opera, lo scrittore non esiste ancora; dopo l’opera non sussiste più: è come dire che la sua esistenza è soggetta a cauzione, e tuttavia lo si chiama “autore”! Più correttamente lo si dovrebbe dire “attore”, quel personaggio effimero che nasce e muore ogni sera per il fatto di essersi dato esageratamente a vedere». Ermini si mostra autore/attore invisibile di un progetto che, essendo pro-iectum, sta ancora cercando il suo futuro. Rimane da chiedersi come guardare questo futuro. Un’immagine ci soccorre: vedere il passato come un muro di fronte a noi, il presente come il tempo che stringiamo oggi nel pugno, e il futuro in quel paesaggio, appena dietro la nuca che, per essere visto, richiederà sempre una torsione del capo e un’obliquità dello sguardo.

(M.E., 2005)

Note

Le citazioni in corsivo sono tratte dai capitoli di Antiterra. Si sono anche consultati i seguenti testi: Maurice Blanchot, Après coup, précédé par Le ressassement éternel, Paris, Éditions de Minuit, 1983 (trad. it. G. Zuccarino); Nanni Cagnone, Per somnium, stasera, in Avvento, Bari, Palomar, 1995; Nicolas Gomez Davila, In margine a un testo implicito, Milano, Adelphi, 2001; Pascal Quignard, Taciturio, da Petits traités, Paris, Maeght Èditeur, 1990 (trad. it. L. Frisa, in «Arca 6», Genova 2000).

Flavio Ermini

Lascia un commento